L'autobus in questura di Paolo Monelli

L'autobus in questura L'autobus in questura < Davvero, Romani, stiamo perdendo la libertà ». Molte volte mi torna a mente questo verso di Decimo Laberio, cavaliere aspenie libertatis come lo chiama Anaerobio, fiero assertore di libertà, autore di mimi, costretto un giorno da Giulio Cesare a comparire come attore sulla scena, cosa disdiccvole a un cavaliere romano. Laberio dovette ubbidire all'ordine di Cesare presente in teatro, ma se ne vendicò come potè improvvisando frecciate e allusioni che non andarono perdute per il pubblico; come quando, nelle vesti d'uno schiavo che cerca di evitare te bastonate del padrone, disse rivolto al pubblico il verso che ho citato, « Porro, Quirite!, libertatem perdimus »; e tutti gli occhi si volsero a guardare il dittatore. Farro, Quifites, libertatem perdami!, ripeto fra me e me ogni volta che mi capita di urtarmi ad uno dei tanti impedimenti della vita sociale. Certamente, vivendo in un Paese di democrazia non progressiva, possiamo consolarci di possedere, almeno sulla carta, tutte le libertà. Libertà di pensiero e di opinione (ma attenti a non manifestare troppo apertamente le nostre idee dissidenti al superiore, al capo ufficio, agli amici al caffè, agli occasionali compagni di tranvai o di treno), libertà di critica (ma siamo veramente liberi di giudicare male, per esempio, il romanzo di un amico, le pitture di un compagno di partito?), libertà di movimento (si, ma solo i giorni di vacanza, impediti come siamo gli altri giorni dai feroci orari dell'impiego o della professione, e vincolati poi dai sensi unici, da divieti di transito, dalle fantasie rotatorie di assessori al traffico, e così via incappando continuamente in contravvenzioni ed in multe). Ma di anno in anno cresce quell'insieme di obblighi e di divieti a cui nessuno di noi si può sottrarre, che ci derivano dall'essere cittadini di uno Stato e vivere in forzata comunione con milioni di altri individui. Abbiamo il senso di essere «empre più irretiti da norme che conosciamo o non conosciamo, da obblighi di cui spesso ignoriamo la portata; e come animali braccati, di muoverci entro limiti sempre più angusti. I nostri •padri ridevano del verboten dei tedeschi. Oggi quel verboten, tradotto in tutti gli idiomi, è valido ove più ove meno ma con sempre maggiore prepotenza per tutti gli Stati, escludendo forse certe prifnitive nazioni africane e la felicissima Repubblica d'Islanda. Soprattutto ne soffriamo noi italiani, che eravamo rinomati una volta — o se volete famigerati — presso gli altri popoli per l'intelligente interpretazione delle leggi e la scarsa premura delle autorità nell'imporcele, per la facilità dei rapporti sociali, per il buon senso e il lasciar correre dei preposti all'ordine pubblico in casi evidenti di buona fede e di forza maggiore. Oggi ci pare che questa nostra virtù, o questo amabile difetto, sia del tutto scomparso. Il mutamento è avvenuto per gradi, nel giro di una generazione o due, e — come avviene — fu agli inizi inavvertito. Certe limitazioni ci parvero sulle prime soltanto garanzia del reciproco esercizio di diritti, o inevitabile portato della civiltà meccanica; ci divertirono i primi semafori e i primi divieti di transito, ci adattammo alle scomodità del trasporto in autobus o in tranvai a luoghi sempre più remoti di lavoro o di svago, e al riposo festivo obbligatorio, e alla chiusura delle botteghe e dei luoghi pubblici alla stessa ora per tutti, angustie ignote ai nostri felici progenitori. Quasi d'un tratto, in questi ultimi anni, ci siamo resi conto quanto la n..stra condizione umana sia peggiorata, quanto alta sia la somma dei limiti che ci sono imposti; molti dei quali accettiamo rassegnatamente come resi necessari dalla complessità della vita moderna, ma troppi altri ci sembrano meno indispensabili o addirittura frutto di ingiustificato arbitrio. Gli esempi che se ne potrebbero citare sono cosi noti che non sarebbe nemmeno il caso di elencarli; se non fosse che una lunga rassegnata assuefazione ad essi non ce ne fa misurare tutta l'estensione ed il carattere spesso vessatorio. Cosi soltanto a chi abbia passato i sessant'anni, e rammenti i favolosi tempi anteriori alla prima guerra mondiale» quando si andava da uno Stato all'altro senza passaporto nè problemi di valuta, appare veramente intollerabile la procedura dei nostri tempi per varcare le frontiere, quanto tempo occorra per avere un passaporto. Quanti documenti si debbano presentare che magari scadono di validità mentre si attende che siano pronti gli altri, e il permesso del co¬ niuge, e il nulla osta del capo ufficio. Ma considerate come agli occhi della polizia siamo tutti delinquenti potenziali, o nella migliore delle ipotesi individui sospetti; sì che come è stato già detto infinite volte, contrariamente alla lettera e allo spirito delle leggi, vige ormai per tutti l'assurdo principio che tocca al cittadino dimostrare la propria innocenza, non all'autorità provarne la colpevolezza. Guardate come talvolta è arduo persino adempiere agli obblighi che il governo ci impone, come