Il primo giornalista italiano ch'entra in Cina con «visto» personale di Enrico Emanuelli

Il primo giornalista italiano ch'entra in Cina con «visto» personale INCHIESTA INDIPENDENTE NEL PAESE DI MAO TSE TUNG Il primo giornalista italiano ch'entra in Cina con «visto» personale Non visita in gruppo, ma viaggio di studio e d'ossorvazione; non passaggio da Mosca ma da Hong Koog - Ottocento metri a piedi per raggiungere il contine - «Stia nel centro della strada. E' più comodo per lei» - Strana sensazione di essere soli e un po' sperduti - Ad una stazione il macchinista si dimentica di fermare e deve poi lare una lunga marcia indietro - Il capostazione rido, divertito - Semplice incontro con un popolo di 600 milioni Il nostro inviato speciale Enrico Emanuela è 11 primo giornalista indipendente ammesso a visitare la Repubblica Popolare Cinese con un « visto » personale. Egli viaggia solo, non facendo parte di quelle delegazioni che 11 Governo di Pechino, come quello di Mosca. Invita ed ospita. Per marcare di più tale caratteristica dell'inchiesta che sta compiendo, egli è entrato in Cina passando da Hong Kong e non da Mosca Dopo aver raggiunto Pechino, in questi giorni ha iniziato un lungo viaggio nel Nord diretto a Kharbine, in Manciuria, uno dei centri più importanti per poter valutare l'industrializzazione della Cina. E' la prima volta che un giornalista straniero può visitare tale zona e darne testimonianza diretta, (Dal nostro inviato speciale) Canton, ottobre. L'ufficiale inglese non alzò nemmeno gli occhi su dt me. Egli sedeva ad una scrivania ed io in piedi gli stavo di fronte. Sfogliò il passaporto che gli avevo consegnato, trovò il visto inglese che permetteva il mi0 transito da Hong Kong, mise un timbro e ci fece sopra uno svolazzo di firma. Sempre senza alzare gli occhi su di 1m11m i 11 i 11 ■ j■i■i[11111111111 ! !t111111 i ■ 1111111x111e ■ ■ i ! i i 1 me respinse il passaporto nella mia direzione perchè lo potessi ritirare; ed infatti lo ritirai, ma con un gesto imbarazzato. Ebbe la cortesia di accorgersene. Eravamo in una stanza da nulla, una specie di casello ferroviario, entrambi sperduti in un silenzio di campa-, gna deserta. Aspettavo qualche cosa, una parola od un gesto, che mi togliesse dalla mia incertezza; e così, quell'ufficiale, alzando il braccio e agitando appena la mano, mi fece capire che dovev» uscire e girare a sinistra. Feci come silenziosamente mi consigliava; e fuori, su un pezzo di legno a forma di freccia indicatoria, lessi: « Per Sciumtsciun >, Era il nome del posto di frontiera cinese. Da noi, in Europa, dico.io che ci sia la < cortina di.ferro>; e questa, in Asia, dicono che sia la « cortina di bambùy. Ero sul punto di attraversarla; ed ero, ad un tempo, impaziente e preoccupato. Mi trovavo solo, costretto a camminare a piedi lungo il binario della ferrovia. E' forse necessario che racconti per quali motivi mi ero messo in tale situazione. Uopo un volo di quarantasei 1 r1111■ 11 ■ 111111111■1111111111 m I I ore, facendo sosta di un'ora a Damasco, di un'ora a Bagdad, di un'ora a Caraci, di un'ora a Calcutta, di un'ora a Saigon, ero arrivato a Hong Kong. Partendo da Roma un lunedì pomeriggio, il mercoledì pomeriggio, dopo undicimila chilometri, ero ilei caldo umido di Hong Kong, con il desiderio di proseguire subito per Pechino. All'agenzia di viaggio, alla quale mi ero poco dopo rivolto, 'le formalità risultarono brevissime. Vollero controllare (lo facevano nel mio interesse) se il visto cinese era regolare, se avevo i documenti sanitari che comprovavano le iniezioni fatte contro il colera, la febbre gialla, il vaiolo, il tifo. « Bene — mi disse un giovanotto piccolo e cerimonioso — questo è il biglietto per Lo Wu. Il treno parte di mattino alle undici e venticinque. A Lo Wu lei dovrà percorrere ottocento metri a piedi per raggiungere il confine cinese. Non si preoccupi ■ per il bagaglio. Lo