II mottetto della trota

II mottetto della trota II mottetto della trota Fra le molte forme di musica madrigalesca di cui si era a poco a poco impregnato il gusto e il costume della vita italiana nel Cinque e nel Seicento, merita di essere ricordato come unico e poco noto per la sua rarità, un genere polifonico di cui forse non si hanno altre testimonianze, al di fuori di quella di cui ci occuperemo. Se ne ha notizia nel grande trattato «Del Bene » del cardinale Sforza Pallavicino, più famoso come autore della Storia del Concilio di Trento. E per dirla subito in due parole, questa musica madrigalesca veniva cantata nei banchetti per annunziare con appositi motivi e armonia di voci, i nomi dei cibi, delle selvaggine, dei pesci e fare la lode dei vini che venivano portati in tavola. Si può dunque dire con ragione che fosse questo un « menu » polifonico, una lista delle vivande cantata in contrappunto. Il trattato del Pallavicino, non è di quelli che oggi vadano per le mani di molti. Eppure a ridestare la curiosità dovrebbe valere se non altro il fatto che nelle sue pagine si incontra quella notevole anticipazione della Estetica del Baumgarten e di Benedetto Croce, che definisce la poesia come « apprensione prima », intendendo con ciò' quel primo grado della conoscenza, intuizione vivida e sensitiva della fantasia, che è ancora indipendente dal giudizio di vero e di falso. « Si chiama apprensione prima « scrive il Pallavicino » perchè apprende quasi l'oggetto fra le sue mani, senza però autenticarlo per vero o riprovarlo per falso; come quando si leggono le narrazioni di Virgilio e di Omero, con incertezza quali sien tratte dall'istoria, quali create dall'invenzione, e però senza darne giudizio di veritiere o di menzognere. «E che questa non fosse una pensata occasionale dell'autore, ma anzi si fondasse su una piena consapevolezza della sua portata estetica, lo dimostra l'intiero capitolo XLIX del III Libro, che ha ■per titolo: «L'apprensione prima è il fine della poesia ». E si vedano le numerose ampie cita zioni del Croce nella parte storica della Estetica e nella Storia dell'Età Barocca Potrebbe essere già significativo per il nostro Seicento e in gene re per la vita 'italiana il fatto che da un'opera di morale sia in definitiva venuta fuori un'estetica. Ma non per questo la morale antiascetica (e in qualche punto, si direbbe, perfino antievangelica) dello storico del Concilio Tridentino manca di un suo ben segnato carattere, ispirata com'è a una rivalutazione tutta moderna della vita terrena e perfino del piacere fisico, della natura e del corpo. La trascendenza medioe vale è del tutto ripudiata. Il bc ne morale non è più contrapposto al bene fisico e naturale. E le tesi di questa conciliazione, di questo concordato del cielo con la terra, potranno apparire perfino troppo ardite e spregiudica te per un libro di morale. Ecco ne alcune: «Ogni piccolo diletto anche corporale può essere amato in se medesimo con virtù. La lode e la gloria sono beni per se stessi desiderabili. Il senso non erra mai. La ricchezza grande è felicità. I potenti sogliono essere migliori degli altri. Dio talora concede la ricchezza come gra zia; e coloro che se ne spogliano per Dio, non è che la stimino, in sè cattiva naturalmente, ma eleggono privarsene per un bene maggiore promesso, allo stesso modo che non reputa cattivo il danaro, chi lo spende per comperare una possessione. Per altro, Seneca stesso, così rigido stoico, accumulò quei tanti milioni che tutti sanno. Il nascere o il divenir principe è desiderabile a chi ha senno e virtù ». Se noi» vogliamo proprio dire che in questa sorta di giustificazione della « volontà di potenza » lampeggi uno strano presagio del luciferino Nietzsche, diremo almeno che qui siamo agli antipodi della morale di Kant del cristianesimo ascetico che essa presuppone, per la quale non si concepiscono valori etici disgiunti da qualche rinuncia o sagrificio e in opposizione sempre con la inclinazione corporea dei piaceri, fino al massimo valore etico che è il martirio. Qui invece siamo più che a una morale, a una prassi eudemonistica, di sposta alle più indulgenti con cessioni; e non si può dare com pletamente torto a Stendhal, quando nelle «Promenades dans Rome » (25 settembre 1827) con centrava l'insegnamento morale di simili direttori di coscienze, a lui ben noti, in questa frase « Faites