Il calvario d'un bambino e una rivolta di forzati

Il calvario d'un bambino e una rivolta di forzati SULLO SCHERMO DEL LIDO Il calvario d'un bambino e una rivolta di forzati (Dal nostro inviato speciale) Venezia, 1 settembre. Ha tenuto ieri sera il campo, sullo schermo del Lido, l'Olanda, che dopo esser stata delle partecipanti della prima edizione della Mostra veneziana nel 1932 ed aver sfolgorato in quella del 1934 con Puberteit di Hans Sluizer, Dood Water di Gerard Rutten e altri due film, non vi si era fatta più vedere sino ad oggi. Tuttavia il cinema fiammingo non è ancora ordinato a una produzione regolare, autonoma; e il film da esso presentato a Venezia, Ciske de rat (< Faccia di topo»), reca la firma di un regista straniero: il tedesco Wolfgang Staudte, cui la rinascente cinematografia germanica del dopoguerra deve l'abbastanza significativo Gli assassini sono tra noi. Faccia di topo si ispira strettamente a un romanzo omonimo di Piet Bakker, popolarissimo nel Paesi Bassi; la storia, a sfondo pedagogico, di un c Poil de carotte » nazionale, in- 111111 m■11111 • 11111111 )f11111 m 1111f t 11111 m 111111tt volgente il problema della responsabilità dei genitori, dei maestri e della società tutta, verso i ragazzi. Come quella dell'eroe di Renard (con cui. ha peraltro affinità soltanto esterne), l'infelicità del tredicenne Francesco Vrijmeeth procede dall'odio materno; un serpente di donna lo ha messo a! mondo e gli avvelena giornalmente la vita. Quanto al padre, che è buono e vuol bene al ragazzo, il suo mestiere di marinaio lo tiene quasi sempre lontano da casa; e quando ci capita, deve anche lui contrastare con quella versiera, che pur facendo la gelosa, lo tradisce. Tali sciagurate condizioni di famiglia so-' no scritte sul faccino smunto tetro e perennemente allarmato (onde n nomignolo) del piccolo Vrijmeeth, che usando poco in casa e molto in istrada, ha preso le maniere del discolo ed e tenuto dal direttore della scuola in pessimo concetto. Ma per un fortunatissimo compenso, che nell'economia del film cesa sin troppo o almeno troppo presto, il suo professore Bruis, appassionato di psicologia fanciullesca, è tutto per lui; e in grazia sua, il ragazzo perde il selvatico, diventa uno scolaro a modo, benvoluto dai compagni (meno uno) e dallo stesso direttore cui Bruis ha aperto gli occhi. Quel canchero di madre è però sempre là; e invelenita dalla gelosia per Bruis che ha ottenuto la tutela del fanciullo, va moltiplicando i dispetti. Un giorno, infierisce più sadica del solito, e lacera un libro del figlio, a lui tanto caro, che è come se gli strappasse il cuore. Ciske fa volare un coltello che per l'appunto trova di punta il collo della madre e la uccide (la scena è forte e sobria). E' stata una disgrazia; ma con tutto lo zelo difensivo del buon Bruis, il ragazzo deve andare in un istituto correzionale. E' l'episodio più doloroso del film: il muto ma straziante distacco dei due lungo i gelidi corridoi; le visite al piccolo recluso, che dianzi così vivo prenderà a vista il rigido d'una marionetta; la tristezza delle lunghe notti vegliate nel pensiero di una quasi felicità spezzata... sono pagine colme, che diresti terminali. E invece il film, che ha altri problemi da porre, che vuol proprio vuotare il sacco, continua e ingrossa. Col ritorno dei ragazzo alla nuova casa paterna, allietata dalla presenza di una tenera matrigna, comincia un'altra serie di guai. E' impossibile per lui riprendere la vita di una volta senza sentirsi più o meno copertamente rinfacciare il matricidio: quando non è la malizia umana, ci si mette il caso: un « numero » di accoltellatori al circo equestre. Il buon professore deve rimettersi in campo; falle si riaprono in quella povera anima da tutte le parti. Ma un tragico accidente, provocato dal compagno cattivo, col por- ■ re a repentaglio la vita al. Ciske, mette fortunatamente fine al suo martirio. La',acuir la gli si riapre, tutti lo accarezzano; e il padre, ora che non ha più ragioni per girare al largo, gli diventa un diligente babbo di terra ferma. Si è implicitamente accennato alle mende del film, a quel senso che dà di faticose aggiunzioni, di implnzatura, Ma è pur un nobile lavoro, che ha meritato la commossa attenzione e il caldo consenso del pubblico. Tra gli interpreti, tutti bravi, è . particolarmente piaciuto il piccolo protagonista, Dik Van Der Velde, un ragazzo di forte e dolorosa espressività, che ha saputo aver ragione del suo non facile personaggio. * * Di tutt'altra lega li film pomeridiano di oggi, da cui siamo usciti intronati come da ùn concerto di grancasse. S'intende che una pellicola di forzati non debba cullarsi nei mezzi toni; ma via, Mani insanguinate (Brasile) passa la parte in fatto di violenza; è una continua, convulsa, esasperata buriana di effetti ed effettacci plateali. Diretto da Carlo Hugo Christensen, racconta una rivolta di deportati in un'isola del litorale brasiliano, capeggiata da un certo Adriano (Arturo De Cordova), condannato per uxoricidio. Sgozzate le guardie di scorta a tìtolo di antipasto, gl'insorti si impadroniscono dell'arsenale e tra lazzi feroci e con studiata lentezza divorano l'intera guarnigione. Poi i più svelti di loro si imbarcano, raggiungono il continente, e seguendo i fili del telegrafo cercano disperatamente di sfuggire ai poliziotti che li inseguono. Salvo la sosta a un tabarino di campagna, dove gli evasi si rifocillano e anche ballano di prepotenza, la loro odissea ha cadenza ed episodi di repertorio, con piaghe che vanno in cancrena, avvoltoi che fanno la ruota, tradimenti diserzioni trabocchetti, e fame, sete e stanchezza quante possono stare nell'uomo. Finisce che i fuggitivi preferiscono lasciarsi acchiappare e che il solo Adriano, cui preme di riabbracciare il figlio, continua nella formidabile avventura. Ma essa gli si risolve in nulla; perchè li suo orrendo aspetto di pazzo, spaventa tanto il piccino, da farlo traboccare in un fiume. Così si avvera la profezia di una guardia moralista: che Adriano non avrebbe mal potuto accarezzare con quelle sue mani insanguinate, la propria creatura. Intorno al De Cordova, un attore che avrebbe meritato un altro film, ruotano ghigne diaboliche, da sognarle la notte. Leo Pestelli

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