La risata di Guido Piovene

La risata La risata Una lunga sosta a Napoli e un invito a partecipare a una riunione di ex-allievi del collegio di Lodi, in cui trascorsi parte dell'adolescenza, si sono messi insieme per rievocarmi alcuni fatterelli collegati tra loro: ne racconterò una parte. Ma la storia si inizia qualche anno prima del mio ingresso nel collegio dei Barnabiti, frequentavo le scuole elementari in un altro collegio, il Cordellina di Vicenza. Il mio idolo era allora un maestro, di nume Meneguzzo; ufi bell'uomo tarchiato, con i baffi voltati in sù, insegnante abilissimo, il cui metodo di insegnamento era una mescolanza del metodo Montessori, di cui non si parlava ancora e del metodo gesuitico. La sua arte era quella di farci studiare grammatica aritmetica e storia quasi fossero un gioco; ma in quei gioco infondeva un accanito spirito di competizione. Perciò andavamo in classe come si va in una casa da gioco sognando vincite e trionfi. Il calore della passione mi rendeva insensibile al freddo delle mattinate d'inverno, nelle quali uscivo di casa con lo stomaco pieno di una zuppa di caffelatte mangiata in fretta, zoppicando per i geloni, ma tirando la donna che mi teneva per la mano e che, essendo gravissima, non andava veloce come il mio desiderio. I bei palazzi palladiani troneggiavano nella bruma con loggiati e colonne sulle' strade semideserte. Incontravo l'onda ta delle beghine dalle sottane che toccavano terra; sugli stivaletti neri, senza tacchi quasi da uomo, esse trottavano al richiamo d'una campana verso la Messa della chiesa dei Filippini, 10 correvo verso là scuola. Mi aspettavano tutti i giorni puntuali come il caffelatte, il gioco, la competizione, il narcotico della gloria. Nel Veneto vi è sempre una punta di stravaganza. Non saprei spiegare altrimenti .come quel maesto, in una città clericale, in un .collegio retto da un vecchio prete zanelliano, con allievi nessuno dei quali toccava i dieci anni, avesse scelto come libro di testo segreto (lo teneva nel suo cassetto, e ne dettava squarci) proprio Le ultime lettere di Jacopo Ortis..Li sco-' laresca, appartenente a famiglie terriere, o di commercianti agiati, avvezza a risparmiare tutto, anche i vocaboli, tanto che una sola parola arieggiarne al poetico avrebbe irritato i vecchi come' una spesa inutile o un pericoloso segno di prodigalità mentale, scriveva sotto' dettatura ed in bella ' calligrafia quelle *fiisì abbondanti, risonanti e patetiche. Foscolo mi sconvolse; .e non osando pronunciare metafore nella mia casa dove non •avevano corso, mi sfogavo nei componimenti. Nominare qualsiasi oggetto col suo vero nome ini sembrò orribile. Non esistevano più 11 sole e la luna, ma.Eebo e Diana; non l'inverno, ma isl Vernò, e non la primavera, aia Primavera. Su quella prosa splendida, ma così inadatta all'età, contrassi per alcuni anni il.vizio di considerare la scuola un luogo fuori del reale, fatto per abbandonarsi ad un piacevole delirio di sentimenti falsi e di mitomanie. Questo vizio portai nel collegio dei Barnabiti a Lodi. Nonera adatto ai pensieri frondosi nemmeno quel grande collegio, sorgente in una plaga dedita alle cose pratiche, ai foraggi, latte e formaggi, ed in cui tutto invita, la natura e la gente, ad essere nel tempo stesso poetici e positivi. - Gli studi erano seri, asciutti, raccolti; la disciplina alla modestia, il riserbo e il realismo religiosi, l'indole della Lombardia, si alleavano contro le immaginazioni gonfiate. Ma sono insegnamenti che, sepolti : nel cuore, tornano a galla ed agiscono in me solo a distanza di decenni. Conobbi allora quei profondo attaccamento per la terra lombarda, che me~Fha fatta rimanere quasi una seconda patria. Adesso trent'anni più tardi, so che il mio collegio eccelle per le comodità moderne. 