Luigi Faecta e la marcia su Roma di Paolo Serini

Luigi Faecta e la marcia su Roma NEL VENTICINQUENNIO DELLA MORTE Luigi Faecta e la marcia su Roma Solenni onoranze oggi a Pinerolo, sua città natale Il nome di Luigi Facta è rimasto fatalmente legato alla crisi che sboccò, il 28 ottobre 1922, nella capitolazione dello Stato liberale di fronte all'assalto fascista. Si è obliterato così, nell'opinione comune, il ricordo delle benemerenze che egli — uomo di grande integrità e operosità, ma anche d'indubbie capacità parlamentari e amministrative — ci era, in precedenza, acquistate nel corso d'una lunga carriera politica: soprattutto nel triennio (1911-14) in cui aveva tenuto il dicastero delle Finanze, prima con Luzzatti, e poi con Giolitti (che lo aveva voluto nuovamente con sé nel 1920). E si è finito con l'attribuire principalmente a lui le responsabilità d'una crisi che coinvolse, di fatto, l'intera classe dirigente del tempo e di quella situazione di debolezza e d'interno disfacimento del regime parlamentare di cui il suo governo fu a un tempo l'espressione e la vittima. Di tale situazione erano già atati chiari sintomi sia la lunga crisi (la più lunga che si fosse mai avuta dalle origini del Parlamento italiano) che, nel febbraio 1923, lo aveva portato inopinatamente al potere; sia lo stesso carattere che aveva avuto il suo mini•tero: tipico ministero di transizione e di ripiego. Ciò nonostante, i suoi esordi furono migliori di quanto non sì osasse sperare. La conferenza internazionale di Genova dignitosamente preparata e diretta; il Parlamento ricondotto a funzionare normalmente e~ intensamente; la regolare discussione e votazione dei bilanci (evitando, per la prima volta dopo otto anni, il ricorso all'esercizio provvisorio) ; il varo di alcuni importanti disegni legislativi, come quello sulla quotizzazione del latifondo e la colonizzazione interna, rappresentarono, nei primi mesi, altrettanti punti al suo attivo. Il ministero fallì invece nel suo compito primo ed essenziale: la normalizzazione interna e il ripristino dell'autorità dello Stato e dell'imperio della legge contro gli arbitri e le violenze fasciste. Ma l'adempimento di tale compito esigeva, oltre che un capo di grande autorità e prestigio, un governo sicuro e della propria maggioranza parlamentare e della fedeltà dei propri organi esecutivi periferici. E una decisa rinuncia alla convinzione che si dovesse evitare d'inasprire ì fascisti e che convenisse, invece, adoperarsi, con paziente spirito conciliativo, a ricondurne gradualmente il movimento nell'alveo della legalità. Convinzione che non era propria soltanto di Facta, ma di quasi tutta la classe politica liberale: ancora lontana dal rendersi conto che (come ammoniva vanamente la Stampa) il fascismo era « un pericolo sovversivo, il solo pericolo sovversivo per lo Stato italiano. Rovesciato il 19 luglio da un voto di sfiducia provocato da un ennesimo episodio di violenza squadristica, Facta d;> vé piegarsi a tornare alla direzione del governo dodici giorni dopo (soprattutto per devozione al sovrano, che lo aveva pregato <con le lagrime agli occhi >), dopo una crisi ancora più confusa e delusiva della precedente. E a tornarvi a capo di un ministero nel quale, se erano entrati, accanto ad Amendola, Soleri Alessio e Taddei, era rimasto, tra gli altri, Vincenzo Riccio, legatissimo a Salandra ed estremamente favorevole al fascismo; e che appariva già esautorato in partenza e dalla comprovata incapacità della Camera di esprimere un solido governo di centro-sinistra, disposto a usare con i fascisti la maniera forte, e dalla parte di primissimo piano avuta da questi ultimi nella repressione dello sciopero generale dei primi di agosto. In tali condizioni, il secondo gabinetto Facta — in cui non cessarono di combattersi, paralizzandosi a vicenda, tendenze opposte — non potè che tirare avanti alla giornata, indebolendosi sempre più, in attesa che maturassero le condizioni per l'auspicato ritorno al potere di Giolitti, previsto dai più per il principio di novembre. E ciò mentre si aggravava 11 processo di disgregazione delle forze costituzionali, di cui furono segni evidenti il fallimento del tentativo di un blocco democratico e il congresso liberale di Bologna; e si faceva sempre più strada, nei leaders liberali e democratici, la persuasione