Recidivo di Guido Piovene

Recidivo Recidivo Conosco uomini, e io sono unoi di essi, che hanno una specie di genio di lavorare contro genio. Una seconda ma imperiosa natura li obbliga a fare quello per cui provano meno gusto. Non so se devo dirlo proprio nel mio giornale: aborro le notizie, ne farei volentieri a meno, e non sento la minima vocazione didascalica. La ragione per cui sono venuto al giornalismo, nel quale opero da anni con una passione caparbia, è che fra tutte le professioni possibili questa è • quella a cui nacqui maggiormente negato. Perciò l'esercitarlo è il massimo sforzo ch'io compio per acquistare cose non richieste dalla mia indole, ma dalla volontà morale. Considero il giornalismo quasi un correttivo perpetuo all'astrattezza, alla pigrizia, all'eccesso di fantasia. Questa confessione non è una dimissione, tutt'altro. Il primo requisito di un buon giornalista, ritengo, è quello d'essere pochissimo giornalista. Se non altro perchè resti immune da stupidaggini come i « colpi » sensazionali (che quando non sono fandonie sono cattive azioni), la tecnica del mestiere (che non è mai esistita), le molte informazioni «(al posto della ragione), le inutili interviste (al posto delle conversazioni tra uomini). Ma forse in tutti i campi il miglior lavoro è quello che si compie per metà con se stessi, per metà contro. Ci siamo però incamminati in un discorso troppo lungo e noioso. L'ho incominciato solamente porcile mi sono ricordato del mio amico Scarpa, un altro giornalista non giornalista, che ho ritrovato a Treviso. Gino Scarpa era il redattore capo del mio primo giornale, il defunto « Ambrosiano » milane se. Uomo d'intelligenza tra le più fini, anch'egli era refratta rio al mestiere prescelto, tanto che, appena ci vediamo, ci intendiamo subito. Ammise una volta con me che quella massa di notizie, quella fretta, quella mania di uscire in tempo per non perdere i treni, provocavano in lui una sonnolenza cronica, che era poi un modo di difendersi. Ma la passione negativa (una vera passione anch'essa), la passione contro se stessi di cui ho parlato poco fa, non esisteva in lui, o almeno non era profonda. Perciò lasciò i giornali e si ritirò in provincia, dove legge Virgilio e Bau delaire, che sono, se non erro, tra i suoi preferiti, e anche i contemporanei, ma con distacco e con opinioni da postero. Vive scapolo in, una casa di mobili ottocenteschi e dalle tende grevi, spegnendo ogni tanto la luce per rimanere sveglio su una poi trona a contemplare il buio; cura bellissime edizioni di opere classiche e moderne; va ogni giorno al cinematografo. Il suo pensiero dominante è la lettera tura, che vede in una luce di ascesi e di perdizione. L'arte per lui è una discesa tra le ombre, compiuta in solitudine, da cui non si torna più indietro. Detesta tutto quello che si avvicina al giornalismo, per esempio il turismo, ed infatti è una guida eretica della sua città. La sua conoscenza dei-luoghi, compreso quello dove vive, è la stessa di chi camminasse a occhi chiusi, per aprirli soltanto sotto lo sti molo di un'illuminazione. Ignora tutto quello che segnala il Baedecker; se si andasse a Roma con lui, non si vedrebbero nè San Pietro nè il Colosseo Venticinque anni fa, quand'era all'* Ambrosiano », aveva esco gitato una sua teoria, che gl permise di tentare un giornali smo più conforme alle sue pre dilezioni. « Il fascismo, — diceva, — ha escluso i cittadini dalla politica. Che cosa può fare un Paese esentato dagli affari pubblici? Letteratura, arte, cultura, che invece il fascismo non interessano; e questo faremo an che noi ». Tentò perciò di com pilare un quotidiano politico sen za politica, per quanto il direttore lo lasciava libero. Al posto dell'editoriale usciva in prima pagina un articolo su Giovanni Verga o su Le Corbusier; e nel le pagine restanti, polemiche letterarie, musicali, sull'architettu ra, con indulgenza per le nostre intemperanze giovanili. Che il suo ragionamento non fosse giusto, lo mostrarono i fatti. 