Sensazioni di Francesco Bernardelli

Sensazioni Sensazioni La malattia dei moderni non è la macchina, non è il desiderio di potenza, non è il cinismo; la malattia dei moderni è la sensazione. Morbo sottile, esaltante come certe febbri leggere, maligne e tenaci. L'ammalato vi si sprofonda, vi si disperde. E' più facile spogliarsi delle proprie ricchezze, dei propri amori e dolori, è più facile gettare oro e • terre, che staccare dalla nostra vita la membrana delle sensazioni. Rinunciare alle" sensazioni, a questa voluttà acerba, sconfinante, sfumata, è disciplina eroica, è offerta cristiana. V'è nella sensazione uno stimolo subdolo e assurdo, un'ansietà inappagata, un erotismo latente, diffuso. La sensazione va sempre al di là di ciò che è reale, di ciò che è possibile. La sensazione di un tramonto di autunno, così morbida, così morbosa, con quei profumi delicati di ter-* ra fradicia, di fungo, di decomposizione vegetale, con quel sentore di cielo, di acqua, di neb-, bia, e la sera imminente e violetta, questa sensazione tipica e decadente vi suggerisce un che di infinito. Ma non è l'infinito virile del pensiero, è l'infinito femmineo della concupiscenza. Di che? Che cosa si cerca? che cosa si vuole? Non sapete; e qui è il fascino romantico della sensazione. Da Rousseau a Chateaubriand a D'Annunzio a Gide, i maestri dell'anima moderna altro non fecero che coltivare i mali profondi della sensibilità: una smania lucente, un dolce malore, un'apprensione irrequieta, e quel dono dei sensi avidi che inebriano e trasfigurano. Maestri appassionati, o freddi, acidi, cerebrali, fastosi e artificiosi, o di una sincerità sconcertante e aggressiva; poeti, letterati, artisti, musici, dal torbido e chiaro Settecento all'Ottocento frondoso, alla nostra piagata indigenza, ecco, questo soprattutto essi ci diedero: il senso panico della vita. Nourritures terrestres, la vita come pura terrestrità, aizzata dai dèmoni del bosco del fiume del cielo, dai dèmoni della sensualità. Spaventosa mollezza, estenuante malinconia; si va, si scorre, si scivola: l'accordo musicale di un'ora incerta, sospesa sul vento del mattino, si sfa, si scioglie in un vago sibilo di foglie, nel remoto fruscio di una gonna, nel ricordo di un primo amore. Ricordo? No, presenza. Risorge, ■ alla manièra' di Proust, della sua arcana memoria, risorge l'immagine, il suono, il fremito non di una creatura, ma di quell'aura di allora, di quella linfa vibrante, di quel plasma misterioso, di quella vertigine nella quale ci parve, allora, di affondare. Il mare dell'essere; il nulla. Questa è la sensazione, questo il suo trasalire ed il suo smarrirsi. E smarriti noi, forse perduti se ci affidiamo a così folto, a così adorabile male. Per salvarsi, i Padri della Chiesa, gli abati del deserto, gli abitatori della Tcbaide, gli eremiti e i santi esorcizzavano la natura; e San Paolo voleva il mondo crocifisso. Sull'ala fiammante del suo discorso grande e sublime, nel fuoco alto della sua fede, la follìa e lo scandalo della croce ritornano, come un tuono scende in un meriggio d'estate dal cielo compatto raggiante divino. « Il vecchio nostro uomo fu crocifisso con lui, perchè distrutto fosse il corpo del peccato». Noi « il mondo, noi e il peccato, e quei legami « teneri e crudeli » che avvincono il peccato al corpo, il peccato a noi. La sensazione. L'estetica di due secoli le si affidò, ed essa ci ha condotto all'ultima dispersione: l'arte, la solida, la precisa arte degli antichi, la poesia, la concreta, la solenne, la n.niale poesia degli antichi, frantun.tta nell'estrema lussuria, nel delirante caos surrealista. * * c L'errore si rinnova perpetuàmente nei fatti; perciò instancabilmente, colle parole, bisogna rinnovare la verità ». Goethe ha scritto questa massima o riflessione solenne. La sensazione è il fatto, e la parola è lo spirito, intelligenza e ragione, discernimento e idea. La ragione raddrizza i fatti, l'intelligenza incide le sensazioni, lo spirito restituisce la verità, ossia un'ideale armonia, alla poesia e all'arte. Goethe sapeva costringere i dèmoni nel profondo, sapeva ridurre la sensazione al suo officio di semolatrice dominata, e non ne era sopraffatto mai. Quel nobile signore dello spirito trattava le sensazioni come un principe orientale avrebbe trattato le donne del suo harem. Ne coglieva il fiore, ne componeva una corona di versi melodiosi e arguti, ne distruggeva il ricordo fastidioso o inquietante in un canto di puro anidre, e di con templazione. Era anche questo, di Goethe, dell'unico forse che ti sottrasse, sovrano, al male romantico, era un modo fine, poe¬ tico, apollineo, di crocifiggere il mondo, il dolore del mondo. Il cristiano eroico ed il saggio pagano, San Paolo e Goethe, si ritrovarono forse in questo, nel riconoscere ove si annida il dolore cosmico e la colpa dell'uomo; e quello che per uno era tentazione e peccato, era per l'altro indegnità e bassezza, e dove uno cercava la redenzione di Cristo, l'altro perseguiva l'orma lucente degli dei della Grecia: ma tutt'e due ben sapevano, per divinazione e profezia, che all'origine dell'antico Adamo è un limo, un fango, un che di scivolpso e perduto, la «sensazione » dell'universo corrotto, del mondo ferito dal fato inconoscibile. L'autore del Faust è alla sorgente dell'attivismo d'oggi; così si disse. Non è esatto. L'attivismo d'oggi, è, vuol essere ed è. violento oblìo, sforzo o impeto risolto in se stesso; non approda a nulla, non acquista il bene interiore, non accresce la virtù dell'animo, che sola conta; l'annulla anzi, o disperde, nella fretta improvvisa. Goethe predicò ben altro; predicò e praticò la nobile azione, che è concordia creatrice, che al di là dell'attimo fuggevole e perplesso, che oltre la sensitività affascinante e mortale, suscita e innalza i momenti successivi, distaccati e perenni, della coscienza umana. L'agire è per Goethe prosecuzione e variazione alterna e felice del meditare; ed azione e pensiero si compiono e adempiono nel ritmo costante della poesia. Anche San Francesco esigeva dai suoi fratelli e discepoli l'operosità, che non è l'attivismo, che scaccia le tentazioni. E la grazia artigiana, umile, gentile, di quei poveri mendicanti e giullari di Dio, era pura d'ogni seduzione: amavano essi la natura ch'era semplice e casta per loro, casti e semplici; le sensazioni equivoche, ambigue, allettatici non li turbavano; erano riserva del diavolo. E quel lavorìo continuo nei campi, nelle cucine dei signori, nelle chiese squallide e nei sobborghi popolosi, era, se mai, la salvezza. Grandi esempi. Al fondo, una stessa luce. In Goethe superbo, nell'umile frate la stessa luce di un dio. II quale sta oltre la corrente di ciò che seduce i sensi dell'uomo. Ed è un che di infinitamente dolce e di infinitamente grave e austero. A noi moderni ritrovare questo «infinito », di austerità e di dolcezza. Francesco Bernardelli Diiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiniiiiii ninnimi

Luoghi citati: Grecia, San Paolo