ritroverà a Sciumtsciun >. Mi parlava in modo gentile, ma ugualmente mi infastidiva. Per questo lo guardai un attimo con diffidenza: uNon ha nessun altro consiglio da dar mi f >, gli domandai. Mi rispose sicuro: « A me pare di no. Ad ogni modo, percorrendo gli ottocento metri a piedi, stia nel centro della strada. E' più comodo per lei*. Davanti alle mie preoccupazioni la tranquillità del giovanotto faceva rabbia. Stavo per passare da solo, veramente come un privato qualunque, una frontiera per lo meno insolita e l'unica avvertenza che mi si dava era quella di camminare, per mia maggior comodità, in mezzo alla strada. Una sbarra di legno il mattino successivo, dalla stazione di Kowloon, il treno partì puntuale. Nel lungo vagone, di forma antiquata, ero solo: sulla mia testa due ventilatori agitavano aria calda. Il viaggio durò un'ora attraverso una campagna serena: le risaie, quasi pronte per la monda, s'alternavano con boschetti d'un verde denso e grasso, equatoriale. Non vedevo, di qua e di là, nessuna strada, ma soltanto sentieri sui quali camminavano a gruppi ed in fila indiana uomini e donne. Nel panorama immenso, piatto, tutto verdeggiante, te persone diventavano subito figurine e sempre le vedevo vestite allo stesso modo: calzoni e casacca di lucida tela nera, un grande cappello di'paglia in testa e le donile, intorno all'ala del cappello, avevano una tendina penzolante, anche questa di tela nera. Sema molta fretta il treno si avvicinava alla frontiera cinese e le mie preoccupazioni aumentavano. Ad una stazione il macchinista si dimentico persino di fermarsi e cosi dovette poi fare una lunga marcia indietro: il capostazione invece di arrabbiarsi si mise a ridere: era molto soddisfatto, come se fosse riuscito a mandare all'aria uno scherzo che volevano giocargli. Finalmente il treno si fermò ancora una volta ed un cartello mi avvertiva che ero giunto a Lo Wu, posto di frontiera inglese. Guardai fuori dal finestrino: vidi, in fondo, all'altezza della locomotiva, qualcosa che rassomigliava ad un casello ferroviario. Dimenticai il bagaglio, discesi dal treno, entrai nel casello e dopo un attimo, come ho già raccontato, uscivo sospinto dal gesto di un ufficiale inglese. Il sole batteva forte cóme da noi in agosto. Fermandomi per leggere il cartello che con molta inutilità indicava quale era la direzione giù- UMIIIIIIIIIIUIIIMIIinilllllllllllllllllllllllllllllll sta € per andare in Cina », mi ricordai dell'unico consiglio ricevuto: dovevo camminare in mezzo alla strada. Davanti a me avevo un tratto di linea ferroviaria da molti anni non più usata. Era alta, poggiando sopra una scarpata. Vidi che circa a metà del tragitto c'era un ponte. In fondo scorgevo sei o sette persone, piccole, quasi inerti nella grande luce del mezzogiorno. In quegli istanti mi sentii veramente solo; ed anche un po' sperduto per il fatto di dover entrare a piedi in una Nazione vasta come l'Europa e che riunisce quasi seicento milioni di abitanti. •Avvicinandomi a quelle figurine ancora confuse cercai di avere il passo disinvolto. Capivo che quegH uomini mi osservavano. Due parlottarono fra di loro, un altro si mosse verso un lato della strada. Ero già vicino quando mi accorsi che uno soltanto stava immobile, gambe leggermente divaricate, il fucile mitragliatore a tracolla, ma poggiato davanti sul petto, tre bombe a mano in una sacca che gli penzolava sul fianco sinistro: era una sentinella molto « rappresentativa » e quasi pareva in posa perchè uno scultore la tramutasse in monumento. Vicino gli stava un altro militare, forse un ufficiale. Dico forse, perchè nell'esercito della Repubblica Cinese nessuno porta i gradi; ma ad ogni modo questo tale, che non era armato, si capiva che aspettava me. In silenzio gli mostrai il pezzo di carta sul quale la Legazione di Berna ha messo il rnio tvisto d'entrata ». Lo guardò con calma dignitosa