Poesia piemontese

Poesia piemontese Poesia piemontese (Negligente modestia, o vigile autocritica, hannq tenuto — e tuttora mantengono — il Piemonte- fuori dalla gara poetica dialettale, che, negli ultimi cinquantanni, Ila introdotto Pascarella, TTrilussa, Renato Fucini, Salvatore dì Giacomo, Ferdinando RJusso, Berto Barbarani, Delio TSessa, nelle nostre storie letterarie. Abbondano i verseggiatori, mancano il nome, l'opera, capaci di valicare i confini regionali e d'imporsi al pubblico di tutta l'Italia. Sembrerà questo un giudizio severo; è una semplice e indiscutibile constatazione. Aggiungiamo subito che anche i tre nomi aurei della poesia piemontese: padre Ignazio Isler, Edoardo Ignazio Calvo, Angelo Brofferio, sono rimasti malnoti e — salvo forse l'ultimo, legato al Risorgimento, come quello di Norberto Rosa — oscurissimi ai più, a cui Porta, Belli, e magari il siciliano Meli, dicono invece qualcosa.* Nè si può accusare il nostro dialetto di soverchia difficoltà al confronto, per esempio, del milanese di Tessa, o del veneziano di Baffo e di Buratti. La ragione della scarsa fortuna è assai' probabilmente nella mediocre personalità artistica degli autori, nella scarsa o nulla originalità della loro ispirazione. Prendiamo uno dei migliori: Nino Costa, e leggiamone Le pi bète poesìe: sono espressione di un animo candido e gentile, registrano piccole gioie e comuni dolori, cantano paesaggi locali, toccano qualche nota patriottica e religiosa. E' tutto, ed è poco. Il repertorio di padre Isler, talvolta grossolanamente comico, era più vario e assieme tradizionale: // testamento di Giacomo Tros riapparirà in quello di Meo Patacca; gli sfoghi satirici di Ignazio Calvo rispecchiavano il suo spirito giacobino; Brofferio intingeva volontieri la penna nel calamaio di Bcranger, però mostrava una propria verve impenitente e impudente, mentre Luigi Pietracqua era sensibile alle questioni sociali del tempo. E in Alberto Viriglio, c'era il conoscitore della vecchia Torino, e delle sue stampe. Un tentativo analogo a quello operato da Delio Tessa per Milano, ossia di raffinare e modernizzare il vernacolo riducendolo a lingua squisitamente poetica, è in atto da parte del cenacolo torinese de Ij brande, caposcuola Pinin Pacot, le cui Poesìe (Roma, Famija Piemonteisa, 1954) hanno risvegliato l'attenzione di molti. E vai la pena di osservarlo da vicino, e di vedere dove conduce. Pacot è di casa nel félibrige, e frequenta i più diversi poeti: sa quindi mescolare alle tinte indigene, le straniere; possiede una vena malinconica propria. Sento un'eco di Carco (A Vamltié) e di Apollinare nella più bella delle sue poesie, Elegia per n'amis mòrt giovo, che comincia: «Mia gioventù. Mia primavera. — Se mi im vòlto e i guardo andarera... » e prosegue : ... cario la cavalin-a. La cavalin-a an cel è an tèra. che ant ij nòst seuan tut l'era véra. Mè pàvr Cichin. la poesia a pàch a pòch drinta tò cheur coma un rosé l'era fiorìa, e at consolava an tò maleur... T' j'ere dventà n'òm pur e lìber travers ai seugn, travers ai l\ber. Se 'l mal a la tèra at oropava. toa ment as aussava ant SI cel. e 'l poeta ch'a t'ancantava l'era per ti pi che un fratel... in un tono struggente, imprimendosi nella memoria. E sostanzialmente elegiaca è l'ispirazione di Pacot. Il quale si è provato nella ballata romantica (Bel Sìvalié) a cui il 'dialetto si addice, ma anche nel sonetto storico alla maniera dell'Hcrédia dei Trophées, dove capitombola. Leggere: «Erod a guarda e as seulia con ij dèi grass la pansa...» e «A baia, Salomé: tra ij ciar an mez dia stansa... 