il pagamento delle tasse, per cui si debbono perdere ore o addirittura giornate quando, come è spesso il caso, sia frazionato per diversi uffici. Pensate come sia pressoché impossibile alloggiare in un albergo per chi non abbia in tasca un documento di identità, e si trovi costretto a pernottare fuori di casa per aver perduto l'ultimo treno. Ponete mente alla tirannia di quelle società monopolistiche che ci impongono il pagamento anticipato delle loro prestazioni (il povero che presta al ricco), e depositi preventivi di forti somme per cauzione a eventuali servizi; somme che si risolvono in un vero e arbitrario inasprimento del canone poiché il cittadino al quale quei servizi sono indispensabili non avrà mai più la possibilità di riavere la somma data a garanzia. Tirannia che si manifesta in vari modi, dalla disinvolta svalutazione dei depositi fatti prima della guerra in lire buone (lire che naturalmente la società non mise a dormire, ma impiegò al valore di allora), ad angherie delle quali non si scorge altra ragione se non appunto il gusto di angariare, come il perentorio divieto delle società telefoniche di allungare il cordone tra la spina e l'apparecchio. Queste considerazioni mi vengono suggerite da due casi recentissimi. Da domenica 30 ottobre a domenica 6 novembre, otto giorni, la posta, almeno qui a Roma, è stata distribuita soltanto in quattro giorni, niente posta martedì i° novembre, giorno dei Santi, niente posta venerdì 4 novembre, anniversario della Vittoria e niente posta le due domeniche indicate più sopra appunto perchè sono domeniche. Questo è uno dei più irritanti casi di tirannia dei servizi pubblici, che si disinteressano del tutto delle convenienze e dei bisogni degli utenti; a cui fanno la vita diffìcile sospendendo o limitando le prestazioni, come in questo esempio, o imponendo regole capricciose di cui non si vede l'utilità; come le Ferrovie dello Stato che limitano la validità del biglietto ferroviario a due o tre giorni o ad un giorno solo, così che se uno compra il biglietto e non può partire resta con un pezzo di carta inutile in mano. E gli ci vuole una faticosa procedura per averne il rimborso, e soltanto parziale. L'altro caso è questo. Giovedì della scorsa settimana a Roma verso le undici del mattino un autobus pubblico carico di passeggeri diretti alla stazione è stato dirottato improvvisamente, per ordine di una guardia che si trovava fra i passeggeri, perchè una signora si è messa a gridare che le avevano rubato il portafoglio. I viaggiatori sono stati obbligati ad entrare negli uffici, a mostrare i documenti, chi li aveva, o a spiegare chi fosse e perchè fosse sull'autobus, e sono stati liberati soltanto dopo un'ora (naturalmente non si è trovato nè il portafoglio nè il ladro). Con ogni verosimiglianza sulla vettura c'erano persone che dovevano prendere un certo treno e l'hanno perduto, che dovevano incontrare alla stazione una persona in arrivo e l'hanno mancata, che avevano un appuntamento pressante; tutti interessi di cui non si è tenuto alcun conto; tutti e cinquanta i passeggeri hanno dovuto subire il sopruso, tenuti poco meno :he in stato di arresto finché sia pia ciuto ai funzionari ridargli la libertà di ripartire con l'autobus; ed è grazia se il bigliettaio non gli ha fatto pagare di nuovo il prezzo della corsa. Ora pare ovvio che il ritrovamento del portafoglio di una persona distratta, che potrebbe averlo perduto anche prima di salire sull'autobus, e la cattura di un tagliaborse, sono cose assai meno importanti degli affari degli impegni, della libertà di movimento di cinquanta perso ne. Non è la prima volta che leggiamo di un autobus dirotta to; e dato il ripetersi di simili soprusi mi pare che si debba riaffermare il principio, altrettanto ovvio, che esiste un diritto della maggioranza che non può esse re violato a vantaggio dei meno o di un singolo; e violano questo diritto le autorità che abbiano disposto che in caso di borseggio l'autobus sia diretto a porte chiuse al Commissariato o alla Questura, e i viaggiatori trattenuti a illimitata disposizione d questi enti. E se, come mi auguro, una simile disposizione non esista, diano quelle autorità istru¬ I zioni ben chiare ai singoli agenti e ai guidatori e controllori delle vetture pubbliche. Perchè continuando di questo passo andrà a farsi benedire del tutto quel poco di libertà di azione e di movimento che ci è tuttora concessa; già limitata da arbitri più volte segnalati e contro i quali sembrano vane le proteste, di organizzatori di gare che ci rubano l'uso di questa 0 quella strada in certi giorni festivi, degli impresari che quando hanno chiuso al passaggio certe vie non si danno più premura di iniziare il lavoro e lo conducono a rilento e lo interrompono a loro placito, degli organizzatori di dimostrazioni o funeIrali solenni o raduni o convegni, per cui poche centinaia o migliaia di persone precludono intieri quartieri al godimento della cittadinanza. Paolo Monelli llllItlllllllllItlIllllIllllllltlllllIIIIIIIIMIIIIIIIIia

Persone citate: Decimo Laberio, Farro

Luoghi citati: Islanda, Roma