La temeraria Zenobia di Paolo Monelli

La temeraria Zenobia La temeraria Zenobia Palmiro, ottobre. Dico la verità, sono venuto à Palmira sopratutto per la regina Zenobia. Un caratteraccio; ma bellissima e intelligente, e finché ebbe qualcosa a sperare dalla fortuna, altiera ed ardita. «Di incredibile venustà, la più bella di tutte le matrone di oriente, e castissima più di ogni altra; di volto bruno, di occhi vivacissimi, di spirito divino, con una dentatura cosi smagliante che parecchi credevano avesse in bocca perle invece di denti »; così la descrive lo storico Trebellio Pollione. E inoltre gagliarda cacciatrice delle belve che popolavano in quel tempo il deserto, leoni pantere ed orsi; e tollerantissima delle fatiche. Rimasta vedova di Odenato, principe di Palmira, conquistò in breve tutta l'Asia Minore e l'Egitto. Aveva una splendida corte, pomposa al modo dei persiani; ma nei conviti, dice lo storico, si atteneva alle usanze degli imperatori romani. Tremenda in battaglia, portava sempre l'elmo in capo, si avvolgeva in un pallio purpureo con il lembo guarnito di gemme. Aveva voce chiara e virile. L'anno 272 della nostra era assunse il titolo di Augusta per sè, e di Augustus per suo figlio; aperta sfida ad Aureliano, imperatore regnante in quel tempo. L'imperatore fu costretto a far guerra a questa orgogliosa pretendente; sbarcò in Asia Minore e la sconfisse in due grandi battaglie. Zenobia si chiuse nell'oasi di Paimira, dichiarando che non avrebbe ceduto mai, e l'ultimo momento del suo regno sarebbe stato insieme l'ultimo momento della sua vita. Aureliano si vergognava un poco di combattere contro una donna; e scrisse una lettera al Senato per giustificarsene. «Posso dire che fu tutto merito di questa donna prudente nei consigli, perseverante nei suoi disegni, severa verso i soldati, inesorabile ove la disciplina lo richiegga, se suo marito Odenato debellò i persiani e giunse sotto le mura di Ctesifonte. Posso asserire che questa donna incusse tanto terrore agli orientali e ai popoli d'Egitto, che nè gli arabi nè 1 saraceni nè gli armeni osarono più levarsi a sommossa ». Fin qui Zenobia è ammiranda figura. Conversava di filosofia in greco con l'illustre Cassio Longino; parlava-latino egiziano ara maico e persiano; aveva scritto un compendio di storia orientale. Generalmente sobria, sapeva bere a gara con i suoi generali e con gli ospiti armeni e persiani, e li sbaragliava. Ma quando vide mancarle i soccorsi promessi dai re orientali, e seppe che l'esercito romano assediante, che essa sperava vinto in pochi mesi dalla carestia, era abbondantemente rifornito da numerosi convogli, fuggì montando un velocissimo dromedario. E aveva già raggiun to le rive dell'Eufrate, quando fu catturata da una pattuglia di ca valieri. Dimenticandosi del suo giuramento accettò la ''ita dall'imperatore Aureliano, che la risparmiò nonostante il clamore dei soldati che la volevano uc cisa, e mise a morte invece 1 suoi consiglieri, e primo di tutti il povero Cassio Longino, accusato di avere persuaso la regina a così temeraria resistenza. (Philosopbus, si tacuisses). A Roma, Zenobia dovette marciare a piedi davanti al carro dell'imperatore che trionfava delle sue vittorie carica di pesantissimi monili, avvinta alle braccia e al collo da enormi catene d'oro, per quanto robusta fosse avanzava vacillante, per cui fu comandato uno schiavo che le sorreggesse le catene. Usavano i romani strozzare in carcere dopo il trionfo i re ed i comandanti stranieri. Ma Zenobia anche stavolta ebbe salva la vita; e le fu assegnata una villa e un podere in quel di Tivoli; ed anche un marito. Le figlie ed i figli sposarono rampolli di nobili famiglie romane, la superba regina già romanizzata anche essa, matronae jam more romanae, morì come una vecchia e pettegola signora, tediando le vicine con le storie di quando era regina e imperatrice. Ho veduto qui una sua moneta, ove è effigiata con una corona che pare un cappellino della Schiaparelli, ed un profilo che ricorda quello dell'ambasciatrice signora Luce. Si