e, restituendomelo, con un gesto mi fece capire che potevo passare; che, anzi, dovevo proseguire sulla mia strada. Una sbarra di legno cadde alle mie spalle. Non mi era mai capitato di superare una frontiera in modo così silenzioso, come dentro un sogno. Non fidarsi dei racconti Per quanto capissi che le formalità non erano ancora terminate, non mi rimaneva altro da fare che obbedire a quel primo cinese che mi suggeriva di entrare in casa sua. Adesso davanti a me vedevo una stretta e lunghissima tettoia di legno, le colonnine erano dipinte di rosso, il tetto ricurvo ai bordi come l'ala d'un cappello, era decorato con fantasiosi geroglifici gialli, verdi, neri. Tutto era nuovo, pulito, ordinato e di buon effetto scenografico: una scenografia che sino a quel momento mi era stata esotica e che ora trovavo tlocale ». Sembrava di I essere in un piccolo viale di llllllllllllllllllllllllllllItllllllllillllllllllIIIIIIIIIII un immenso parco; e invitava ad una tranquilla passeggiata. Ripresi a camminare e non potevo togliermi dalla testa il pensiero che stavo già pestando terra cinese. Alle piccole colonne di legno della tettoia erano appesi manifesti di propaganda: per l'esercito, per la marina ed uno elogiava di certo l'intesa fra l'operaio e l'intellettuale. In fondo ne vedevo uno più grande degli altri e là sopra, ben colorati, un bambino ed una bambina ridevano felici; ed il maschietto era anche orgoglioso perchè nelle mani teneva una bianca colomba. Ma in quel momento due curiose sagome apparvero al mio fianco. Erano due donne in càmice bianco, la cuffietta in testa, sulla bocca una pezzuola come mettono i chirurghi quando operano. Mi avevano raccontato che i cinesi per le formalità sanitarie sono molto rigorosi, capaci di rimandare indietro se non si è in regola, o capaci di fare loro e subito le iniezioni necessarie trattenendo il viaggiatore (e quel¬ la contro il colera è doppia e tra la prima e la seconda bisogna almeno lasciar passare cinque giorni). Ma non bisogna mai fidarsi dei racconti fantasiosi: una di quelle due esaminatrici diede appena una rapida occhiata alle mie carte e sorrise per dirmi che potevo proseguire la mia camminata verso la Cina. Il vialetto coperto finì poco dopo in una specie di camerate. Guardai in giro. Sui due lati correvano lunghi banchi e là sopra molte valige erano aperte: siccome per lo più a viaggiare erano contadine, e molte con bambini, sui banchi vedevo muochi di biancheria, secchi, sporte, barattoli, biberon, thermos, pantofoline di stoffa, cibarie. Vidi anche, in u% angolo, il mio bagaglio che qualcuno aveva portato da Lo Wu; e là vicino un uomo di mezza età con un berretto di foggia militaresca, che evidentemente mi aspettava. Mi diressi senza esitare verso di lui. Mi salutò in inglese come fossi una sua vecchia conoscenza. <Per favore — mi disse — consegni il suo passaporto e mi dica, quanto e quale danaro ha in tasca. Penserò io a tutto. Prego, venga intanto con me ». Ufi guidò ad una stanzetta arredata come un salotto. C'erano quattro poltrone intorno ad un tavolo rotondo e sul tavolo un « centro » ricamato, due tazze, una teiera con dentro l'acqua già calda. Sulla parete, unica decorazione, la fotografia d'una risaia cinese: guardandola mi pareva d'essere nei dintorni di casa mia, tra Vercelli e Novara. L'uomo che mi aooompagnava mi disse: € Abbia la cortesia di aspettare qua. Tornerò a prenderla fra un'ora, al momento della partenza del treno per Canton. Intanto lei avrà fame e desidererà mangiare. Cibo europeo o cinese t » Un po' sventatamente risposi: tdnese». L'uomo mi guardò incerto e poi ridendo disse: «Bene, come vuole. Però glielo faccio servire con la forchetta ed il coltello ». Già, ero proprio in Gina dove solitamente — come tutti, sanno — si mangia con due bacchettine di legno o di avorio. Enrico Emanuelli

Persone citate: Enrico Emanuela, Hong Koog - Ottocento, Sema