Una visita a De Pisis

Una visita a De Pisis Una visita a De Pisis Milano, 2 aprile. Ci fermiamo (sono con un amico) davanti ad una piccola casa, in una strada della periferia milanese. La porta è chiusa, bisogna sonare il campanello ed attendere. Viene una donna, ci chiede chi vogliamo vedere e se siamo autorizzati; poi distratta aggiunge: «Allora in fondo al giardino, nel padiglione di sinistra ». Il giardino è silenzioso, troppo vasto e sprofondato in un'aria ambigua: come se anche la natura, per ipocrisia o per pietà, volesse ingannarci sulla vera destinazione del luogo in cui ci troviamo. Cinque gradini conducono all'ingresso del padiglione e c'è una seconda porta chiusa, bisogna ancora sonare ed attendere. Compare un'altra donna, ci rivolge le stesse domande della precedente e risponde: «Un momento, avverto la suora ». Restiamo soli in una specie di salotto ottocentesco, un piccolo piano a coda è nell'angolo, sedie e poltrone sono disposte contro le pareti od intorno a due tavolini, ma si capisce che non aspettano nessuno. La donna ricompare: «Vadano pure, è al primo piano » dice. Alla fine della scala c'è un'altra porta, bisogna sonare ed attendere una terza volta. Al di là dei vetri si vede una spaziosa anticamera col pavimento di mattonelle e, sopra, la spessa vernice rossa tirata lucida con la cera. E' un pavimento assurdo, da pittura metafisica e tanto rosso, tanto lucido da far pensare che non sia così per una ragione igienica, ma psicologica. Questa volta compare un infermiere col càmice bianco: è sanguigno, alto, grosso; un'occhiata agli avambracci ed al collo, che ha nudi, rende fulminea la sensa^ zione che la pazienza umana dipinta sul suo volto contrasta, e forse lotta, con la forza dei mu scoli. Gli diciamo da chi si vuole andare: « Bene — risponde — è la settima camera a sinistra, nel corridoio ». Il pittore Filippo De Pisis è sulla soglia, come se ci aspettasse. Alza la destra per salutarmi con un gesto che riconosco « che ricorda quello delle signore quando desiderano il baciamano. Se alle nostre spalle non ci fossero le tre porte chiuse, e per maggior sicurezza persino senza maniglie, potremmo illuderci d'essere in un albergo non molto moderno, ma pulito tranquillo. «Oh, caro — dice subito De Pisis, con la voce nasale e cantilenante, che ancora si arrugginisce sulle erre, ma meno rotonda d'una volta — oggi sto proprio poco bene." E' una cosa lunga, bisogna avere pa zienza ». Mi guardo intorno. La stanza è piccola e spoglia: il letto, un tavolino, un armadio; non c'è un libro od un quadro; la lampadina appiccicata al soffitto dà subito la sensazione che soltanto sorvegli senza illuminare le notti deserte. Guardo lui. Un tempo era corpulento, adesso è dima grito; portava la caramella al l'occhio destro, ora non l'ha più e gli occhi, infossandosi, si sono rimpiccioliti; era sicuro di sè, irrequieto, fantasioso e adesso lo si vede gracile, paziente, preoccupato. Osservandolo si hanno pensieri contrastanti, in bilico tra retorica e pietà, amore e paura. Lo rivedo in un giorno di sole mentre dipinge in una popolosa calle veneziana e sembra che sia solo in mezzo ad un deserto; lo risento parlare - in una notte di festa, baroccheggiante negli abiti, nei pensieri, nei gesti in mezzo ad una folla di invitati. Sono avventure da lui dimenticate e per questo non ci si sottrae alla conturbante meraviglia che suscita un uomo quando riesce ad annullare tutto se stesso. E' come se tornasse ad una ingannevole infanzia, soltanto preso da quel che succede nel momento in cui vive: proprio la vita sfuma d'attimo in attimo senza diventare ■i passato » e senza prefigurarsi in « avvenire ». Ci siamo seduti ed è quasi inutile rivolgergli la parola: « Oh caro — ripete con ostinazione — oggi non sto niente bene. E' una' cosa lunga, bisogna avere pazienza ». Non cercheremo nemmeno di spiegare ciò che si nasconde dietro la « cosa lunga », per la quale è necessario essere pazienti. Anche i medici divagano da una supposizione all'altra, orgogliosi e sicuri della loro scienza, giustificando e giustificandosi ' con discorsi così complicati e sfuggenti, che dopo mezz'ora ci si ritrova-al punto di'partenza. Rivedendo De Pisis nella stanzetta della clinica, rinchiuso dietro le porte senza maniglie, ricordavo altri incontri. A