Nello spendere il minimo è il prestigio dei romani di Nicola Adelfi

Nello spendere il minimo è il prestigio dei romani Nello spendere il minimo è il prestigio dei romani Il costo della vita nella capitale è tra i più bassi d'Italia - Trattorie di lusso riservate ai provinciali Molte discussioni e poche bibite ai tavoli dei caffè - Cinema, fumo, totocalcio e i cartocci d'abbacchio (Nostro servizio particolare) Roma, novembre. Il famoso regista, seduto su una specie di tronetto trecentesco nella sua splendida magione distesa in cima ai nuovi quartieri alti, mi confessò con l'amarezza della rassegnazione che da tempo aveva rinunciato a tener dietro al conto dei debiti: «Che vuoi, quando si arriva a cifre di poco sotto al miliardo e ogni mese aumentano di decine di milioni di lire per via degli interessi agli usurai, non ci si preoccupa più. La situazione da tragica diventa ridicola. Come può un poveruomo pagare cifre cosi colossali? Si tira avanti, senza più pensarci >. Era già tardi, e si venne in seguito a discutere sul luogo dove cenare; è questo un argomento che anche nei frequentatori assidui del ristoranti e dedelle trattorie romane apre subito la via ad interminabili, sottili ragionamenti; le voci si alzano, si accalorano, traboccano di acri sarcasmi o di autentica passione, e intanto le ore trascorrono, si va avanti fino a quando il pungolo della fame non affretta una decisione. Così accadde anche quella sera nella villa del famoso regista. Quando qualcuno, per riguardo alle signore, propose un ristorante del centro, uno del più eleganti ed affollato da diplomatici, principi siciliani e stranieri facoltosi, il regista insorse: « Che, siete matti? Là ci spellano vivi. Sono capacci di farci spendere duemila lire a testa, seppure bastano ». Lo stipendio fisso E' qui il tratto che più differenzia i romani da tutti gli altri italiani quando si tratta di mettere la mano al portafoglio. Se i milanesi, per esempio, collocano il lo. o punto d'orgoglio nello spendere molto, nel pagare senza battere ciglio, ma anzi con una venatura di soddisfazione, i più alti prezzi d'Italia; al contrarlo i romani situano il loro prestigio nello spendere 11 minimo possibile e nel pretendere il massimo. Un romanziere, tra i più ricchi per le rendite che trae dai suoi possedimenti meridionali, ha la costante preoccupazione di sottrarre alcune decine di lire dal piatto delle mance al termine dei pranzi In comune, perchè dice: «Io non voglio che I camerieri mi ridano alle spalle >. Poiché questa mentalità di risparmio finisce col prendere anche i forestieri, nelle trattorie dove si mangia con una. spesa fra le 900 e le 1.110 lire, può accadervi di avere come vicini di tavolo l'ex-presidente del Consiglio Fella o l'attore Alberto Sordi, l'industriale bergamasco o il vostro pescivendolo Va da sè che anche a Roma vi sono locali dove si possono spendere somme cospicue, fino tre o quattromila lire per una cena; ma in genere sono considerati luoghi eccentrici, adatti solo a provinciali ed a forestieri spaesati. Vivono questi locali di lusso fuori della vita cittadina, quasi come mostruosità; sono spesso deserti e melanconici, non hanno una clientela abituale e di solito nemmeno una vita lunga. C'è anzi una interminabile serie di fallimenti a scoraggiare le nuove iniziative dal volgersi al fasto e ai prezzi alti. Questo atteggiamento dei romani nell'attaccarsi alla sostanza dei buoni prezzi e della buona cucina e nel tenersi lontani da tutto ciò che riguardano come fumo, ossia il lusso, nasce soprattutto dalla condizione impiegatizia del due terzi abbondanti dei cittadini. A Roma gli impiegati che dipendono dai pubblici uffici sono 150 mila; se si pone ciascuno di essi al centro di un nucleo familiare di quattro persone, si ha che un terzo della popolazione residente, ossia 600 mila romani su un milione e 800 mila, vive nell'attesa appassionata del 27 di ogni mese; se _ poi si sommano a costoro i I pdipendenti dalle imprese prì- Idvate, si arriva alla conclusio-1 ne che oltre il 70 ptr cento rdella popolazione vive di uno mstipendio fisso. E' questo »! agrosso della cittadinanza, al | cui tenore di vita si adegua e j partecipa quella dei romani che vivono di piccoli commer-1 ci. professioni libere., artigianato, industrie minime, occupazioni occasionali e qualche volta inconfessabili ai margini della società. A conti fatti, del tutto esigua risulta la proporzione di coloro che, avendo alle spalle una più o meno rilevantea agiatezza, potrebbero scialare. La modestia dei bilanci familiari, e nello stesso tempo le abitudini borghesi della classe impiegatizia, obbligano le massaie a pretendere molto per il poco che possono spendere. Quest'assidua, vigile difesa dell'economia domestica, se da una parte rende i mercati romani molto rassomiglianti a quelli della Turchia per le lunghe, pazienti e astute contrattazioni, dall'altra fa uscire