Occhi italiani di Arrigo Benedetti

Occhi italiani 1 nostri contemporanei Occhi italiani Non è per l'incarnato olivastro del meridionale, non per l'onda bruna dei capelli, o per la brillantina che quest'onda rende lucida, metallica, dando risalto ai residui della forfora: l'italianità viene fuori anche se uno ha capelli biondi e liscosi, occhi azzurri. Il personale slanciato non permette equivoci, l'abito tagliato da un sarto inglese non maschera. Il trucco rende anzi più evidenti i caratteri nazionali. Sempre che ci si ritrovi all'estero, in mezzo a stranieri. Alcuni anni fa in Inghilterra, mi accadde di cenare, con amici italiani, per due o tre sere di seguito, in un ristorante, inglese ai margini di Soho. Ci fossimo addentrati nel quartiere così denso di richiami alle città del mezzogiorno europeo, avremmo trovato ristoranti italiani, greci, francesi, spagnoli. Il Mediterraneo ci sarebbe corso incontro con il suo odore di aglio sfritto nell'olio. Invece ci tenemmo ai confini di quella macchia latino-araba, forse in polemica con gli europei del continente, e specialmente italiani, i quali appena sbarcano a Dover subito domandano indirizzi di cucine meridionali. Ci sedemmo in una vs ta sala, dal soffitto basso, con le doghe di legno alle pareti. Fummo serviti da camerieri né giovani né vecchi, né grassi né magri rassomiglianti ai camerieri che si vedono nelle vignette delle riviste illustrate inglesi. Avevano il volto del bevitore di birra e del mangiatore di roast-beej; tanto che subito desiderammo quella bevanda e quel cibo. Ad un certo punto della cena provammo una curiosa impressione: come d'una nota stonata ir un quadro così coerente nella varietà dei caratteri locali. Ne aveva colpa un cameriere, più giovane che vecchio, più magro che grasso. Il suo volto era largo, il suo naso schiacciato, isuoi occhi scuri erano protetti dal cespuglio di scurissime ciglia e sopracciglia. I suoi capelli erano lucidi, neri e forti. Dicemmo subito: «E' un italiano! ». Ma appena ardimmo questa qualificazione subito la trovammo poco sicura. Forse è calabrese, pensammo; forse è sardo. E anche le altre sere che tornammo nel ristorante, sempre restammo perplessi. Avvertivamo nel nostro personaggio un che di equivoco e d'assurdo. Finché uno di noi non propose di sederci nel settore assegnato a quello strano esempio d'uomo latino-mediterraneo. Non ricordo che cosa gli dicemmo. Forse qualcuno l'affrontò domandandogli francamente il nome della città d'origine, forse qualche altro si mise a sospirare per gli spaghetti ed il caffè; il lamento destinato ad affratellare gli italiani all'estero. L'uomo bruno tacque. Come se non ci fossimo rivolti a lui e par lassimo tra noi. Inutilmente venne chiamato « paisà », da uno di noi ch'è di famiglia meridionale Il silenzio del nostro personaggio era certamente polemico; sospettavamo che capisse benissimo e che per ragioni sue non volesse risponderci nella lingua materna. Sarà per la guerra, pen. savamo; probabilmente non ha dichiarato la sua nazionalità; forse si finge spagnolo, trancese... Eppure, anche ad alcune do. mande rivoltegli in francese e spagnolo, non rispose affatto Restava muto, impermalito: irri* tato forse d'un equivoco frequente cui non sapeva rassegnarsi. Non restò che parlargli in inglese e a colui che Io fece egli rispose ch'era lì per ragioni di lavoro e basta. Ordinassimo e non gli facessimo perdere tempo. In seguito sapemmo dal proprietario del ristorante che il cameriere bruno era inglese di madre e di padre, nato e cresciuto, con la sua patina meridionale, nello Yorkshire. Ciò naturalmente ci meravigliò, tanto che ci mettemmo a parlare di ero mosomi e d'altre cose di cui era vamo ignorantissimi. Lieti d'ave re trovato un tema sconcertante per la nostra conversazione, di menticavamo che fin dal primo momento l'italianità del cameriere con gli occhi neri ci era parsa dubbia. Come se io sguardo non avesse la melanconia vellutata, proprio d'ogni italiano, per fino di quei veneti, di quei lombardi, di quei piemontesi che per il resto potrebbero essere scambiati per tedeschi o francesi Si tratta d'una sfumatura derivante forse dalla particolare educazione che riceviamo in fami glia e a scuola, dove genitori e maestri operano in modo da sol lecitare lo sviluppo rapido non del nostro raziocinio ma delle nostre facoltà sentimentali. * * Nell'inverno scorso mentre vo lavo da Parigi a Berlino, seduto nei posti anteriori del quadrimotore di linea, mi ritrovai, qua. si senza awedermene, ad osser vare insistentemente un viaggia' tore che sedeva almeno sei file più avanti. Due volte tentò di penetrare nella cabina del co- mpnbpssvcsiscrmGndncglepvtalggm e o o r e n e o