Cavour e Garibaldi

Cavour e Garibaldi Cavour e Garibaldi Passar vicino alla verità, e soggiacere a un partito preso; non considerare a sufficienza il distacco e l'azione del tempo; vedere chiaramente fatti, uomini, circostanze c dimenticarsene talvolta al momento della conclusione, mi paiono i difetti principali di un peraltro copioso e bene informato volume di D. Mack Smith (Cambridge University Press, 1954) che studia il « conflitto politico » fra Garibaldi e Cavour nel 1860. In breve, la tesi dello storico inglese, è questa: Cavour fu sorpreso dalla iniziativa garibaldina dei Mille, la ostacolò più che appoggiarla, e quando ne constatò il successo, ebbe timore — del resto giustificato — che quello che allora già si chiamava il « partito d'azione » s'impadronisse oltreché dell'Italia meridionale, del governo piemontese, ed agì senza scrupoli per bloccarlo, isolarlo, sostituire alla progettata Unione federale di Stati italiani, la centralizzafrice e conservatrice monarchia di Torino. Infelicissimo nella scelta dei suoi agenti, seppe tuttavia approfittare delle indecisioni di Garibaldi, sfruttare la sua lealtà verso Vittorio Emanuele II, giovarsi del suo relativo disinteresse per la politica e l'amministrazione, per riprendere l'iniziativa mediante la invasione delle Marche e dell'Umbria; riuscì ad ottenere sia a Napoli che in Sicilia, attraverso spregiudicati maneggi ed intrighi, il plebiscito per l'« incondizionata » annessione, e a metter fuori gioco i rivali. Nondimeno, questo troppo rapido e violento assorbimento del Sud da parte del Nord — la « conquista piemontese » — rivoluzionando e trascurando usi e costumi inveterati, suscitò subito reazioni che dapprima si espressero nel brigantaggio, e che perdurarono poi per decenni, e tuttora si avvertono. Se Garibaldi e i suoi fidi, avessero invece potuto organizzare a modo loro il vicereame del Mezzogiorno, essendo dotati di maggiore sensibilità e aderenza popolare, avrebbero evitata la frattura, e condotto ad un'Italia più omogenea e democratica. Dedicando quasi cinquecento pagine alla cronaca degli avvenimenti politici dall'aprile al dicembre 1860, documentandosi alle fonti, ivi compresi dei fogli regionali che s'intitolavano magari La valle di Giosaffatte, il Mack Smith ha compiuto opera meritoria ed istruttiva. La mia impressione è però che, contemplando troppo da vicino le acerbissime polemiche personali dei seguaci sia di Garibaldi che di Cavour, egli nel tirar le somme, non abbia messo nel debito rilievo tanto la situazione locale preesistente con cui i contendenti si trovavano alle prese, quanto il peso delle complicazioni politiche europee che gravava sulle spalle di Cavour, e non certo su quelle di Garibaldi. Quest'ultimo, andava avanti imperterrito, con Roma per mèta finale, ignorando le tempeste che suscitava nelle cancellerie. E attendeva sopratutto alla parte militare della sua azione, accontentandosi di delegare i poteri politici e amministrativi a persone che si chiamavano Bertani, Crispi, Cattaneo ed altri (il vocabolo francese è dello stesso A'Iack Smith) enragés. Come tutti i dottrinari — e Cavour and Garibaldi, 1860 è così vivo perchè inevitabilmente ci fa pensare al 1945, e al recentemente rinnovato e disciolto « partito d'azione » — costoro volevano effettuare contemporaneamente la soluzione di tutti i problemi del Paese: indipendenza italiana, repubblica federale, autonomia regionale, questione sociale, cacciata dei liberali dal governo di Torino, e ciò in piena guerra, con l'Austria minacciosa, la Francia inquieta, l'Inghilterra amica sospettosa, ungheresi e slavi che aspettavano la loro ora. Fresca la ferita della cessione di Nizza e della Savoia, appena annesse la Lombardia, l'Emilia e la Toscana; basta metter in tavola tutti gli elementi del quadro, per giustificare le ansie, le impazienze, la nervosità di Cavour, il quale non possedeva la robusta incoscienza di Garibaldi, e doveva svolgere un gioco altrimenti complesso, sottile, pericoloso. Che, in tali circostanze, il grande ministro piemontese abbia compiuto degli errori, sfogato dei rancori, si sia dovuto mostrare machiavellico, e ben comprensibile. Egli non aveva conoscenza diretta dei territori e degli uomini del Mezzogiorno, era circondato e doveva valersi di fuorusciti meridionali in lotta fra di loro, e odiati dai loro conterranei rimasti borbonici, o dimoranti nel regno; oppure di agenti piemontesi che si trovavano nelle sue stesse condizioni; arrischiava le crescenti, ma non ancor consolidate fortune della Casa Savoia e del governo costituzionale appoggiando un'impresa di cui buona parte dei suoi elettori diffidavano; Napoleone III teneva truppe francesi a Roma e una moglie papalina, Vittorio Emanuele aveva naturale simpatia per Garibaldi, e — specie dopo Villafranca, e la faccenda della « bella Rosina » che condusse seco anche a Napoli — fortissima antipatia per lui, anelando inoltre come rutti t Savoja, a una politica persona¬ le e antiparlamentare; Mazzini cospirava e predicava; alla Camera, Rattazzi, Broffcrio, Guerrazzi, Ferrari, erano garibaldini arrabbiati. L'avventura meridionale — perchè tale fu — mise davvero alla prova tutte le sue risorse. E se si pensa che il libro del Mack Smith termina nel dicembre 1860, e Cavour morì nel giugno 1861, appare davvero iniquo pretendere da lui anche solo l'impostazione di un'armoniosa fusione fra Nord e Sud che avrebbe dovuto dissipare tutti gli equivoci, mescolare di botto genti diversissime, livellare strutture statali ed economiche eterogenee, portare da un giorno all'altro la democrazia, il benessere, l'istruzione in ogni casa. Compiere, in una parola, in pochi mesi, il lavoro di parecchi secoli! Se, tanto attorno a Cavour che a Garibaldi, ci furono individui propensi ed intenti a gettar olio nel fuoco, ad acuire i contrasti derivanti dalle rispettive posizioni e interessi e dall'urto di caratteri, temperamenti, forme mentali radicalmente differenti, bisogna dire che nel corso della lotta politica studiata con minuzia diligentissima da Mack Smith, Garibaldi spiegò più equilibrio, buonsenso, misura, e ragionevolezza, dei suoi subordinati, si rimise in definitiva alla opinione pubblica generale, che superando i dissidi partigiani e personali, voleva in sostanza l'Italia unita sotto il regno di Vittorio Emanuele. Un'analisi del plebiscito conforta i critici della tesi del nostro autore: chi conosce il decennio 1850-1860 dal punto di vista dell'elettorato piemontese, come può paragonarlo a ciò che si verificò a Napoli e in Sicilia, e pretendere che di punto in bianco Nord e Sud si trovassero alla pari? E, d'altra parte, le esplosioni di malcontento su cui punta l'autore, debbono considerarsi normalissime manifestazioni di uno stato d'animo miracolistico (senza fondamento razionale) deluso alla prova dei fatti. Anche da noi, ricordiamo, ci fu chi fra il secondo semestre del 1945 e i primi mesi del 1946 aspettava il paradiso in terra! Nè bisogna dimenticarsi che, come in tutti gli avvenimenti politici, il grosso delle popolazioni « liberate », era filoborbonico in aprile, garibaldino in giugno, filopiemontese in ottobre (p. 379); e che mazziniani, crispini, ecc. si comportavano in pratica più da «uomini politici che riformatori sociali ». Granchio evidente del Mack Smith è invece di ritenere che i liberalconservatori -piemontesi fossero, socialmente parlando, più a destra dei feudatari borbonici (p. 393). Però, se l'ago della bilancia pende, per il nostro autore, verso Garibaldi, la parte fatta a Cavour è tutt'altro che trascurabile, e vincitore del « politicai confliet » rimane certo il piemontese. Allievo del Trcvelyan che in Inghilterra coltivò onorevolmente le tradizioni garibaldine e mazziniane, il Mack Smith lascia il pittoresco per la cronistoria politica, e — cosa almeno per noi, curiosa — appare incline a sottovalutare la scuoia liberale italiana che ebbe proprio in Cavour il miglior discepolo delle dottrine e del costume parlamentare d'oltre Manica. Si sposta, cioè, su posizioni filosocialistiche, pur rendendosi conto che il socialismo di Mazzini, Garibaldi, Bertani, Cattaneo, era qualcosa di molto approssimativo: nel primo, ansietà religiosa; nel secondo, istinto popolare e anticlericale; nel terzo, democrazia pura; nel quarto, federalismo. E Crispi, braccio destro di Garibaldi nella campagna del 1860, gettò la maschera nella sua ulteriore carriera di forcaiolo nazionalista. Quanto a Garibaldi, che aveva per bestie nere Farini e La Farina, non poteva perdonare a Cavour la cessione di Nizza, nè ai generali dell'esercito piemontese Cialdini e Fanti, il rigido atteggiamento assunto dai « regolari » in contrasto con il pittoresco disordine dei « partigia¬ nrCcrslasdGdmutulgdpnsztdadsv ni ». E Guerrazzi, prima lodatore poi avversario acerrimo di Cavour (come ben mostrò Francesco Ruffini, nome che — se ne ricordi il Mack Smith — negli studi cavouriani sopravanza quello dell'Omodeo) in una lettera aperta pubblicata dalla genovese Unità Italiana rinfocolava il dissidio, scrivendo: «Ora, fra Garibaldi e Cavour, volete giudice il Parlamento. Qual Parlamento? In causa che preme la universa Italia, è egli competente il giudizio del Parlamento di una parte d'Italia? E qual Parlamento? Un Parlamento di taglierini fatti in casa con Urina del proprio grano, e macinata ai propri molini. E chi parla dinanzi al Parlamento? Una parte sola, il Cavour ». Facinorose espressioni: la piazza contro il Parlamento; che ritorneranno, ahimè, nella storia del nostro Paese. E che stanno a provare quanto di interessante, di attuale, di fruttuoso per chi sa ancora meditare, ci rechi Cavour and Garibaldi, 1S60. Arrigo Cajumi