che non ci fosse ormai altro rimedio che far posto ai fascisti nel governo. Anche Facta, più che mai incline a un « sistema di conciliazione > che evitasse sanguinosi conflitti e rischiose prove di forza, condivideva tale diffusa convinzione. E sperò sino alla vigilia della marcia su Roma in una pacifica soluzione dì compromesso (e forsanco in un rimpasto del suo ministero con l'inclusione di esponenti del fascismo), avviando in tal senso trattative col segretario generale del partito fascista, Michele Bianchi. (Trattative analoghe si svolgevano intanto tra Giolitti e Mussolini, tramite il sen. Lusignoll, e tra Nitti e Mussolini, tramite il Romano Avezzana). Mentre, d'altro canto, tentava di contrapporre a Mussolini D'Annunzio, che il 4 novembre avrebbe dovuto capeggiare a Roma una grande adunata di mutilati e invalidi di guerra. Va rilevato però che, nel contempo, egli non cessò di premere su Giolitti, il quale sì trovava a Cavour, per incitarlo a bruciare i tempi e ad assumere al più presto il potere. (<lo non posso andare avanti con questo ministero, — gli scriveva —. Com'è possibile" un governo che universalmente è proclamato morto? E' quindi assolutamente urgente salvarela situazione, e solo tu puoi farlo »). E che è comprensìbile che, nell'attésa che Giolitti conducesse a buon punto il lavoro per la formazione del nuovo governo, Facta riluttasse a provocare una crisi extraparlamentare, da tutti deprecata, fuorché dai fascisti e da Salandra (proprio allora proclamatosi < fascista onorario :>), oppure ad anticipare la riapertura del Parlamento, fissata per il 7 novembre. Passarono così i giorni, in un'altalena dì crescenti timori e di brevi, fallaci schiarite. Col risultato che quando il ministero si decise, il 27 ottobre, a dimettersi (il giorno prima i ministri avevan messo i portafogli a disposizione del presidente), era troppo tardi: la macchina della mobilitazione fascista si era già messa in moto. Per quanto riguarda il comportamento di Facta nella fase decisiva delle crisi, le varie testimonianze venute via via alla luce hanno fatto giustizia della leggenda che la decisione di resistere < con tutti i mez. zi » all'aggressione fascista e di proclamare lo stato d'assedio sia stata presa da lui e dai suoi collaboratori, nel consiglio dei ministri tenutosi nelle prime ore del 28 ottobre, di loro iniziativa, senza aver prima consultato il re. In realtà, Vittorio Emanuele, tornato a Roma da San Rossore la sera prima, aveva sùbito manifestato ai ministri recatisi a ossequiarlo alla stazione la propria volontà di resistere; e Facta era uscito da un successivo colloquio con lui, a Villa Savoia, con l'autorizzazione a prendere tutti i provvedimenti necessari, compreso lo stato d'assedio. Né più plausibile appare la ipotesi (avanzata, in base a « impressioni > personali, da Taddei in una conversazione con Sforza e da Soleri nelle sue Memorie) che sia stato Facta, fermo nell'illusione che fosse possibile giungere a una soluzione di compromesso, a sconsigliare 11 re dal firmare 11 decreto sullo stato d'assedio. Tutto il suo atteggiamento in quelle drammatiche ore, quale risulta tra l'altro dalle memorie del suo capo-gabinet. to, Efrem Ferraris, — che ce lo mostrano, la sera del 27, ormai convinto che < gli eventi avevano sorpassato qualsiasi combinazione parlamentare sulle basi sperate » e, la notte sul 28, risoluto a < resistere alla rivolta », — appare in contrasto con tale ipotesi. Più probabile è, invece, che, nel breve colloquio con re Vittorio (dal quale ritornò < cereo in volto > e « in preda a viva emozione >), egli, per il suo stesso devoto rispetto verso il sovrano, non abbia fatto valere con sufficiente energìa la decisione del Consiglio dei ministri e risolutamente combattuto la nuova ed inaspettata decisione del re. Comunque, se, anche in tale occasione, Facta non dimostrò autorità ed energia pari alle circostanze, non venne meno però ai propri doveri costituzionali. Sicché a ragione, dieci mesi dopo, egli poteva rivendicare — in un'accorata, ma ferma lettera all'amico Malvezzi (rimasta inedita sino a pochi anni or sono) — la pro¬ pria lealtà e correttezza. E dichiarare: < Sotto il punto di vista della lealtà, posso por. tare alta e serena la fronte dinanzi al mio Paese ». Paolo Serini

Luoghi citati: Bologna, Genova, Pinerolo, Roma, Savoia