e i - mando per attaccare discorso coi piloti; sempre respinto, non tornò al suo posto ma si sedette sul bracciolo d'una poltrona occupata da un vecchio signore tedesco. In un primo momento pensai che l'irrequieto compagno di vhggio fosse uno svizzero. Era calvo, magro, piuttosto alto e vestiva di blu. Ma questa prima impressione svanì appena si volse verso di me e vidi i suoi occhi. Erano chiari, acquosi, arrossati ma contenevano la sfumatura dorata della melanconia. Gli piaceva stare in vista, dominare la lunga cabina dove alcune diecine d'europei leggevano giornali, riviste, libri. Nessuno s'occupava di lui; meno di tutti una giovane signora che sedeva nella poltrona davanti alla sua. Di essa si vedeva appena la testa coperta da radi capelli biondi. Forse la giovane donna leggeva o dormiva ma l'italiano calvo tentava lo stesso d'attrarre la sua attenzione. Si chinava verso di lei come volesse vedere cosa leggeva, le domandava scusa per la sigaretta che stava accendendo, ma evidentemente non otteneva alcuna risposta soddisfacente perché ogni volta, dopo essere rimasto un po' sovrappensiero, si rivolgeva di nuovo alla viaggiatrice con un'altra scusa. Quando non ebbe più speranza d'attaccare discorso, si mise a fischiare tra i denti «La donna è mobile», « Funicoli - Funicolà », «La montanara va...» ed altre musiche molto italiane. L'aria che usciva dalle labbra del viaggiatore calvo raggiungeva il sommo della testa della viaggiatrice e ne sollevava i finissimi capelli. Desistette solo quando la hostess francese, dai fianchi piuttosto pronunciati, cominciò a servire la cena. Allora il viaggiatore dimenticò la sua vicina dai capelli radi e biondi e tentò di aiutare la francese che distribuiva i vassoi. Ne derivarono alcuni incidenti. La hostess con tinuando a sorridere disse al viaggiatore che non aveva affat to bisogno del suo aiuto, provocando in lui una rassegnata disperazione. Cadde nella sua poltrona e non dette più un segno di vita. Confesso che per la sua galante vivacità lo avevo supposto siciliani, o napoletano, nonostante l'apparenza svizzera; ma durante h sosta di Francoforte, ritro natomi a parlare con lui, scoprii ch\ra fiorentino. Per poco non scoprimmo d'essere parenti. Ed anche questo è tipico fra gli italiani all'estero. * * L'italianità è un marchio, probabilmente come lo è la gallicità per i francesi e l'anglicità per gli inglesi. E' una sfumatura indelebile, non può essere nascosta. Un anno fa, verso metà settembre, ero a Tunisi. Guidato da ben Salali, il giannizzero del nostro Consolato, visitai più volte i suk. Ci fermavamo nei piccoli caffè, godevamo il fresco delle piccole ombrose strade. Ben Salali molto educatamente insinuava che il pòpolo italiano e il tunisino sono fratelli. « L'uomo che arriva potrebbe essere un siciliano », mi diceva spesso indicandomi un arabo avvolto nella sua fresca vestaglia bianca. Un po' perché non volevo deludere il vecchio giannizzero, un'po' perché non trovavo obbiezioni persuasive, tacevo e assentivo, sebbene non fossi del tutto convinto. « Sì, sembra, un siciliano, un napoletano, magari un toscano », volevo dire, « eppure... ». •Davanti al piccolo caffè in cui stavamo seduti, era il negoziuccio d'un venditore, di dolci, che se ne stava sugli scalini ad osservare la gente. Ben Salah non s'occupava di lui; io, al contrario, non riuscivo a staccare gli occhi dal piccolo commerciante. Avrà avuto trentacinque anni, era piuttosto robusto, come lo sono tanti arabi dell'interno; anch'egli portava un abito bianco, però meno lindo di quelli che frusciavano nella strada accrescendo il senso di grande frescura. « Anche quello », stavo per dire, «pare un italiano»; ma la mia guida non me lo permetteva. Ora m'indicava un egiziano in panni europei però con la testa coperta dal fez rosso, ora un marocchino col turbante. A Tunisi infatti si scontrano e si confondono gli arabi dell'Africa occidentale, così ricchi di sfumature orientali e quelli dell'Africa del Levante così ricchi di sfumature occidentali. Ma un giorno, che penetrato solo nel suk mi fermai nel solito caffè, udii alle mie spalle un ita liano che mi diceva: «Buongiorno ». Era il venditore di dolci. I suoi melanconici occhi ridevano, ed era questo ridere nella melanconia che contrastava con l'abito che portava. Naturalmente parlammo di tante cose: dei suoi dolci, del nazionalismo del Neo-Destur, ma non del suo travestimento. Forse chissà non era dovuto soltanto a ragioni commerciali, ma ad una catena di fatti che il compatriota non aveva nessuna voglia di raccon¬ tarmi. Arrigo Benedetti

Persone citate: Ben Salah, Soho

Luoghi citati: Africa, Berlino, Dover, Francoforte, Inghilterra, Parigi, Tunisi