viene da Damasco a Palmira per una pista nel deserto; anzi spesso cercando la via per l'auto dove nessun altro veicolo sia passato, per evitare le buche sabbiose delle piste vecchie. E prima si traversano due tre villaggi immersi nell'improvviso folto d'alberi creato da una fonte, da una depressione umida del suolo. Finche si arriva ad un paese cniamato Nasri, « qui est à la limite du pays habtté », come dice la guida in stile biblico. Da qui infatti si va per decine di chilometri senza scorgere nè una tenda nè un uomo. S'allarga fino ai piedi d'aride ondulazioni, vicine o lontane, l'altipiano senza altra vegetazione che di macchie spinose, petroso, giallastro, senza mutamento, fumante d'una perpetua caligine. E' polvere. Basta un passaggio di armento, un fiato di vento, a suscitare una nebbia tenace che resta sospesa nell'aria per ore e ore. Ogni gran tempo si /ede un armento di cammelli; o qualche tenda bedui¬ na, lunga, nera, aggrappata al suolo come un enorme scarafaggio. Poi di nuovo più nulla. I soli esseri che animano la pista solitaria sono avvoltoi neri ed enormi che la sorvolano come per sorvegliarla. Ben diverso doveva essere questo viaggio nei felici secoli della pax romana. Una grande strada lastricata correva da Damasco a Palmira; ogni ventiquattro miglia c'era un piccolo presidio ed un pozzo. Oggi in tutto il tratto da Damasco a Palmira, sei ore di automobile, ho visto due soli pozzi, dovuti a quanto sembra alla carità privata; leggo infatti sulla guida che « anime caritatevoli hanno scavato qui presso grandi cisterne per i viaggiatori che debbono attraversare questa sitibonda regione ». I romani avevano inoltre un corpo cammellato, oggi diremmo meharisti, per la protezione delle carovane; c'era ad ogni modo un servizio regolare di convogli, colonne di due o tremila cammelli che — dice lo storico — erano come eserciti in marcia. Un sistema bancario anticipava liberalmente denaro ai mercanti che cercassero nuove imprese da queste parti. Godendo di questa prosperità generale, della stabilità politica, della sicurezza pubblica, delle provvidenze contro la sete e la carestia, fioriva nel mezzo del deserto la città di Palmira; già tributaria di Roma nel primo secolo, e nel secondo eretta a colonia romana; titolo che piacque molto a quei mercanti perchè li esentava dalle imposte. Era il centro di un grande traffico carovaniero, ne partivano tre grandi strade verso l'Eufrate. Poi la sua fortuna decadde. Spogliata e messa a sacco da Aureliano, fatta strage e macello degli abitanti per vendetta che questi dopo la partenza dell'imperatore avevano trucidato la guarnigione romana, non si rialzò mai più. Ma sopravvissero a lungo alla mutata fortuna i templi, i teatri, gli edifici pubblici, la superba via porticata che la traversava da un capo all'altro, con grandiosi archi ad ogni crocicchio; finché la sabbia non cariò le pietre, le róse, parte abbattè, parte seppellì; ancora oggi andando lungo il colonnato si vedono emergere qua e là pezzi delle statue cadute dalle mensole di cui eia scuna delle ottocento colonne era munita. S'incontra finalmente la pista che viene da Homs, e la pipeline che da Mossul va a Tripoli Libanese; e qui' ci si volge ad oriente. Guardando avanti a sè, dove due basse ondulazioni fra cui si corre formano convergendo una specie di stretta, si scorge all'improvviso un'alta torre, minuscola per la distanza; poi un'altra, poi tre o quattro più o meno smozzicate ai piedi di pi ramidi di sabbia. Così Palmira si annuncia con la sua necropoli: tombe alte tre o quattro piani, torrioni lisci, senza finestre; sotto un cielo ardente, nella steppa arida che si arruffa qua e là di arbusti secchi e polverosi fra i sassi. E quando si arriva al pie colo valico, vigilato dalle moli funerarie come da sparsi giganti, ecco là in fondo il verde lucido e compatto dell'oasi; e nel mezzo della sterile conca, per vastissimo spazio, un tumulto di colonne di archi di mura, un ma ce'reto di macigni di frontoni, di pietre scolpite; e domina la vuo ta scena, sulla vetta di