11 potere politico non tollerava assenti. Un giorno giunse l'ordine che in ricorrenza di una data celebrativa, credo il 24 maggio, gli articoli di terza pagina raccontassero tutti un episodio bellico, patriottico, eroico. Fui convocato anch'io, che avevo allora ventidue o ventitré anni; dovevo scrivere un articolo patriottico per l'indomani. Tornato a casa, messomi a tavolino, per quanto rovistassi tra i miei ricordi, non riuscivo a trovare nulla. Al tempo della prima guerra mondiale ero un bambino, e l'avevo trascorsa' in villa, dove si poteva mangiare, o scappando tutte le volte che c'era un'offensiva austriaca. Pure, andando ancora più indietro, proprio agli albori della vita, rammentai un episodio che mi parve adatto. Mi rivedevo appollaiato, nel giardino di casa mia, tra i rami di un vecchio tasso, albero cu¬ pstlausAnbnvrcdptdqtsdszctrmsdmcNcgssacmmccsivplcvs e 1 e a , a a r e a , a l i ¬ po, dalle foglie d'un verde nera- Astro d'inchiostro, che porta frut- ati color cremisi dai quali spun- rla un seme nero, pieni di un lumore vischioso. Era appena scoppiata la guerra italo-turca. Avevo chiesto in casa, come fanno i bambini, quanti soldati arabi e turchi avessero combattuto non so quale battaglia; per levarsi la seccatura, mi avevano risposto: mille. La ragione per cui mi ero rintanato lassù era di contemplare in pace quella parola « mille » che, incarnata in tanti soldati e sullo sfondo del deserto, risvegliava dentro di me quasi l'idea narcotica dell'infinito. Direi che, ripetendola nascosto tra le fronde dell'albero, mi drogavo; e provavo, nel tempo stesso, un sentimento di attrazione per i soldati, arabi e turchi, che impersonavano l'infinito dei numeri. Mentre li ammiravo in silenzio, la governante mi stanò, dicendo : « Adesso smettila di fare il gufo; è ora di andare a passeggio ». Salimmo al santuario di Monte Berico, ma io ero d'umore nervoso. Nella piazza sostavano gruppi di contadini in pellegrinaggio, mangiando frutta con focaccia. Forse uno di essi posò su di me lo sguardo, con quell'espressione assorta ed insieme interrogativa che i contadini hanno spesso nel masticare; questo o altro non so, ma mi esaltai tutto ad .un tratto. come.se avessero premuto nel mio corpo una molla. Mi gettai verso un gruppo, gridando: « Viva i turchi e gli arabi! ». La governante sgomenta volle acchiapparmi; le sfuggii, feci il giro della piazza, portando da un crocchio all'altro l'incitamento sovversivo. La donna, che era obesa e lenta, mi veniva dietro; e, voltatomi per beffeggiarla, dalla sua faccia lagrimosa e furente capii d'averla fatta grossa. Impaurito a mia volta, infilai la discesa del monte verso la città, sempre con la donna alle spalle che mi implorava e minacciava. Capita anche nelle circostanze più gravi, quando si è spaventati di un'azione commessa, di insistere nel ripeterla fino a sprofondarvi dentro. Scesi perciò tutta la china gridando: «Viva i turchi e gli arabi », e giunto alla città, imboccato il corso, continuai a gridare sgusciando tra la gente che passeggiava e mi guardava sbalordita; finché, viva i turchi e gli arabi», entrai di corsa nel portone di casa mia. La donna esausta e in lagrime giunse un attimo dopo. Finalmente fui preso; ecco la famiglia riunita, con me in un angolo, a sentire la relazione del la vittima, strozzata dal pianto e dal fiato