La carte segrete del conte Sforza di Arrigo Benedetti

La carte segrete del conte Sforza I NOSTRI CONTEMPORANEI La carte segrete del conte Sforza La vecchia signora dai capelli bianchi, vestita di bianco non è stanca; anzi, la sua mente non fu mai così fervida. Ogni mattina, insieme alla luce del giorno che scende dalle alte montagne di marmo verso la costa boscosa ed il mare grigio, piatto, dove continua a specchiarsi ancora per alcuni istanti il cielo notturno, tornano i pensieri che empiranno la giornata, come, ormai, hanno empito le settimane, i mesi, gli anni dopo il triste giorno romano del 1952. Anche allora finiva l'estate e cominciava l'autunno, eppure il momento terribile in cui la contessa Valentina Sforza, temette di trovarsi sola e di sentirsi, lei belga di nascita, straniera nella patria dell'uomo amato, è lontano. Il vuoto in cui le parve smarrirsi non è più angoscioso U vecchio gaio signore émpie di nuovo la sua casa; di nuovo le ruba il tempo. La sua presenza esce dagli oggetti che gli furono cari e soprattutto da questi luoghi in cui nacque ed in cui ora riposa. Il suo carattere acquista una chiarezza che non aveva quand'egli era vivo. « Ecco quale era », vorrebbe dire la vecchia signora vicina agli. ottantanni, (un'età che non è galante nascondere), agli amici e ai nemici. Le ombre che circondarono un italiano, che spesso gli italiani non vollero capire, si diradano. Forse è vicino il momento in cui apparirà con evidenza quanto di nostro era in lui, tanto per i difetti che per le virtù. La sua vita politica appartiene alla nostra grande tradizione politica, così ricca d'uomini pronti all'esilio, e alla miseria che comporta, per fedeltà a se stessi e all'idea che hanno del loro paese. La sua colpa infatti fu di credere all'esistenza dell'Italia come paese moderno che occorreva difendere da tentazioni assurde. Una volta che lo incontrai il discorso cadde sull'assurdità dell'avventure cui era stato costretto un paese civile come il nostro. Mi disse all'inarca : « In esilio, se mi coglieva lo scoraggiamento, bastava che pensassi a certi aspetti dell'Italia, così come la ricordavo, e subito trovavo la mia consolazione. Pensavo al nostro nord industrioso, ai nostri civili contadini del nostro centro, ai maestri di cultura che Vivevano nel nostro Mezzogiorno... ». * * Valentina Sforza, quando si parla del conte Carlo, si distrae come seguisse immagini che l'interlocutore non vede. Al dolore è succeduta una dolce mestizia. Però ha fretta : « Non sono più una ragazzina », dice sorridendo dei suoi anni, « ci sono tante, tante cose da fare... ». C'era una memoria da difendere, ma i nemici più cattivi si sono arresi. E ci sono le carte lasciate da Sforza nei cassetti della grande scrivania nello studio del Poveromo. Là è il suo ritratto migliore: la prova di quanto ormai si dice apertamene te a palazzo Chigi: che cioè egli è stato il migliore dei ministri degli Esteri avuti dall'Italia dopo la prima guerra mondiale, uno dei più grandi della nostra storia. In quei cassetti, Livio Zeno, che prepara uno studio sull'ulti mo diplomatico italiano di stile europeo, troverà la storia degli errori diplomatici che ebbero la loro importanza nel passaggio del nostro paese dalla democra zia alla dittatura, dalla dittatura alla sconfitta e alla liquidazione dei vantaggi che con tanto sangue ricavammo dall'intervento del 1915. Ma dalle carte del Poveromo uscirà soprattutto il ritratto d'un uomo pronto agli slanci più generosi, venato d'amabile scetticismo: il ritratto d'un vecchio signore semplice fino ad assumere i modi dei con tadini tra cui era nato. E infine da quelle car' verrà fuori il riflesso d'un sógno di solidarietà continentale che un giorno tea terà di nuovo le coscienze degli europei migliori. («Il conte», m'ha detto Livio Zeno. < non credeva alla guerra. Nel suo ottimismo, aveva previsto la distensione... ». Quanti errori sarebbero stati evitati se fosse stato condiviso il suo modo tranquillo di guardare l'avvenire?) E c'è anche un altro problema. I repubblicani della provincia di Massa e Carrara, decisi a fare il primo passo per onorare la memoria del conte, hanno ordinato ad un artista del posto un busto da mettere nella piazzetta principale di Montignoso. Non è stato un lavoro facile. Ora il busto ci raffigura