un aguzzo cucuzzolo di terra gialla, il ca stellacelo arabo raccolto come un uccellone di rapina, torrioni e mastii e sproni separati l'uno dall'altro da dure ombre, che prolungano in dirittissimi spigoli il pendio erto del monte. Così estesa è la rovina che dal valico della necropoli, al piede del quale corre la traccia delle mura originarie, le superstiti co lonne laggiù lungo la via trionfale appaiono come asticciole diafane; e bisogna camminare a piedi più di mezz'ora fra .1 re lini e lungo il tracciato delle antiche vie per giungere all'altra estremità, oltre il tempio .li Bèi dove comincia la nuova Palmira, un villaggetto costruito nuovo per trasportarvi le quaranta famiglie che son tutta la popolazione, e avevano messo le casupole dentro la cinta del tempio. Non so come facciano qui questi esiliati; non ci sono più traffici, l'oasi fertile ma minuscola basta solo al loro sostentamento. Palmira è oggi soltanto un posto di polizia di confine (anche se la frontiera sia centocinquanta miglia più lontana); il comandante della polizia, fiero militare dai baffetti pingui e arricciolati, fa venire al suo cospetto i rari visitatori e gli porta via il passaporto e glielo tiene serrato in un cassetto finché non ripartono. Salgo in cima ad una delle torri-tombe, di cinque piani, con i loculi per un centinaio di sarcofaghi per ogni piano: turbante, oscuro culto di cadaveri mezzo mummificati, di cui non si supponeva nemmeno una vita nell'ai di là come presso gli egiziani. Dal sommo, l'occhio si perde da ogni parte sull'infinita stesa uguale, fulva, segnata da rare traccie, che mi pare mostruosamente viva sotto il sole a picco, quasi mossa da un respiro lento ed uguale come di fiera addormentata. Non vorrei più discenderne, mi affascina la soli¬ tudine, il silenzio, l'ardore fermo del cielo. Passano a lunghissimi intervalli asinai con la bestia nascosta dalla gran soma, qualche pedone che cammina svelto, sottile e nero sul giallo, e non si capisce a cosa si affretti. Il verde lucidissimo e fresco dell'oasi, fitto arruffìo di palme, sembra un miracolo che non possa durare, presto ingoiato dal sabbione sterile. (Ma anche Plinio la descrive così come è ora: «Palmira, nobile per il sito, per il fertile terreno e le limpide acque, vede i suoi campi serrati da ogni parte da un vasto àmbito di arene ».) E laggiù c'è il mistero del devastato campo di archi di colonne di bastioni, che nessuno traversa. Forse fra poche generazioni così appariranno le rovine delle nostre metropoli, devastate dai cicloni, o' decadute per l'avvento d'una nuova barbarie, o disfatte da esseri d'altri mondi. Il selvatico pronipote, guardando la morta Parigi dal tertre, la morta Roma da uno dei sette coili, la morta Nuova York da un mozzicone di grattacielo, non saprà darsi ragione di quei relitti. E non capirà nulla di noi come poco capiamo noi, pur con il sussidio di documenti e di scritture del tempo, dell'animo e degli intenti di Zenobia, dei suoi generali, dei suoi mercanti; e per quale scopo sorse la via trionfale con gli archi giganteschi e le ottocento colonne e le ottocento statue, e si alzò il gran tempio al dio a cui nessuno credeva; e quale fosse l'intima vita di quelle matrone di cui si vedono le effigi nel museo, cariche di gemme, con vesti sontuose, con un turbante in capo come lo portavano le nostre signore all'inizio del secolo, di quei giovani con la toga romana e la chioma a riccioletti sulla fronte e sulla nuca. Gente a cui Roma con la sua cultura e i suoi costumi, pur remota mesi di cavallo e di vela, era certo più vicina che non sia oggi a certi provinciali nostri; si amministrava con le sue leggi semitiche, aveva un governatore e una guarnigione romana, aveva scultori e pittori, parlava aramaico e greco e latino, aveva teatri e terme, e le case piene dei tappeti dei broccati delle raffinatezze persiane; e come oggi questi semplici arabi, viveva assediata entro la breve oasi dalla vastità tempestosa del deserto di sabbia. Paolo Monelli

Persone citate: Cassio, Nasri, Odenato, Schiaparelli