10 giunsi ancora in tempo per essere allevato senza troppe comodità fisiche, e il leggero sacrificio continuo istituiva fra i ragazzi e le cose qufl contatto intimo, diretto, che è già un principio di poesia. Non ricorderei con la stessa intensità i risvegli nel dormitorio, nell'aria ancora semibuia, se non fossero penetrati in me col freddo del locale non riscaldato. I lunghi corridoi delle pareti bianche arrossate dalle prime luci, oppure i flnestroni velati dalla bruma bianca, la discesa nella cappella dalle grandi tende vermiglie, la corsa al refettorio dove le scodelle fumavano già piene sulle tavole annebbiando l'aria, sono tutti ricordi, per cosi dire, cesellati dal freddo, che aizzava 11 sangue giovane ed acuiva ■ i sensi. Le camerate e le aule scolastiche, in cui ardeva una stufa, erano una specie d'oasi, della quale ritrovo pensandovi la dolcezza. Di quegli anni trascorsi a Lodi ricordo cosi ogni minuto, ogni parola ed ogni faccia, mentre i ricordi più tardi si fanno confusi. Erano anni semplici, se ri « felici, dei quali non voglio pmnaepbcdnlsarlDre ' ' n ni , e i , o l i i a a ù . r i o n a o l i e a , e , a i a i , o o parlare, perchè dovrei andare molto più a fondo. Nè il collegio nè la Lombardia riuscivano però a guarirmi del vizio di scrivere enfatico. Ricordo le facce perplesse dei buoni Padri Barnabiti di fronte a quelle filastrocche ampollose; ma, per quanto dicessero e mi citassero Manzoni, io non mutavo stile. Venne là pubertà; quegli anni quasi senza tempo, sublimi e villani, associati nel mio ricordo all'odore di acacia che avvolgeva le lunghe passeggiate domenicali nella campagna presso l'Adda. Divenni quasi un altro essere, un ragazzaccio indiavolato, sguaiato ed aggressivo, fanatico nel giocare e nel. tormentare i maestri. Nessuno mi vinceva nel rendere impossibile lo svolgimento regolare delle lezioni o nel paralizzare una camerata mettendo la notte tutte le scarpe a bagno nell'acqua gelida. Ma i miei componimenti rimanevano dello stile che dirò tra poco. Segno che la falsità retorica si nutre di se stessa, e perciò è il vizio più difficile • da elìrtiinare. A questo punto appare Napoli; che diede, a modo suo, il primo colpo al castello della falsità. Si sa che Napoli, città di grandi pratori, è nel suo intimo la. meno retorica città del mondo. Indùlge- ai sentimenti retorici per facilità di carattere, per convenzione, per .piacere, per condiscendenza e pietà verso gli altri e se stessi; ma nel profondo non è mai vittima.del proprio gioco. Anzi è precìsa, esatta, come si vedVrtei migliori. Napoletano il Padre P., venuto non so come a,Lodi, che mi trovai rientrando dalle vacanze quale insegnante di italiano. Umanista meridionale, grasso, pigro, d'aspetto fin troppo sentimentale e bonario, faceva contrasto con gli altri. Padri, quasi tutti lombardi. Due pieghe stracche tra la bocca e le grosse gote, rese più ampie e profonde dalla pinguedine, gli davano un'espressione accasciata, sedeva in-cattedra portando dipinta sul volto una stanchezza remissiva, da uomo ben deciso ad accettare tutta l'umana sciocchezza. Non ebbi più resistenze da lui. Metafore barocche, similitudini sballate, mitologia, personificazioni, fantasie senza nè capo nè coda, sfoghi ampollosi, autobiografie, mitomania, trovarono in lui non soltanto indulgenza, ma ammirazione. Lasciato andare, mi sfrenai. L'andazzo continuò'per tutto un invernò, finché' la primavera portò un fatto- nuovo. Erano i primi caldi, e le lezioni si svolgevano con le finestre:'aperte, "da-"cui' entrava nel l'aula il bel sole della- mattinaPadre P. mi