La sorte dei missionari

La sorte dei missionari VITA RELIGIOSA BELLA CINA La sorte dei missionari (Dal nostro Inviato spoetale) Sciangai, gennaio. Eccomi al momento di raccontare quel che è capitato ai missionari stranieri e quel che succede ai cattolici cinesi. Per prima cosa dirò che essi hanno all'Assemblea nazionale di Pechino tre deputati: uno di questi si chiama Hu Wen Yao e si è laureato nel 1925 all'università francese di Sciangai. Andandolo a trovare non ci fu finalmente bisogno d'interprete. Anzi, mentre tutti sedevamo su comode poltrone nella casa del deputato, l'interprete si addormentò forse stanco dei nostri discorsi. Era il secondo personaggio cattolico e, per così dire, ufficiale che incontravo per un colloquio sulla situazione religiosa. 11 primo era stato monsignor Li Ciun \Vu, vicario generale, e gli avevo fatto visita durante il mio soggiorno a Pechino. L'uno e l'altro mi raccontarono le stesse cose, magari con qualche variante che più sotto ricorderò; ma nell'insieme le due versioni concordavano nel dipingere il quadro di quel che era accaduto ai missionari ed ai cattolici cinesi. Secondo il loro parere nulla di eccezionale e, soprattutto, niente di oscuro. Per farmi capire queste cose, monsignor Li tentò di cominciare le sue spiegazioni molto da lontano, citando il missionario Alberto Ricci che era arrivato in Cina più di tre secoli fa. Lo pregai di tralasciare le storie antiche e di giungere subito al 1949, anno in cui Mao Tse Tung inaugurava a Pechino la Repubblica Popolare cinese. Prima monsignor Li e adesso il deputato Hu sono d'accordo nel dirmi che per lo spazio di un anno non c'erano state novità. I 3500 missionari stranieri (americani, italiani, francesi, spagnuoli, canadesi, belgi ecc.) stavano allora insospettiti a vedere che cosa sarebbe accaduto. Ma nel 1950, quando si cominciò la riforma agraria, molti terreni delle missioni, come d'altronde quelli dei ricchi proprietari cinesi, vennero confiscati. In quel periodo una parte dei missionari si mise a fare sott'acqua propaganda contro la riforma, incitando i fedeli a non collaborare; un'altra parte capì che la faccenda prendeva una piega drammatica e piena di spavento fuggì via. Tali notizie, per specificare, mi venivano date con molta calma da monsignor Li ed io mi permisi di interromperlo. Gli dissi che avevo conosciuto dall'Africa al Brasile, dall'India alla Patagonia missionari buoni e meno buoni, ma non avevo mai sentito dire di qualcuno che avesse abbandonato il proprio posto. Allora monsignor Li si corresse dicendo: «Certo, forse non fuggirono, ma chiesero di andar via perché si trovarono senza mezzi di sostentamento ». Più sottile e senz'altro più nel vero, il deputato Hu Wen Yao mi dette un'altra spiegazione del momento in cui sorsero le prime difficoltà per i missionari stranieri. La riforma agraria e la confisca dei beni, il controllo delle scuole e degli ospedali che le missioni possedevano nelle città sono avvenimenti che restano sullo sfondo, ma non sono determinanti nel creare una certa situazione molto difficile da sostenere. Questa situazione maturò ai primi del 1951 quando si formarono i comitati di « Riforma della Chiesa cattolica » : allora si desiderava chiamarla « indipendente » e poi, con maggior tatto, si decisero per la qualifica di « patriottica ». Quei comitati, mi disse monsignor Li, non pretendevano nulla di irragionevole e nessun comunista, mi precisa il deputato Hu, non vi ha mai fatto parte. Si trattava di mettere in azione un programma, suggerito di certo dal potere politico, che fu poi detto delle tre autonomie. Esse sono: prima, quella finanziaria, cioè la Chiesa 'cattolica in Cina