Milanesi a Roma di Arrigo Benedetti

Milanesi a Roma I NOSTRI CONTEMPORANEI Milanesi a Roma Nove anni non mi bastarono per capire l'opinione schietta dei milanesi nei confronti dei romani; nove mesi mi sono stati sufficienti per capire qual è il segreto dell'atteggiamento bonario e timido dei romani verso i milanesi. A Milano, se uno stesse alle prime impressioni, a ciò che ode in tram, per esempio, si ha quasi il sospetto che l'abitante della capitale sia disprezzato. Il milanese oppone la sua alacrità alla felicità meridionale romana; ma subito s'avverte che non è un giudizio convinto. Nella severità c'è una specie di riserva, come se Roma non fosse nella medesima penisola che si stende a sud delle Alpi verso l'Africa ma in un altro continente di cui non è bene giudicare affrettatamente le stravaganze. I milanesi commettono nei confronti dei romani l'errore che. nei ceti più bassi inglesi, si ripete nei confronti dei cattolici. Finita la guerra, il governo laborista che si supponeva alieno da pregiudizi nazionalisti, risultò meno adatto d'un governo conservatore a rendere normali le relazioni fra due popoli, l'italiano e l'inglese, che hanno tante ragioni d'essere amici. E non accadeva che Attlee e Bcvan ci rimproverassero più di Churchill o Eden d'aver tentato di invadere l'Egitto o d'avere tentato di mandare alcuni aerei su Londra tanto per fare un comunicato da mettere nelle prime pagine dei giornali; agivano piuttosto opportunità strettamente elettorali. L'elettore popolare considera ancora il sud ed il peccato una cosa sola. La nostra dichiarazione di guerra non appariva come un gesto suicida ma come una delittuosa macchinazione di meridionali diabolici. Anche il milanese di via dei Giardini è meno antiromano del concittadino di Porta Cicca o di via Canonica, dove Roma è considerata ancora come città secondaria, abitata da uomini pigri, che mangiano cibi pesanti e bevono vini pesanti; gradevole solo quando intravista nell'allegria dialettale di Fabrizi o di Riva. Nei quartieri centrali, abitati da una borghesia di mentalità più aperta, che viaggia molto e che legge abbastanza, il giudizio è diverso. Roma semmai è forse soltanto via Veneto, 0 è criticata nell'aspetto burocratico che ha, agli occhi di industriali per altro incapaci di fare a meno dello stato, un che d'equivoco. II giudizio romano sul milanese è invece affettuoso e nello stesso tempo timido: è quello di chi teme un rimprovero e non si domanda neanche se meritato, accettandolo senza protesta, incapace di liberarsi dei pregiudizi altrui che a forza di ronzargli negli orecchi sono diventati pregiudizi suoi. Per lo statale romano, Milano è il luogo dove vivono uomini potenti che disprezzano la macchina amministrativa e che nello stesso tempo vogliono do minarla. Per il romano che appartiene al vasto ceto costituito dalla mescolanza di borghesia arricchitasi con l'espansione edilizia della città e di aristocrazia imborghesita, Milano è la città d'una società di cui appare assurda l'operosità. Scendendo in basso, ai ceti artigiani, Milano diventa la mitica città dove si costruiscono gli scaldabagni, da cui arrivano i pezzi di ricambio. Per gli altri è la città del panettone, dei camerieri che rifiutano le mance, della nebbia; ma per tutti è la città della virtù che impone il rispetto. Conta poco che certe zone di Roma siano deste ormai quasi ventiquattro ore su ventiquattro, né vale la vivacità mattutina di Roma, la corsa di moltitudini eccitate verso i mezzi di trasporto. 