I puristi che conducono alla nera disperazione

I puristi che conducono alla nera disperazione —= COME STIAMO A LINGUA I puristi che conducono alla nera disperazione Questi demon/7 non sbagliavano mai?- Sbagliavano certamente, e nell'amore pel Due e Trecento, davano in strani furori - L'ombra severa del Ranalli, quello che per Descartes diceva il Signor delle Carte Come correttivo all'odierna licenza nelle cose di lingua non è forse malfatto d'andare a stuzzicare, siccome promettemmo, l'ombra severa di quel Ranalli, che per soverchio rigore era fastidito dai più ari l'abbiati pedanti. Condiscepolo del De Sanctis, cui porse occasione di scrivere il famoso sag'gio sul Puoti, alla scuola del marchese dalla quale non tolse che l'amaro, nei quattro fitti libri dei suoi Ammaestramenti Idi lingua (oggi, per nostra [buona sorte, introvabili) rldus,s< ! parola peggio per retorica lo scrivere a vera tortura. Viveva Ferdinando tutto nei primi secoli, in spirituale conversazione coll'Anonimo dei Fioretti, col Cavalca, il Passavanti, Guido da Pisa e il poco noto alle folle Zucchero Bencivenni. L'introduzione d'una nuova gli cagionava, che a Cicerone, uno sconvoigjmento intestino; co jme fu quando vide l'odiosa e afforestierata voce polizia so stituirsi a quella si cara di \hMngover)lo Sosteneva che-|nei ciass|cj nostri era tutto o l quasi tutto di quel che occor-1re a noi moderni; e che il pre]tpgo bisogno di parole nuove alicose nu0Ve, era o sogno d'igno-lrantì o pretesto ai maligni per a guastare il patrio sermone. Si - vuole che pronunziasse il Voi i ^ ^ N.ir))Un.J e diccssc u\sigiwr delle Carte per il De, [scartes; che parlasse di Enea -|e dei primi tempi di Roma I (sarebbe l'unico suo tratto ca¬ ^no) ( con ,a stessa fcde e sU - : curczza che dei fatti del giorc.no avanti». Poco perdonava ai -'moderni e niente all'autore dei ,promessi Sposi< cui trovava da 1 j aire quasi in ogni pagina, o ; La provvidenza, che manda n | il freddo secondo i panni i ; ha voluto che a 11 Ranalli na¬scesse ai tempi nostri, dove » non solamente corrono inso- ispettati «mnnirA per universa-ÌUtà degli uomini, coniano per U i i a ¬ e r ritrovo o posta, armata per esercito, truppe per milizie, genio per ingegno, sacrifizio per privazione o patimento, partito per fazione o setta o parte: contro i quali scambi egli metteva in guardia i contemporanei; ma non ha attecchito nessuna delle sostituzioni da lui proposte: erario per finanza, ufficiali per funzionarli, perdono per amnistia, assegnamento per appannaggio, cattura per arresto, compilazione per redazione, riscossioni per incassi, camerlingo per ricevitore, e altre moltissime. Quel che pensasse dei gallicismi, è presto immaginato; più interessante è sapere che proseguiva dello stesso odio grecismi e latinismi, che noi moderni abbiamo invece in delizie, quasi fossero un distintivo di superiorità. Ora le foresterie, ci vengano da lingue madri o da lingue sorelle, son sempre foresterie, ossia maniere fatte e non nate, che guastano la naturalezza, e a lasciarle fare riducono la paiola a intelligenza di pochi e quasi a mistero. Qui il noiosissimo Ranalli e i suoi simili un po' di ragione l'avevano, so pensiamo alle tante tòppe greche e latine di che senza necessità, e quasi senz'accorgersene, vestiamo non soltanto il parlare scientifico, ma quello famigliare e fin l'amoroso; se pensiamo alla straordinaria fortuna di parole come fobia, euforia, ustione (coi derivati ustionare, ustionamento), cremare (crematoio, crematorio), che non ci riuscirebbe di lasciare pelle tanto più schiette paura, benessere o serenità, bruciatura e bruciare, incenerire e colombario. Ma peggio interviene quando grecismi e latinismi < ci piovono come di seconda mano dalle oltramontane favelle; che ridotti alla foggia di quelle ancor meno all'eloquio nostro tornano appropriati; come sc- o o e o - no i seguenti... » e qui il Ranalli attacca un elenco che ci fa più paura d'un libro giallo (perchè vi si trovano parole che per noi giornalisti sono oro di zecca, come catastrofe, flagrante, simpatia, latitante, tellurico, iniziativa, ingente,linfluire, dolo, proselitismo, tee-1nico, categoria, incombere, am- buìanzu, ubicazione, dinastia e troppo altre su cui sarà meglio «stendere un velo». Quel rigoroso ragionava con;le teoriche del suo tempo: ere- j deva cioè che nella lingua ci l fosse un bello (che per noi è soltanto convenienza pratica e consuetudine d'orecchio); e1 che il bello proprio d'una lin-1 gua non si potesse portare in i un'altra senza guastarlo. E an- i che commetteva l'errore di icombattcre l'uso con quel si-Icuro perdente che è la ragio-jne; onde dava per spropositi |massicci, la nostra economia,pubblica (perchè il greco eco-! nomia è propriamente e sol- j tanto il governo della famiglia, iossia l'amministrazione dome- j stica) e per la stessa ragione ia, medesima economia usata\per parsimonia o masserizia; ilinostro neutralizzare (perché non rispondente al nome neu- ter o neutralis latino, che si- gnifica indifferenza e non di-istribuzione o incorporamento 1d'una sostanza in un'altra sì\che ognuna cessi di essere); la nostra aulica coi-te (perché au-\lico da aula significa latina- mente rfi corte); e aveva per lper goffaggini, come li usiamo noi, l'intedescata recensione, il verbo redigere, che usato bene dai Latini per ridurre uno scritto piuttosto in una formaIche in un'altra (redigere in versi ciò che era in prosa) noiladoperiamo per dire in signi-Acato assoluto ogni compilazio.ne; demagoghi, che appo i Greci non erano di necessità sempre rei, ceto (latinamente congiungimento, adunanza) per ordine, grado, condizione; ege- monia. e autonomia (inutili) e, per chiudere, barometro (in¬ (sufficiente), Così, per un verso o per l'al tro, i puristi conducono alla disperazione. E non basta rigettarli, bisognerebbe non lavelli mai abboccati; giacche 1in lingua, come in morale, la conoscenza, anche vaga, del l'errore, basta a disturbare uno stato felice. E non si vede che lo scrivere è facile per ;cni non sa e difficilissimo per j chi sa? l Sorge spontanea una doman da: questi demonii non sba- Rilavano mai? A modo loto 1 sbagliavano anche loro. Li1 buggerava di tanto in tanto i lo smoderato amore per il Due i e pel Trecento. E perché il pa idre Cesari fu dei più inflamInnati, fu anche quello, lui o i jsuoi scolari, che prese più cia |morosamente fischi per fiaschi, ,Cosi, letto nella Cofanaria del! l'Ambra: «Ma chi è quel che j vicnsene - In qua con far del iseco? », quel far del seco, svi j scerato con amore e quindi spiegato come parlare da sc\solo, solluchero lungamente i l'abate. Finché non saltò fuo rl la vc,il lezione, non svisata dal copista: fardel (e non /ai <'rO troncamento di fardello. iUn altro atroce disinganno lo 1 procurò l'espressione andar del \corpo, che dapprima finemente intesa nel senso arcaico di mo\rire, si trovò poi essere nicn. t'altro che la volgarissima ope l'aziono di sempre. E finalmen¬ te Ferdinando Martini ha raccontato da par suo l'abbaglio di quel canonico purista, che imbattutosi in un ormare. Iriempi Toscana delle sue di scettazionl, finché mutata In i lla prima gambetta dell'emme -!e questo mutato in enne, dal .: restauro risultò un altro acei jDO vero. à ; Cosi le cantonate ci son per e i tutti, a nostra umana consoiar jzione. -\ Leo Pestelli

Luoghi citati: Pisa, Roma, Toscana