deve vivere con danaro cinese, senza ricevere aiuti dall'estero; seconda, quella nazionale, cioè il clero deve essere formato soltanto da cittadini cinesi; terza, di insegnamento e di propaganda, cioè bisogna che siano i cinesi a fare caso mai nuovi proseliti e bisogna che tutti siano pronti a collaborare con il governo, aiutandolo nella realizzazione delle riforme Domandai a monsignor Li (e riferisco anche questi minimi particolari perché servono a far capire presto in quale giro mentale ci troviamo chiusi) se la collaborazione dei missionari era cosa impossibile e mi rispose : « Certo, perché non erano soltanto preti, ma anche agenti politici stranieri ». La stessa domanda, rivolta al deputato, ebbe diversa risposta o, meglio, ebbe una risposta diyagatoria, ma intelligente. Fingendo di capire soltanto in parte quel che gli chiedevo, mi disse: «Ritengo la cosa possibile, cioè i cattolici possono collaborare con il nuovo governo comunista. Se non fosse così, tre milioni di cinesi dovrebbero lasciare la Cina ». Ho detto dunque quel che chiedevano 1 comitati di riforma della Chiesa. Essi, reclamando il rispetto delle tre autonomìe, mettevano senz'altro fuori dalle parrocchie, dalle scuole, dalle università tutti i missionari stranieri. Erano richieste manovrate con mano paziente, erano manovre aggiranti, un piccolo passo ogni giorno, che però rendevano la vita impossibile. Mi disse monsignor Li: «Ci furono, in quei tempi, anche intemperanze da parte dei più fanatici comunisti; ma il momento rivoluzionario le giustificava. Ora sono faccende che non si verificano più ». Per la verità, allora, verso la fine del 1951, molti preti stranieri non sapendo che cosa fare, e nell'impossibilità di fare, chiesero di venir via. Ma perché il Governo cinese non ha mai fatto un chiaro e netto decreto di espulsione per tutti? Dopo aver girato e rigirato in mente tale semplice domanda, vorrei avventurarmi in una mia interpretazione. Ho già detto, nell'ultimo articolo, che dei 3500 missionari stranieri un tempo residenti in Cina, oggi ne rimangono soltanto venti, tutti in prigione tranne due. Uno di questi due è il monsignore americano James Walsh, che vive a Sciangai quasi confinato nella sua casa e sorvegliato dalla polizia. Nel timore di procurargli nuovi guai avevo deciso di non cercarlo; ma un pomeriggio per combinazione egli venne a far visita a certe persone delle quali, altrettanto per caso, io ero ospite. Da trent'anni monsignor Walsh vive in Cina, e quando gli domandai perché il nuovo Governo non avesse decretato dì buttar fuori tutti i missionari con una disposizione ben chiara, mi rispose: «Non lo so. Certo che avrebbero potuto farlo. Loro sono al potere, e noi avremmo ubbidito ». Dopo un attimo, stringendosi nelle spalle, aggiunse : «Ma sa, .non bisogna dimenticare che siamo in Cina ». Torno alla mia annunciata interpretazione di quel che è successo e che oramai, dopo cinque anni, è all'epilogo. Bisogna sapere che i missionari stranieri, specie i francesi, gli americani e gli italiani, hanno avuto il grande torto di rappresentare anche una certa faccia nazionale e politica e di rimanere troppo legati al loro nazionalismo ed alle vicende politiche francesi o americane o italiane in Cina. Spesso nei grandi centri, come Pechino o Sciangai o Canton, e magari spinti dal loro stesso benefico operare, si erano trovati ad avere nelle mani grande autorità nel campo morale e in quello economico. Attraverso gli ospedali, i collegi, gli ospizi avevano acquistato anche presso molti non cattolici, buona rinomanza. Nel tentativo di capire quel che è accaduto, e perché sia accaduto in un certo modo, bisogna completare il