fuori commercio prodotti a prezzi d'eccezione. Ne unbacecetemqusuLedetagrghvolasepralIndemciTneloNCtao vivocotochprpecadedatecadageseconine dacarasctisulimqcaarevpmbripMtustsibwdptotaqrletortopspddcIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIII» deriva che da anni Roma ha, _ I pulizia del tavolo, i vantaggi Ideila posizione, 1 Non si pensi da ciò che il romano viva con avarizia o al meno con la preoccupazione di ! accantonare una parte piccola | j a. un costo della vita fra i più bassi fra le città italiane: la cede solo a pochi e piccoli centri meridionali. Per l'esattezza! potete vivere più a buon mercato di Roma solo in cinque capoluoghi di provincia su 92: Teramo, Benevento, Lecce Potenza e Catanzaro. Se rispetto al 1938 il costo della vita in Italia, considerata nel suo insieme, con le grandi città e i piccoli borghi, è aumentato di quasi 59 volte, a Roma l'aumento oscilla fra 52 e 53 volte. Molto più sensibile diventa il divario dei prezzi se paragoniamo Roma alle altre città. Di fronte a un Indice di aumento nel costo della vita pari a 52,42 per Roma, troviamo i seguenti indici per alcune grandi città: Torino 57,53; Milano 61,07; Venezia 59,47; Genova 63,31; Bologna 57,53; Firenze 62,79; Napoli 55,01; Palermo 62,27; Cagliari «0,59. E questo per tacere di città come Bergamo o Sondrio dove il costo della vita è aumentato di quasi 66 volte rispetto al 1938. Dunque, I romani vivono in costante, '-irriducibile, sospettosa polemica contro le spese che attengono al lusso, al capriccio, alla voga. Ogni sera, per esempio, recandovi nei caffè di via Veneto, potete vedere grandi tavolate formate da illustri uomini politici, letterati e artisti; là intorno i camerieri nemmeno si azzardano ad avvicinarsi per suggerire con la loro tacita presenza sia pure modestissime consumazioni: sarebbero inceneriti da sguardi di fuoco di intemerati repubblicani storici e saragattiani, o cacciati via dallo sdegno esploso dalla bocca di un noto pubblicista liberale o dalla pesante invettiva scagliata dal vincitore dell'ultimo premio letterario. Solo verso tardi nella notte su quei quattro o cinque tavoli che da ore ribollono di rumorose discussioni compare qualche solitaria tazzina di caffè o una bottiglietta di aranciata. Una volta un direttore di caffè, che era nuovo agli usi romani e molto si preoccupava per lo scarsissimo rendimento di quei tavoli, bonariamente tentò di suggerire agli illustri conversatori pensieri di minore parsimonia. Ma non gli andò bene. Per tutti gli rispose un ex-ministro: «Fossi matto. Se sentissi l'urgente bisogno di corroborarmi con un cognac o un whisky, l'andrei a bere in piedi nel caffè di fronte, dove lo pagherei la metà di qui, e poi tornerei a sedermi a questo tavolo ». Un giudizio americano Allo stesso modo, specie nei quartieri vecchi o di periferia, è spettaco' > ordinario nelle trattorie l'arrivo di avventori con i cesti pieni di cibarie preparate a casa; dal trattore chiedono vino e pane a pagamento, tavolo e bella posizione gratuitamente; e se per i viveri che pagano sono disposti anche a transigere, diventano permalosi per quel che riguarda l'ampiezza e la ,o grande che sia dei suol gua- dagni; avviene anzi il contrario. Ne troviamo le prove sinanche nelle statistiche ufficiali che si occupano delle spese voluttuarie degli italiani. Nonostante la modestia generale degli stipendi, i romani fumano, scommettono e vanno al cinema e alle partite di calcio in maniera del tutto spensierata, si direbbe quasi con ingordigia. Nel 1953 per queste voci essi hanno speso in media oltre 20 mila lire a testa; se si tiene presente che nel conto figurano 1 bambini ed 1 vegliardi che non vanno mai al cinema o non sanno che sia una schedina di totocalcio, le donne che nella grande maggioranza non hanno la abitudine al fumo, ed i molti che possiedono poco o nulla, si arriva tranquillamente alla conclusione che nel sistema patriarcale romano i capifamiglia spendono in genere per i loro minuti piaceri e vizi non meno di diecimila lire al mese. Cioè, quasi il doppio di quel che spendono per portare in casa cartocciate di pezzi d'abbacchio e di pesce, i due cibi che più piacciono ai romani. Questi romani che, pur risultando dalla fusione di settentrionali e meridionali col gruppo autoctono, si differenziano oggi più nettamente che mai sia dagli italiani che vivono a nord di Firenze sia da quelli che stanno a sud di Napoli. La differenza, secondo i giornalisti americani Streeter e Weibecker che per molti anni hanno soggiornato in Italia, è tutta qui: «I settentrionali rinunciano a mangiare pur di comprarsi un abito, i romani rinunciano a un abito nuovo pur di avere pasti abbondanti, i meridionali fanno a meno dell'abito nuovo e dei pasti pur di poter sognare come sarebbero felici se potessero avere abiti nuovi e pasti abbondanti». Nicola Adelfi

Persone citate: Alberto Sordi, Fella, Streeter