invitò a uscire dal banco per leggere ai miei compagni un componimento che gli era piaciuto in maniera speciale Io. leggevo, il Padre ascoltava, con- il mento sul petto, é la sua solita espressione depressa. Giunsi a un passaggio in cui descrivevo me stesso press'a poco cosi: «... un essere tormentato da una grande sete d'amore, che non mi dava requie, per. cui se incontravo qualcuno, chiunque egli fosse,'lo spiavo nel volto aspettando, come un mendico, una parola buona o un'occhiata tenera, soffrendo atrocemente se non capiva subito quanto l'amassi». Padre P. mi interruppe: « Già — disse nel suo accénto napoletano, e sento ancora la sua voce, grassa come lui, profonda, che saliva dal ventre, — è bello... molto bello... allora voi... se incontrate qualcuno... me per esempio, o uno dei vostri compagni... (e guardando tra i banchi cominciò a nominarli), ci spiate sul volto, come voi dite, per cercare l'elemosina d'uno sguardo... non ci avevo pensato mai...». • Io cercai di svignarmela col riprendere la lettura. Padre P. mi interruppe ancora, e fissava quel ragazzetto, che ero io, ridanciano, ribelle, specialista, in dispetti al prossimo. Poi riprese a parlare, mantenendo sul volto la sua pesante maschera: «Così siete... ho capito bene ». « Sì, padre, sì » borbottai. « Allora, poveretto, soffrite molto..'. ». Nella maschera, ancora seria, mi parve tuttavia di-scorgere il tremolìo nervoso che preannun-' eia il riso. Quella è l'età del risi) facile. Mi bastò sospettarlo, perchè anch'io sentissi qualcosa che mi grattava dentro. « Allora, continuò, se uno volesse definirvi... dovrebbe dire che siete un mendico d'amore... ». Aveva appena pronunciato queste parole che la sua faccia pingue fu sconvolta da - un terremoto, e ne sbottò "un'immensa risata da ventriloquo. L'intesa tra noi fu fulminea. Scoppiai a ridere insieme, e il riso, dell'uno eccitava quello dell'altro. Arrovesciato sulla sedia, sussultando e lacrimando, il,Padre rideva sempre di più: «Ah, ah! Ohi, ohi! Il mendico d'amore!' Il mendico d'amore! ». Rapito dall'istinto buffonesco della mia età cominciai addirittura a saltare e a fare boccacce; strillando anch'io su tutti i toni: c II mendico d'amore! Il mendico d'amore! ». La scolaresca, trascorsa la prima sorpresa, sghignazzava e berciava; finché Padre P., temendo forse che qualcuno sentisse, tornò se¬ rplelocnlisac«qmbsbdCfmbiaparpMctccpdpcz■ rio ad un tratto come era scoppiato a ridere, ci impose il silenzio e concluse: «Però, bello lo. stesso». Questa risata salutare mi ha ricordato un'altra risata napoletana, che ho trovata in un vecchio libro, quello di Raffaele De Cesare sulla Fine d'un regno. Francesco II era salito al trono con « un proclama magniloquente e quasi mistico», preparato da altri, ma che anch'egli trovò « molto bello »: Tra le fastose cerimonie sacre e profane, ci fu il solenne baciamano «secondo le regole della più rigorosa etichetta di Corte ». Nella reggia di Napoli, fra tutte forse quella che assomiglia di più alle reggie da fiaba, stavano sotto il baldacchino il re Francesco II e Maria Sofia accettando l'omaggio dei gravi personaggi che sfilavano davanti al trono. Quando però apparvero i magistrati in toga e il cappello alla don Basilio, la regina Maria Sofia che portava manto e corona, scoppiò improvvisamente a ridere. «Il riso — dice il cronista — è epidemico; non c'era verso di frenarlo ». Re, principi, dignitari, alti prelati e dame di palazzo ridevano press'a poco come la scolaresca del mio collegio, ed una grande sghignazzata fu il sugo della cerimonia. Guido Piovene

Persone citate: Foscolo, Francesco Ii, Jacopo Ortis, Manzoni, Maria Sofia, Meneguzzo, Montessori, Raffaele De Cesare