Matisse è morto di Marziano Bernardi

Matisse è morto ili viwtome mmijEA «jome de vivuk 99 Matisse è morto Henri Matisse è morto, carico d'anni, di gloria, di denaro, poco prima di poter festeggiare — e sarebbe stata la celebrazione della pittura di cui si nutrono le viventi generazioni — il cinquantenario di quel Salon d'Automne che mostrò a Parigi l'irrompere dei Fauves nell'arte contemporanea. Chi erano i Fauves, le belve? I loro nomi sono sul catalogo del Salon: Vlaminck, Derain, Matisse, Manguin, Rouault, Marquet, Van Dongen, i veri militanti; Braque e Dufy furono piuttosto dei fiancheggiatori. Nomi divenuti illustri, come quelli d'artisti dai quali, insieme con i primi Cubisti fra il 1007 e il '12, doveva nascere la nuova estetica del nostro secolo; e poiché nella sala dove s'eran radunati stava in un angolo una sculturetta d'ispirazione rinascimentale toscana, opera di Marque, il, critico Louis Vauxcellcs l'indicò ridendo: «Donatello au milieu des fauves! ». Battesimo felice, non meno dell'altro, d'un trentennio innanzi, di Impressionnistes dato da Louis Leroy nel «Charivari» per burlarsi del quadro « Ivtpression. Soleil levanti) presentato da Monet nella famosa prima esposizione degli Impressionisti « chez Nadar». E infatti il richiamo alle « belve » ben s'intonava con la violenza, e quasi ferocia e furore, di quei fanatici rivoluzionari dei valori coloristici e della poetica tonale. Storia vecchia, anzi vecchie storielle che qui si ripetono per invogliare la lettura giornalistica. Ma quando nel J050 la Biennale di Venezia volle riesumare per il pubblico italiano, culturalmente in ritardo di qualche decennio, la stagione fauve, Roberto Longhi potè così concludere — e qui dall'aneddoto passiamo al giudizio critico — la sua presentazione: «Non è detto che il vento dei Fauves non abbia sparso germi da rifiorire ad ogni ricorrenza felice. Prova solenne, decisiva, la dorsale della parabola immensa di Matisse, corre sulla intima fedeltà all'istinto fauve del primo decennio del secolo e ne è il maggior successo poetico ». Una parabola, tuttavia, la cui dorsale Matisse aveva cominciato a salire assai tempo prima di rivelarsi la personalità più potente di quel gruppo del 1905. Già lo notava Pierre Courthion una ventina d'anni fa riferendosi agli esordi del pittore: « Il colore e la luce sono momentaneamente i due elementi del quadro allo studio dei quali Matisse si sente più trascinato. E' la concezione che più tardi sarà chiamata fauvisme e che va situata fra il 1895 e il 1905, e non, come si è creduto per un pezzo, dopo il 1905, data del secondo fauvisme, quello di Dufy». Del resto, in quale altra direzione avrebbe potuto volgersi la pittura per sollevarsi dalla morta gora in cui stagnava dopo l'esaurimento nel Divisionismo e nel Puntinismo scientifico della grande lirica naturalistica dell'Impressionismo, e dopo la riforma tentata da Cézanne di rendere « durable » la fugacità della sensazione? O sovvertire, frantumare, distruggere e negare la realtà della natura e dell'uomo come poi fecero i Cubisti; o gettarsi appassionatamente su quanto di più propriamente « pittorico » (se non intimamente ed eternamente «umano») ancora offriva codesta logorata realtà: l'eloquenza di un contorno d'assoluta purezza, la suprema eleganza di un gratuito arabesco, il disinteressato incanto d'una zona cromatica da far sfavillare della luce più intensa, o meglio modulata, con un edonismo addirittura pagano (e per questo l'arte « sacra » di Matisse non sarà mai un'arte, neppure a Vence, davvero «religiosa»). Fu impresa di Matisse legare codesti squisiti sensualistici elementi su una trama esteriormente rappresentativa che appagandosi di splendide forme colorate ignora qualsiasi diretto dramma umano, la speranza o la pena, la pietà, l'amore o la carità, e si riduce in fondo a una sontuosa affascinante « decorazione ». Forme bellissime, più che vita morale. Presupposti a una progressiva astrazione