11 produce inevitabilmente un effetto comico. Nè valgon di più le pastorali bibliche, il che ci conferma i limiti dell'uso del dialetto, che non potrà esser mai la « lingua madre » per certi temi, a meno di dare nella parodia e nei travestimenti. Vedasi, per esempio, il Priap, che ha un'epigrafe tolta da Catullo e l'andamento di un poemetto dell'Antologia: anche qui, piemontese e mitologia divorziano. Possono convivere invece nella Obada («La steila bovera — L'è sola lassù...») e in tante,impressioni fuggitive che ricordano le Myricae pascoliane. Curioso che l'influenza di Pascoli sia dominante in Pacot come in parecchi dei suoi compagni. Parlo del Pascoli minore e migliore, non ancor preso da velleità politiche, o dalle grandes Machines delle canzoni di re Enzo e dei poemetti. Le sue notazioni immediate, pittoresche, i quadretti di genere si confanno alla ispirazione svagata e sognante dei nostri poeti dialettali, di rado animati da una passione ardente e tumultuosa, o da satirici e sarcastici accenti. Da Pascoli al frammento per dir cosi ungarettiano, il passo è breve, e Pacot lo tenta nelle composizioni che chiudono il libro, affidate al filo di un'immagine, di una parola: la stessa tendenza appare in qualche suo emulo romano. Senonchè il dialetto non gioca più, non serve. La sua for¬ zavlsdrllrBleadlstllls za rustica, plebea, va perduta assieme al gusto e al sapore. La giustificazione dello scrivere in vernacolo anziché nella lingua natale è infatti nelle risorse del primo, che mettono a disposizione del poeta una più ricca, naturale, e comoda tavolozza, .gli danno maggior agio e libertà di movimenti. Basta paragonare le poesie in lingua del Belli, o di Norberto Rosa con le altre loro, per vedere quanto entrambi si sentissero impacciati a maneggiar l'italiano, e invece disinvolti nell'affrontare il dialetto. Ma quando quest'ultimo si scolora e raffina sino al punto da non distinguersi più dalla lingua o di assumerne i toni e le caratteristiche, cessa la convenienza di usarlo. L'Arcadia in lingua è insopportabile, quella in vernacolo, odiosa. Segnalare ai poeti dei Brande il pericolo di sboccar nel prezioso e nel pretenzioso, mi pare quindi.opportuno. Occorre inoltre vincolarli alla ispirazione schiettamente regionale. Se ci si riporta al più nuovo e squisito dei poeti dialettali venuto in giusta fama, cioè a Delio Tessa, si scorge che egli ha radici nello stesso terreno che nutrì il suo grande maestro, Carlo Porta. Nessuna tràccia di Calvo e di Brofferio in Pacot e nei suoi compagni, i quali rimangono molto estranei (a dif¬ flnlsatscPtscduddpvplurhnsdcdscdaiiiiiiriiriiit<iiiiiiiriiii[iiriiifiii!)iiiiiiii(iiiiiiiiii ferenza di Cesare Pavese) dall'ambiente torinese, ed usano il nostro dialetto come una lingua letteraria. Almeno Nino Costa si sentiva in obbligo di svolgere alcuni temi tradizionali, con sentimento ed eloquenza. Qui restiamo nell'idillio e nelle ricerche d'arte: smalti e cammei. Peccato, perchè Pinin Pacot sente il peso e.l'angoscia della esistenza, e sa manifestarlo con accorata sincerità. Gli manca il dono d'interessarsi alla commedia umana, che ha fatto la fortuna di Trilussa e degli altri poeti dialettali, per cui la vita era, soprattutto, uno spettacolo. In un volume del 1868 dell'avvocato Stefano iMina, Canzoni piemontesi e Cenni storici sitila letteratura subalpina ho trovato una canzoncina di Antonio Baralis su 'L dialet piemonteis che ha questa strofa: Uno lingua ca Va bin A canté sii la chitara SU le viole e i'organin L'eia nen na lingua rara, Un parie gentil, mignon t Tale si riduce il piemontese nei suoi più recenti cultori. E se pensiamo alla sferza satirica di Calvo, alla passione patriottica di Brofferio, di Pietracqua, di Norberto Rosa, a tutta la storia galante e militare del vecchio Piemonte, questo elegiaco declino ci sorprende. Arrigo Cajumi In(srmpqegaUatrbLsncrndcsafiiiiiiiiiiiiiiiiii;iiiiiiiii;iii(iMiiiiiSEriiibiii iiiiiii

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