Milano, nello studio di via Rugabella; nella grande casa di Venezia; in un alberghetto di Parigi, il Pas de CaLm, in rue des SaintsTères. Erano tutte immagini primaverili, od almeno la fantasia me le colorava così dal momento che non riesco a distaccare la sua figura e la sua pittura da questa stagione dell'anno e dell'animo. Ora egli ripudia simili immagini e chi sa che cosa cerca o vuole. Allora De Pisis. tanto diritto nella persona che il ventre sembrava più ingombrante di quan¬ to non fosse nella realtà, recitava e declamava in ogni occasione, sopra un ideale palcoscenico, per il proprio piacere e per quello degli altri. Monologava per ore, da un argomento all'altro secondo il capriccio, poetico, vanitoso, distratto, ignorando quel che capitava al di fuori delle sue curiosità personali, della sua pittura e dei suoi amici. Dipingeva con lo stesso estro con cui parlava e viveva: fiori e paesaggi, ritratti e nature morte erano colori e forme che bisognava mettere sulla tela con voracità quasi la vita glieli offrisse soltanto per pochi attimi: quanti bastavano perchè potesse impadronirsene. Questa è la vita di un altro uomo, non di quello che vedo seduto sul letto nella piccola camera d'una clinica, da sette anni chiuso dietro porte che non hanno le maniglie.. E' paziente, appare calmo; ma i colori, la fantasia, il mondo d'una volta non gli suggeriscono più nulla. La mano destra gli trema, i ginocchi battono l'uno contro l'altro per un tic nervoso che non può vincere; e gli occhi e la memoria sono senza più nessun ricordo del tempo. Questa è la « cosa » che più appare incomprensibile: un naufragio nel quale la vittima, trasformandosi ed adattandosi al nuovo ambiente silenzioso e buio nel quale cade, sopravvive a se stessa. E' una metamorfosi che affascina per quel tanto di misterioso che ci lascia intravedere; che anzi ci mostra con un assurdo orgoglio. De Pisis, ho detto, appare calmo, ben rasato, in ordine gli abiti quasi fosse sul punto d'andarsene oltre le tre porte senza maniglie; ma in realtà non desidera muoversi ed abbandonare quel suo unico pensiero: «Oh caro, oggi non sto niente bene. E' una cosa lunga, bisogna avere pazienza». Gli abbiamo portato un panettone sapendo che ne è goloso ed il pacchetto è sul tavolino, ogni tanto egli !o guarda come per assicurarsi jhe non scompaia. Per toglierlo da un'attesa penosa, glielo si apre, glielo si mette sul comodino invitandolo ad assaggiare. La golosità ed un residuo segno di rispetto per se stesso e per noi, combattono nel suo animo. A poco a poco si allunga verso il comodino: «Ho bisogno di nutrirmi molto» dice affondando la mano nella pasta soffice del panettone. In quell'attimo anche noi siamo dimenticati. Semisdraiato sul letto, puntellandosi con un gomito al cuscino, velocemente, con la mano sinistra che non gli trema, si riempie la bocca e mastica assorto, forse felice. E* un vecchio bambino, grosso e mugulante, libero da ogni passione, alleggerito da ogni ricordo, con un minuto di gioia da¬ mniiiiiiuiMiiiiimiiHiiiiiiiiiiiimiiiiiiiiiiiiiiiiiM vanti a sè, che bisogna consumare con frenesia. Con i quadri dipinti, e che mai più dipingerà, egli ha dimenticato le esaltanti avventure di Milano, di Parigi, di Venezia, di Cortina quand'era spagnolescamente grandioso e bizzarro, spavaldamente sospeso su ogni piacere dei sensi. Adesso divora manr ciate di panettone e quando' hsrj finito si alza, ci sospinge verso la porta avendo deciso che l'incontro è finito : « Oh caro — dice — oggi sto proprio niente bene. E' una cosa lunga, bisogna avere pazienza ». Vuole vederci andar via ed offre la destra a quel suo modo, tenendola alta, col dorso piatto, voltato in su. Fatti pochi passi mi giro ingenuamente sicuro di vederlo ancora davanti alla sua camera e dargli un nuovo saluto. Ma è già scomparso. Chi mi accompagna e che meglio di me conosce le sue abitudini, mi dice: «Le spiegherò perchè ci ha mandati via. Voleva divorare anche le briciole del panettone rimaste sulla carta e starà facendolo, anzi avrà forse già finito ». Questo superstite desiderio di controllo e di dignità mi pare, per contrasto, il ricordo più doloroso della mia visita. Enrico Emanuel!!

Persone citate: De Pisis, De Pisis Milano, Enrico Emanuel, Filippo De Pisis

Luoghi citati: Milano, Parigi, Venezia