ce qu'il vous plaira, et ensuite venez nous le raconter ». Bisogna peraltro tener presente che in quel momento sorgeva la controversia giansenista. Il Pallavicino, non ancora cardina le aveva avuto incarico da Innocenzo X di esaminare V Angustimi s di Giansenio, giusto negli anni in cui, insegnando teologia al Collegio Romano, veniva mettendo insieme il trattato «Del Bene ». Il che lascia supporre con verosimiglianza che alla spregiudicatezza di quelle rivendicazio ni temporali, terrene e dichiaratamente edonistiche che abbiamo vcsmisnlatsezmddsas , e i e e veduto, non fosse estranea una certa vis polemica contro Giansenio. Non si spiegherebbe altrimenti l'atteggiamento lievemente ironico con cui il Pallavicino sembra sorridere della esaltazione ascetica del dolore e dei mali, ciò ch'egli chiama « paradossi ammirati, ma non creduti »; mentre poi fa in contrapposto il più sentito elogio della salute fisica e un'altrettanto schietta deprecazione delle malattie Se pensiamo al Pascal della « Prière pour demander à Dicu le bon usage des maladics » che è di quegli stessi anni (prendendo per buona la data del 1647 che alcuni le attribuiscono), siamo indotti a sospettare anche qui degli spunti polemici con Port-Royal. Il Pallavicino non indulge ad alcuna algofilìa e scrive chiaro e tondo: « Non è vero che le malattie sieno desiderabili come freno del peccato, anzi il più delle volte la infermità fa cadere il coraggio, la pazienza, la civiltà, la pietà. Perfino Ercole quando arse tra i dolori della camicia di Nesso, uscì in piagnistei da femminella o, secondo Ovidio in bestemmie da ateo. Ecco, dunque, come anche la fede è distrutta dal dolore ». E, infine, egli aggiunge, quale prova migliore dei miracoli, 1 quali hanno sempre guarito repentinamente le persone, e mai le hanno fatte ammalare. Alla fine della prima parte, gli interlocutori del dialogo « Del Bene» (che si immagina svolgersi nella villa degli Orsini sul lago di Bracciano, e di cui il cardinale Alessandro Orsini è il principale personaggio) avvicinandosi il mezzodì, si intrattengono in una serena discussione sul seguente argomento: «Se il diletto nel mangiare possa essere fine lecitamente »; e, dopo aver sentito Aristotile, concludono unanimemente che sì. Essi erano talmente immersi nel « diletto di quel soave filosofare », da non accorgersi dell'ora avanzata, se lo scalco del cardinale non li avesse avvertiti che il pranzo era in tavola; ed anzi sulla più vaga e ornata tavola che si possa immaginare (ben diversa da quella sulla nuda terra e col pane nero del povero San Francesco); poiché il cardinale aveva fatto imbandire le mense in barche sul lago. In una « vestita di seta », mangiavano il cardinale Orsini con il letterato Antonio Querengo di Padova e, dirimpetto il gentiluomo del cardinale, Gherardo Saraceni, uscito da una delle più nobili famiglie di Siena, cultore di musica, di pittura, di poesia. Altre barche venivano accostandosi alla principale e recavano ciascuna le varie portate del desinare: selvaggine allora cacciate, pesci pescati e subito cotti, pasticcerie lavorate e scolpite di rose e di orsi, secondo lo stemma del cardinale, « frutte attutiate nel ghiaccio e nei fiori »; e infine una barca speciale per i vini. Ma la squisitezza maggiore di questo nuovo banchetto platonico o anzi aristotelico, trascritto in perfetto stile barocco, che per la fusione dei piaceri estetici poteva dare dei punti alla teoria di Wagner sulle arti riunite, stava nel compimento musicale di tutto il resto. Poiché ogni volta che una delle barche si accostava' alla mensa galleggiante del cardinale (simile a quella di Tiberio sul lago di Nemi), i musici di cappella di casa Orsini intonavano in forma polifonica l'annunzio delle vivande. Per ognuna di esse il cavaliere Saraceni aveva composto un madrigale o un mottetto. Qui finisce lo storico episodio, qui potrebbe cominciare la ricerca degli eruditi. Chissà che essi non riescano a ripescare qualcuna delle polifonie conviviali del Saraceni; e, trattandosi di ripescare, non ritrovino addirittura un « mottetto della trota » del lago di Bracciano, con qualche prova indubitabile che da esso deriva il famoso Quintetto della Trota di Schubert, il Forellenquintett, opus 114. Giorgio Vigolo 1111111111111111111111111111111111111111111111111 iiiii

Luoghi citati: Bracciano, Nemi, Nesso, Padova, Siena, Trento