grosso. <t Gridava: viva i turchi! ». Io, già pentito, ma credendo più facile ottenere il perdono mostrando il mio rispetto per la verità oggettiva, precisai: «I turchi e gli arabi», e buscai uno schiaffo. A racconto finito si sparse un'atmosfera d'ansia. D'accordo che nessuno avrebbe mai potuto rendere responsabile delle parole pronunciate un bambino della mia età. Ma appunto per questo qualcuno poteva forse dubitare ch'io ripetessi frasi udite in famiglia. Sion avrebbero giudicato la mia dimostrazione come un riflesso ingenuo alle suggestioni segrete di un ambiente immorale? Eppure in casa mia tutti erano patriottici; non solo non potevano avere pronunciato una simile frase ma, guardando dentro di sè, non trovavano l'ombra di un pensiero nemmeno inconscio che le assomigliasse. Ero dunque colui che potevo attirare sulla famiglia un grave ed ingiusto sospetto. Chi poteva accettare d'altra parte la scusa che la colpa era tutta della parola « mille »? Per un paio di giorni i miei vissero insomma con un po' di paura in corpo. Ma non vi furono proteste, la mia dimostrazione passò inosservata, e la nube si dissipò. Trovato questo episodio di guerra lo raccontai un po' più lungamente nella pagina patriottica dell'« Ambrosiano ». Lo portai all'ultimo minuto; il direttore del giornale era in viaggio. Scarpa mi domandò: «Va bene? », ed avuta da me una risposta affermativa, consegnò le cartelle in tipografìa. Talvolta non leggeva prima le nostre prose, ma si compiaceva molto di leggerle, discuterle, criticarle dopo stampate. Uscito il giornale accese uno dei sigari toscani che spuntavano in fila dal taschino e seduto in poltrona cominciò la lettura. Appena giunto al mio articolo fece un salto e mando un fattorino a chiamarmi. Ero diventato pazzo? Mi pareva che fosse quello un articolò patriottico, intonato con l'altro di Tizio rievocante il Carso, di Caio sulla difesa dell'Ortigara e di Sempronio sul Montello? Contemplavamo insieme, il foglio in mano, costernati, il carattere irrevocabile della mia azione. Il giornale già si vendeva nelle edicole della città e già viaggiava verso Roma. Non c'era che da attendere il sequestro, l'inchiesta e le sanzioni personali. La voce del pericolo si diffuse. I redattori giunsero in anticipo nel pomeriggio; sedevano in silenzio, guardandomi un po' di traverso, caso mai la mia colpa .non ricadesse anche sugli innocenti. tvgSuvdIfMmmitfdguslmplsmrrdav«1 Anch'io sedevo insieme con g'i altri ad attendere. Ad un since ro sentimento di colpa si mesco lava, altrettanto sincero ma mol- to più dissimulato, il piacere vivo a vent'anni dì mettere nei guai tante persone in una volta. Se suonava il telefono, che in un giornale suona ogni minuto, vi era qualcuno che diceva guardandomi: «Sarà la Prefettura». Invece passò la giornata e la Prefettura tacque. Allora si disse: a Milano non se ne sono accorti; ma a Roma si legge tutto. La mattina dopo passò, passò anche il pomeriggio, spuntò l'alba del terzo giorno: Roma non si era fatta viva Dilagò il buon umore del passato pericolo, ed 1 colleghi mi portarono a colazione in un ristorante del centro. Per curioso ricorso, il medesimo fatterello, una parola « mille», un innocente grido di ammirazione per i fez e i turbanti, provocò intorno a me due volte l'identica scena di facce ansiose ed aggrondate, nella mia famiglia e al giornale; un evento ritornò due volte, come nelle rievocazioni spiritiche, generando le stesse paure negli anziani, attese di reazioni che poi non vennero, e lo stesso finale da « molto rumore per nulla ». Guido Piovene

Persone citate: Gino Scarpa, Giovanni Verga, Le Corbusier, Scarpa

Luoghi citati: Milano, Roma, Treviso