quadro con altre osservazioni. La più importante è questa: in un momento particolare, in un periodo di frattura tra il vecchio ordine sociale e quello nuovo che la rivoluzione andava impiantando, i missionari stranieri rappresentavano uno scoglio e suscitavano, nei nuovi uomini al potere, invidia o gelosia. Il problema era dunque quello di liberarsene senza ferire l'opinione pubblica, senza toccare l'insegnamento morale, che dopo tutto può essere utile anche ai comunisti; ed infine si trattava di liberarsene preparando i cattolici- a capire la necessità del provvedimento. Così quelli che non partirono spontaneamente, via via caddero sotto l'accusa di essere reazionari o spie o sabotatori. La generalità di tale accusa la rende subito sospetta; ma ad ogni modo ed un poco alla volta tutti caddero senza troppo commuovere, dal momento che la loro caduta veniva giustificata agli occhi dei fedeli. Rimaneva il clero cinese, composto da circa duemila preti, ed a costoro il Governo chiese di collaborare e di dichiararsi «progressisti ». Tre quarti di quei duemila accettarono, e cinquecento invece resistettero trovando impossibile essere ad un tempo fautori del marxismo e predicatori del Vangelo. E qui andiamo verso una nuova tattica. Mi rifaccio ad un esempio recente. Tre mesi fa a Sciangai hanno arrestato il vescovo cinese Kiung ed una quarantina di preti, che si ostinavano a non dichiararsi « progressisti ». Il vescovo è accusato di propaganda presso i giovani incitandoli a sottrarsi al servizio militare, di aver organizzato gruppi anticomunisti, di diffondere voci allarmistiche, di ospitare elementi reazionari. Sono le solite accuse. In una mostra dedicata all'attività spionistica degli imperialisti, che soltanto per caso fortunato ho visto ad Hankow, una sezione era dedicata a numerosi preti cinesi, di cui mostravano la fotografìa ed i documenti della loro attività controrivoluzionaria: apparecchi radio trasmittenti, cifrari segreti, foglietti di propaganda ecc. Ed ecco la curiosa tattica che si usa in simili casi. I fedeli, che hanno avuto contatti con il prete incriminato, vengono chiamati ad una, a dieci, a cento riu¬ nioni durante le quali si spiega /oro la natura dei reati commessi da questo o quest'altro prete. Alla fine li si invita a sottoscrivere, spontaneamente, una denuncia, e presto o tardi, per suggestione o per desiderio di vivere in pace e di sottrarsi alla noia esasperante di quelle riunioni, si trova chi è disposto a firmare. E' quello che si sta facendo in queste settimane a Sciangai contro il vescovo Kiung; e questa storia, come molte altre, finirà in un modo sorprendente. I poliziotti diranno: «Non siamo stati noi ad accusare, ma sono i suoi stessi fedeli. Quindi noi dobbiamo agire provvedere ». Le vicende dei missionari stranieri in Cina sono oramai giunte al loro epilogo e quelle dei preti cpn«lihnpdmmsm iiiiiiiniiiiniiiiiiiiiiiiiiiMiiiiii lu cinesi che si sono dichiarati pronti a collaborare col Governo continuano all'ombra dei « Comitati di Riforma ». L'attuale vicario generale di Pechino, il tranquillo monsignor Li, mi ha detto d'essere in contatto col Vaticano c che il Vaticano l'anno scorso ha mandato il suo plauso per quanto è stato fatto dalla Chiesa « patriottica ». Con maggior cautela, il deputato Hu mi ha invece detto che, tutto sommato, il Vaticano non ha mai preso netta posizione contro la Chiesa cattolica così com'è adesso in Cina. Il secondo era di ceito più in buona fede del primo; ma entrambi parlavano un linguaggio di favola, voglio dire che mi raccontavano cose fuori della realtà. Enrico Emaniteli!

Persone citate: Alberto Ricci, Hu Wen, James Walsh, Mao, Tung, Walsh