La fortuna di Utrillo di Marziano Bernardi

La fortuna di Utrillo La fortuna di Utrillo C'è un uomo, un pittore italiano, che conobbe Maurice Utrillo come nessun altro in Italia e forse come nessun francese, tolto Francis Carco; ed è Anselmo Bucci, antico abitatore della Butte, artista sottile, di esperienza immensa, scrittore incantevole, dei più estrosi rapidi vividi creatori nostri d'immagini, penna aguzza impareggiabile nel definire i casi, gli ambienti, i personaggi che furono il mondo, specie a Montmartre, della sua giovanile bohbne: del quale van raccomandati i due libri recenti, Figure spagnole, ed il minuscolo « Pesce d'oro » su Picasso, Dufy, Modigliani, e, appunto, Utrillo. Il luogo: «Palizzate nere, assiti neri, rami d'alberi neri lungo straducce sinistre e vicoli ciechi; giardinetti spelacchiati, capanne fradice tra cespugli stillanti; casette senza carattere con muri di gesso invecchiato; contrafforti di pietra ammuffita che sostenevano orti abbandonati, conventi disabitati, vecchi cimiteri... I muri eran rognosi, bianchi, non di calce, ma di pittura a olio su vecchie croste di gesso; muri di bianco crudo stonato nella atmosfera umida del Nord; muri di biacca di cerussa, che soltanto Maurice Utrillo seppe poi rendere in pittura: — Passemoi le biave! ». Tale, agli inizi del secolo, la Butte Montmartre. Il pittore morto sabato: «Attraversava le strade senza guardare nessuno, alto magro sbilenco livido, drappeggiato in un gabbanaccio, con un litro di pinard che gli gonfiava la saccoccia e ne usciva più che a metà ». Così lo vide Bucci una notte che l'ubriaco si fece gettar fuori dal bistrò di Marie Visicr, « La Belle Gabrielle ». Una scena tragica. Sua madre, la piccola coraggiosa Suzanne Valadon, lo scongiurava di tornare a casa, pregava con dolcezza « quel diavolaccio » sbrindellato, pallido come un cadavere, che roteava le braccia mentre un filo di sangue gli scendeva dal naso sulla bocca sdentata. « Sa pauvre banche... », diceva agli astanti inorriditi. E al figlio: « Voyons Maurice, sei così gentile quando dipingi... ». Lo raccoglieva così ogni sera in Vlace du Tertre e nelle vicinanze, da Rouscarrat, da. Spiellmana od al famoso «Lapin». Era il tempo che davanti ad uno di quei quadri che egli barattava con un kit de rouge il pittore Pirolà domandò agli amici: «Che cosa manca patir que cela soit bienìn, e nessuno seppe rispondere. Rispose poi Bucci più di quarant'anni dopo: «In verità mancava forse soltanto il tempo; e forse, col tempo, qualche altro ausilio ». L'osservazione è di rara acutezza, perchè discretamente sottintende tutto quanto avvenne dopo. Anzitutto l'isolamento, l'eccezione della pittura d'Utrillo — questo semplice, questo ingenuo ispirato — nel caotico intellettualismo, nel ribollimento vulcanico delle ricerche figurative francesi del tempo, dai Fauves ai Cubisti. Chi pagò nel 1914 una delle sue tante Notre-Dtrme 400 franchi (una somma notévole, allora, per un pittore non «qualificato» e per di più ubriacone, un tipo da non dare alcun affidamento) probabilmente lo fece quasi per reazione, per prendersi una vendetta dell'avanguardismo pittorico che vedeva in giro. L'artista era sulla trentina, di lì a non molto sarebbe divenuto uno dei più celebri di Francia; comunque si trattava di un «giovane» che dipingeva delle case, delle strade, delle cattedrali, degli alberi, degli sfondi paesistici come gli occhi mortali li vedono, e non delle geometrie, delle girandole, degli ' arabeschi e dei mostri deformi. E' incredibile che Utrillo abbia potuto reggersi su questa linea fino ad oggi — che ormai non produceva che delle povere cose vendute tuttavia sempre più care — accre scendo continuamente la sua fama, quando si sa in qual disprezzo incappi il pittore che ancora è fedele alla realtà così detta « ottica ». Ma la sua celebrità era stata assicurata dai mercanti, e attraverso la loro azione asta ta si perpetuava quel sentimento di reazione presso innumerevoli collezionisti felici che uno dei più illustri pittori del mondo non ponesse che dei problemi poetici così elementari facili comprensibili come le cupole del Sacré-Coeur rappresentate non sbilenche, la scalinata di Rue Sainte-Maric in giusta prospettiva, il Moulih de la Gaiette proprio come una cartolina. Non c'era più che lui e Matisse (questi però fino a un certo punto) a pensarla in tal modo. E ormai son morti rutti e due. Ecco a che cosa alludeva Bucci accennando all'aiuto del tempo. Poi s'ha da tener conto del gran gioco mercantile. S'è detto ewlmsmlC malignamente, ma con molta verità, che perchè un mercante s'interessi a un pittore costui dev'essere in miseria, inoltre malato o addirittura morente, e in ultimo fornire una produzione costante a prezzi irrisori. Utrillo era un irregolare, un alcolizzato che a trent'anni era già stato internato in manicomio quattro volte e pareva un vecchio, un fabbricante inesauribile di vedute parigine che abbandonava nelle bettole per un bicchier di vino, prima che l'ordine gradualmente entrasse nella sua vita e circa vent'anni fa Lucie Pauwels Valore lo prendesse sotto la sua ferma tutela di móglie. L'affare si presentava magnifico, e già dopo la prima guerra mondiale nella Borsa pittorica di Parigi era entrato un nuovo « valore » su cui speculare con sicurezza (e vedrete che «rialzo» adesso). Se mai, il tiro birbone di Utrillo ai mercanti fu di non morire quando lo speravano. Comunque, c'è da domandarsi se un Utrillo « normale », un Utrillo che non avesse dato spunto nel 1928 alla Legende narrata da Carco, avrebbe con la sola sua pittura tranquilla raggiunto la rapida fama universale che impose prezzi spettacolosi a tante tele mediocri fra le bellissime, e provvisto il conforto della ricchezza alla vecchiaia della pittrice Suzanne Valadon, sua madre, dopo un'esistenza tanto travagliata. Fra il poeta genuino che scriveva « ...lei ténèbres enfin déclinent leur empire - du clair au blanc il faut un gris d'arge?it utile... » e la vittima dell'alcool fin quasi dall'infanzia, sta naturalmente la sua pittura germinata intorno al 1903, per la quale non bisogna dimenticare i primi nsegnamenti della Valadon, il disperato tentativo di costei di distrarre coi pennelli dal vizio il figlio, che a divenir pittore non aveva mai pensato: e di qui la copia monotona, quasi meccanica (su cui fin troppo si insistette) delle cartoline illustrate, nella stanza chiusa a chiave. Una pittura sorprendente, che nei suoi vari periodi — « impressionista », « bianco », « di transizione », « colorato » — benissimo esemplificati dall'ultima importante mostra di Utrillo che vedemmo quest'estate al Museo Jenisch di Vevey con opere dal 1905 al 1932, ha sempre qualche cosa di casuale, di stranamente fortuito, come non « pensata » da un artista che sa dove vuol giungere, ma « nata » da un temperamento vago, labile, disperso, fanciullescamente incapace di formulare e coordinare idee, da un succube della sua stessa natura di debole. E' il mistero e la poesia primitiva e dolce di questo dipingere, la sua vena patetica, malinconica, tragica, ma d'una tragedia tutta interiore: quel bigio del cielo, quei rami spogli, quei muri luminosi ma inerti, desolati, quei vuoti, quei silenzi. Una lunga elegia in cui trema il pianto di un irresponsabile, malgrado i dolori straordinariamente fortunato. E la fortuna di Utrillo fu prima sua madre. Poi l'alcool, con la leggenda. Poi i mercanti. Infine la sua pittura stupefatta. Marziano Bernardi iiIiIllillllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllltlllllll

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