pittorica. Pensate siYOlympia di Manet; pensate ad uno qualunque degli innumerevoli nudi femminili dipinti sdraiati da Matisse: là nella figura c'è « una donna »; qua nella nonna non c'è che « una figura ». Più efficace, allora, d'ogni critica vale la fantasia di un poeta: di Apollinare; di tanti anni fa, ma illuminante anche oggi: « Se si dovesse paragonare ! opera di Henri Matisse a qualcosa, converrebbe scegliere l'arancia. Come questa, l'opera di Henri Matisse è un frutto di luce abbagliante ». Un frutto da mordere nella polpa sugosa, un piacere da godere infantilmente, col senso immediato, con !a voracità dell'istinto. Ed è lo stesso Matisse che ce ne dà conferma: « Io sogno — scriveva nel 1908 — un'arte di equilibrio, di purezza, di tranquillità, senza un soggetto inquietante o tormentoso, che sia per ogni lavoratore intellettuale, uomo d'affari o letterato, un lenimento cerebrale, simile a una buona poltrona, che lo riposi dalle fatiche fisiche ». Non per nulla intitolò il suo celebre quadro del 1905 l.uxe, calme et volupté, alla Baudelaire; e l'armonia delle curve di un nudo di donna, dalla Davsc del 1910 all'altra "Dame per la Fondazione Barnes, del 1932, attraverso centinaia di nus sur fona bleu, o au fauteuil rouge de dos o assis, di modèles en rcpos, di danseuses, di odalisques, come per Ingres con diverso spirito e linguaggio, restò sempre l'ideale edonistico di quest'uomo tranquillo dalla lunga vita senza eventi, tolti i viaggi durante i quali, per tutta l'Europa c dal Marocco a Tahiti prima di fissarsi a Vence nel '39, altro non cercava che impregnarsi di luce, di colori. Nel suo incontro col Courthion, Matisse gli confessò che nelle isole di Gauguin non aveva dipinto: aveva solamente « guardato ». Può parer poco un simile ideale per un artista che dopo Picasso era forse il pittore vivente più famoso del mondo; ma storicamente, data la condizione della pittura sul principio di questo secolo, era invece moltissimo. Lavoratore formidabile, giunto ventenne da Cateau Cambrésis, dov'era nato il 31 dicembre 1869, a Parigi per studiarvi Leggi secondo la volontà del padre, ma subito attratto dal Louvre e poco dopo allievo dei « pompiers » Bouguereau e Ferrier, quindi del vivificante Moreau, il futuro fauve cerca basi solide. Nel museo parigino copia la Natura morta del secentista olandese De Heem, la Raie di Chardin, il Cristo morto di Philippe de Champaigne. la Tempesta di Ruysdael, il Baldassar Castiglione di Raffaello. Già allora, mentre frequenta i Marquet ed i Rouault, mentre s'accosta a Daumier, Degas, Toulouse-Lautrec e a quei Giapponesi dei quali con tanta acutezza interpreterà il senso dell'arabesco e la riduzione « astratta » del modello naturale, cerca il dono trasfiguratore della luce e la potenza espressiva del colore puro, sonoro nelle sue note singole, indipendenti dal chiaroscuro tradizionale, sillabate negli stacchi tonali. E' un rivoluzionario che parte dai maestri. Essi gli hanno insegnato a dipingere, e non li rinnegherà mai; ce lo dice il suo disegno infallibile, che trapela anche quando se ne mostra insofferente. La funzione di Matisse nella pittura è stata paragonata a quella di Strawinsky nella musica per gli stessi ritmi spezzati, la stessa stilizzazione, la stessa audacia. E' probabile che il confronto regga. Ciò ch'è certo è che il maestro francese, malgrado le troppe e inutili impuntature polemiche, la diminuzione della pittura a un incantevole splendente « décor », il bamboleggiare nei tardi anni con quelle sue carte colorate che mandavano in visibilio le dame intellettuali e i critici fanatici, ha saputo comporre un poema pittorico che degnamente può portare il nome d'un suo quadro giovanile : « La joie de vivre ». Ciò che in tempi inquieti come quelli dal '14 in poi sembra quasi un paradosso; e resta il luminoso trionfo di un uomo. Marziano Bernardi Una delle ultime fotografie

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