1 romani sono ancora convinti che la loro è una città abitata da gente pigra, che va a letto presto e che s'alza tardi. Si direbbe che il romano sia affezionato all'immagine che gli altri avevano di lui e che ora ha fatto sua. Non si domanda se sia stata giusta; non ha alcuna voglia di vedere se continua ad esserlo. La città è cresciuta ma l'idea che circola di Roma è sempre quella che tra il 19:0 ed il 1930 accese la fantasia d'alcuni artisti. Non c'è altra immagine di Roma valevole all'infuori di quella che ci hanno dato Vincenzo Cardarelli e Antonio Baldini nella letteratura; Amerigo Bartoli nella pittura. Era la Roma di Aragno e del Caffè Greco, delle carrozzelle, dei pomeriggi sonnolenti al Pincio. Di quella Roma, Baldini, Cardarelli e Bartoli furono i poeti, ma oggi anche per essi, in quanto artisti, è una suggestiva figurazione del passato. Baldini, per esempio, non insiste più sul motivo di Melafumo ma Mclafumo attraverso il giornalismo domina le conversazioni degli italiani quando il discorso cade sulla capitale. Moravia fin dal 1930 lasciò intravedere • nei suoi romanzi e nei suoi racconti un'altra Roma; oggi, lasciati i quartieri alti sta scoprendo una Roma popolaresca che tenta anche giovani scrittori come Pasolini e Patroni-Griffi, una Roma popolare ed equivoca, incontro di continenti, non sai se mediterranea o atlantica, ma Mclafumo nelle terze pagine resiste anche se il suo autore gli ha voltato le spalle. Gli scrittori ed i giornalisti romani forse hanno il torto d'alzarsi tardi. Fatto sta che non hanno sentore d'un accento diverso che si coglie perfino sulla bocca degli abitanti di Trastevere. Non hanno ancora intravisto che una certa popolare semplicità nelle relazioni col prossimo non è dovuta a bonomia provinciale, non a pigrizia, ma alla superbia che ha sempre il popolano della grande città. Un tempo, almeno, c'erano i racconti che Mario Missiroli, il quale lasciava il suo giornale romano all'alba, faceva degli aspetti della città, mentre ancora l'immagine mattutina di Roma non ha un suo descrittore. Ora il testimone manca. Il romano seguita a considerarsi il cittadino più pigro della repubblica, quasi ostenta, anche quando lavora dicci ore al giorno, il suo gusto per l'ozio. E Milano resta un ammonimento, un rimprovero che opera nella sua coscienza: la città dove tutti lavorano, si alzano presto, camminano in fretta. L'andirivieni del Tritone è frenetico ma la vecchia idea di pigrizia resiste. E quando cambierò la targa della mia vecchia automobile, ed al MI sostituirò un ROMA, so che i miei concittadini attuali, mi guarderanno con occhi diversi. Ora il loro sguardo mi sfiora pieno di curiosità, di tene-' rezza. Come dire: «Ah, lei è di Milano! Lei viene di lassù dove tutti sono seri, operosi ». Non più gli altri automobilisti mi cederanno la mano anche quando non ne ho il diritto; non più ad una mia rara gentilezza risponderanno toccandosi la falda del cappello o alzando la mano come dire : « Lo sappiamo, lassù voi siete gentili tra voi, non maledite il prossimo per un posteggio conteso, non mi insultate per un sorpasso... ». Non mi sarà più possibile permettermi le infinite irregolarità che ora mi permetto. Ora anche se l'infrazione c grossa, il vigile urbano mi dice di stare attento con l'aria di domandarmi scusa se a Roma c'è tanta confusione. Perfino la portinaia mi parla con accento diverso, tenta di frenare il suo romanesco e di dare alla sua parlata una sfumatura forestiera. Non accade credo agli abitanti d'altre città. Sono sicuro che, cambiata la targa, il mio accento toscano sarà meglio avvertito, gli occhi torneranno sospettosi ed il romanesco della portinaia scorrerà di nuovo forte, disinvolto. Sere fa intasai il traffico manovrando tra via della Panetteria e via del Lavatore, un posto che risente del traffico di via del Tritone. Intravidi l'occhio furente d'un taxista ma quell'occhio s'addolci stranamente quando cadde sulla targa: «Ci vuole pazienza», mi disse il taxista ed aspettò tutto il tempo che mi presi, e quando, passandogli vicino, lo salutai, si toccò il berretto. Mi osservava sorridendo ed il suo sorriso voleva dire: «Beati voi di lassù, dove si fabbricano le automobili che noi usiamo, dove le strade sono larghe, la vita è seria, gli uomini s'alzano all'alba, dove non si mangiano cibi pesanti e dove non si bevono vini pesanti ». Arrigo Benedetti FindHIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIII