Il proprio mestiere

Il proprio mestiere Il proprio mestiere Non so se ancora oggi, ma in un' passato non troppo remoto la sentenza che più spesso ricorreva nei discorsi dei milanesi era questa: tOffellée fa 7 tò meItée», e cioè: «Pasticcerò, fa' il tuo mestiere ». Per l'inevitabile ingenuo campanilismo dei ragazzi, io ritenevo che fosse sentenza prettamente lombarda. Ignoravo ancora il « Niente di troppo » dei greci, U « Sutor, ne sopra crcpidam » dei latini, e forse mi suonava un po' affettato quel detto dei toscani: «Chi esce fuor del suo mestiere, fa la zuppa nel paniere ». Ma col passare degli anni, mi son venuto convincendo che quella sentenza, anche se non originaria di Milano, è una delle più adatte a definire il carattere della città. Una città che pone il lavoro al culmine, direi, di ogni gloria umana, e che perciò esige da ognuno la scelta del proprio posto secondo una precisa vocazione e una dimostrata perizia. Sconfinare nel campo altrui, più che un sopruso, è un errore; e quel monito; «Fa' il tuo mestiere », non ha tanto il tono di una minaccia, quanto quello di un bonario ma' ben preciso avvertimento. Nulla di umiliante, tuttavia, nel ridurre l'uomo nei confini delle proprie attitudini. Perchè, per il lombardo, ogni mestiere ha la propria necessità, ma anche la propria nobiltà, derivante appunto dall'esecuzione scrupolosa e dall'applicazione costante al compito fissato. Una grande lezione, questa, in un paese come l'Italia, dove buona parte dei cittadini è persuasa di aver « sbagliato carriera », di sentirsi le ali tarpate, di aver fallito l'incontro con un folgorante destino. Si guardi all'arte: col pretesto che .gli italiani sono portati per natura alla fantasia e al sentimento, tutti o quasi tutti si reputano artisti. Chi ha occasione di occuparsi di queste cose, sa come i < poeti », i « romanzieri », i « pittori », i « musicisti » si contino nella penisola e nelle isole • decine di migliaia; sa come vadano sempre più dilagando, pronubi il rinema e la radio, tumultuanti maree di cantori, di attori, di mimi e ballerini; e infine come al nome di artista pretenda chiunque si presenti a un pubblico, sia egli giocoliere o domatore, acrobata o mangiatore di fuoco, tamburino o imbonitore da fiera. " Molte ambizioni attira e delude l'arte. Ma non tutte; nelle scienze e nella politica, accanto a pochi provetti, pullulano gli scopritori ed inventori d'occasione, i tribuni, i piccoli dittatòri in aspettativa, i « Capi » pronti a metter tutto a posto, insieme con i maghi, i veggenti, i taumaturghi e, nella vanità suprema, t falsi profeti e gli annunciatori di nuovi Messia. Ma non è una piaga d'oggi, è piaga di tutti i tempi, e una delle più inguaribili in Italia. Ecco come vivacemente ne dava un'idea Giuseppe Giusti: «Via via che ci nasce un figliolo, subito si dice: di questo ne vo' fare un Medico, di quest'altro un Avvocato. Se non si dice, si pensa. Oh non si potrebbe dare che a questo Medico, a questo Avvocato fosse toccata sulle spalle una testa da Contadino! — Oh il Contadino! — Gnorsl, la più antica, la più naturale, la più utile arte dell'uomo. Perchè defraudare se non affatto la vanga, almeno i Gcorgofili d'un buono e pratico agricoltore, per regalarci un Cavalocchi, un Cavadenti di più? Quanti possidentucci piuttosto che mandare a male quei sessanta scudi della laurea avrebbero fatto meglio a fare uno scasso! Quanti Arcadi rubati davvero alle pratora! Quanti Calzolai sciupati in un cattivo Architetto! ». . Per tornare a Milano, mi sembta dunque che uno dei meriti maggiori di questa città sia la coscienza dei propri limiti: il che non comporta affatto una diminuzione di valore ( « Un'arte che conosce i suoi limiti — diceva Tde — è un'arte illimitata »). in virtù di tale coscienza, i mestieri sfuggono a una scala gerarchica dettata dalla loro astratta definizione, per adottarne un'altra garantita dal raggiungimento del loro punto più alto. In altri termini, un meccanico, un operaio specializzato, purché mettano l'abilità e la passione necessarie nel loro lavorò, possono essere socialmente e individualmente più apprezzabili di un cattivo ragioniere o di un cattivo ingegnere A sua volta un buon contabile sarà più degno di stima di un mediocre novelliere, un ottimo capomastro vincerà di gran lunga un pessimo pittore. Non è dunque la funzione che crea la dignità del lavoro, ma la bravura con la quale questo viene eseguito. Così si pensa in Lombardia, e mi pare che tale atteggiamento consenta buoni frutti. Facciamo il caso degli scrittori. In una regione dove chi vuol scrivere in discreto italiano si sente sempre un poco nella necessità di dover « tradurre » dal dialetto, o almeno di dover « pensare » in una lingua appresa a scuola più che a casa propria, gli scrittori risultano'singolarmente attenti, scrupolosi e vigilati nel modo di esprimersi. Se si vuol trovare una letteratura dal vocabolario ricco anche se non ridondante, dalla sintassi bene ordinata e dallo stile accurato ma nello stesso tempo duttile e vibrante, non di rado bisogna rivolgersi proprio alle province lombarde. E non alludo soltanto al grandissimo Manzoni, che è il vero Dante della prosa moderna italiana, nè a quell'altro scrittore che gli italiani hanno il- torto di non considerare ancora fra i maggiori d'ogni tempo, a Carlo Cattaneo; ma anche a scrittori di forse più breve respiro, eppure altrettanto amabili, originali ed efficaci, come Pietro Verri e i suoi amici del Conciliatore, come certi «scapigliati» quali il Dossi, il Rovani e tanti altri, fino a quei prosatori del primo Novecento che vanno da Carlo Linari a Ugo Bernasconi: e che sono stati o sono ancora fra gli ultimi a difendere in Italia il gusto delle buone scritture. Ma anche 1 dialettali, e per primo occorre mettere un vero e grande poeta, Carlo Porta, furono coscienziosissimi artigiani della penna; e non caddero mai nel vago, nel sentimentale, nell' estemporaneo, tenendosi altresì lontani dalla tentazione più pericolosa per chi adotti il dialetto: il folclorismo, Mi sono soffermato sugli scrittori, perchè essi rappresentano 10 sforzo più palese dei lombardi per raggiungere l'eccellenza in un così difficile mestiere. Ma potrei parlare di pittori, di architetti, e anche di tecnici, industriali; banchieri, commercianti, organizzatori; e la conclusione sarebbe sempre la medesima, questa fiducia nel proprio lavoro, questo amore per la buona qualità del prodotto, questa fedeltà alla propria vocazione. Una fedeltà, si può ammetterlo, che non esclude qualche breve impennata, qualche fuga, qualche leggera follìa: tutti conosciamo 11 fabbricante di macchine o il costruttore di case che stampano a loro spese un volumetto di versi, l'assicuratore che ogni domenica esce di città per dipingere con inalterabile ottimismo la «Roggia fra i pioppi» o il « Tramonto sul Lambro », e magari lo scrittore che si è-messo ih capo di preparare un lungo saggio sulla cosmogonia dell'avvenire... Ma sono venialissimi peccati, e servono anzi ad impe dire le pedanterie delle troppo rigide specializzazioni. L'importante è che l'industriale o il co struttore non si credano nuovi Petrarca o nuovi Leopardi, che l'assicuratore non si ritenga un emulo di Apelle, e lo scrittore un Copernico mancato. Insomma, il pasticcere fa il suo mestiere, e cercherà di farlo nel miglior modo possibile, senza mai disprezzarlo in cuor suo. nè credersi sottratto a più gloriosi destini. In questa accettazione del proprio compito consiste, io credo, la vera forza di una città che il cielo non ha troppo favorito, e, che ha dovuto chiedere, a tutti i suoi cittadini di contrapporre alla negligenza della natura l'abbondanza e la continuità delle opere ben compiute. G. B. Angioletti

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