un conte Sforza che rassomiglia stranamente a Mazzini; ora, in un'altra fase rlella tormentata lavorazione, ci rappresenta un personaggio ieratico. L'altro giorno i familiari cioè la contessa, il figlio Sforzino con la sua giovane sposa francese, recatisi nello studio dello scultore, si trovarono davanti un conte Sforza dalla cintola in sii, con la mano sinistra posata su una pila di libroni mentre con la destra brandisce una penna d'oca. I parenti restarono perplessi e com'è loro diritto hanno detto il loro parere. Vada per Montignoso! Però il tema d'una scultura che ci dia il sorriso ironico ed insieme ingenuo del conte Sforza dovrà essere pur risolto. Dopo i compaesani, tocca ai connazionali. Un conte Sforza in piedi, col volto illuminato dal sorriso scettico ed insieme fervido, elegante nell'abito ed insieme trasandato, starebbe bene in qualche piazza romana. Non è un'immagine che potrebbe tentare Manzù? * * Il conte Sforza dopo il 1950 trascorse le sue estati molto piacevolmente. Appena aveva un minuto libero correva al Poveromo. Avendo sistemato a modo suo la villa che Roberto Longhi gli aveva venduto, gli piaceva sedersi alla scrivania, dove forse pensava di poter trascorrere la tarda vecchiaia. Aveva portato nella casa posta fra i pini che costeggiano la strada litoranea, i vecchi mobili di famiglia, ma sul caminetto della sala da pranzo aveva messo uno specchio che certamente non aveva ereditato dal professor O'ovanni, il direttore dell'Archivio di Stato di Lucca. E', quello specchio, un ricordo: glielo donarono lo Stato Maggiore é l'equipaggio della Vittorio Veneto nel 1947, per ringraziarlo d'avere convinto gli inglesi a non toglierci, come il trattato di pace esigeva, la nostra nave da battaglia. (A Nicolò Carandini che difese la nostra nave, quand'era ambasciatore a Londra, donarono una parte della bussola). Sforza sistemò lo specchio sulla cimasa del caminetto davanti al quale sperava di passare le sere invernali dell'estrema vecchiaia. E mentre procedeva a quella sistemazione, io penso che sul volto gli passasse un sorriso nel contempo ironico e mesto. Lo specchio infatti rappresenta confini dell'impero romano, copia d'una tavola che Mussolini fece mettere su una muraglia di via dell'Impero, vicina alla Basilica di Massenzio. Riprodotta su un cristallo destinato al quadrato degli ufficiali d'una nave da guerra, come non vedere in quella riproduzione d'antichi confini un'indicazione polemica? Sebbene non vi sia vissuto molto, la casa del Poveromo è una casa che dice molte cose del conte. Non occorre l'aiuto della fantasia per ritrovare i pensieri di chi l'abitò. A monte sono colli nativi, di là dal mare é un'altra casa di campagna, prossima a Saint-Tropez, dove Sforza trascorse gli ultimi anni dell'esilio europeo, prima d'essere costretto, quando i tedeschi invasero la Francia, a scappare in America. Ogni tanto giungevano fino alla piccola villa provenzale uomini come Ivanoe Bonomi e come Marcello Soleri che l'esilio soffrivano in patria. Venivano a parlargli dell'avvenire. Ed è il momento, io credo, di render loro giustizia. Esclusi dall'esercizio del dovere di servire il proprio paese, sapevano benissimo che solo la catastrofe militare- li avrebbe liberati dai rigori della dittatura. Eppure quando, subito dopo l'invasione della Polonia, l'Italia pareva incerta, Bonomi e Soleri andarono da Sforza non per parlare di ciò che bisognava fare se l'Italia fosse entrata in guerra. Sapevano che dopo il disastro la responsabilità della ricostruzione sarebbe caduta pesantemente sulle loro vecchie spalle ma era un pensiero che non gli dava nessuna soddisfazione. Intanto si preoccupavano d'una cosa sola: intervenire a Londra, a Parigi, a Washington per far sì che Mussolini non entrasse in guerra. Loro, in questo caso, sarebbero rimasti in esilio, in Italia o fuori; tanti loro amici sarebbero rimasti a marcire in carcere; ma in quel momento non avevano dubbi, ispirati da un amor di patria che aveva qualche cosa di materiale. Naturalmente, entrata l'Italia in guerra, non ebbero illusioni. Intravista la rovina del regime, operarono perché non significasse la rovina del Paese. E tutto questo è nelle carte del Poveromo. La vecchia contessa lo sa: il saperlo le empie gli occhi d'ansia e di mesta felicità. Arrigo Benedetti