Il testamento di Luigi Salvatorelli

Il testamentoIl testamento Circa quindici mesi dopo Benedetto Croce, il 6 febbraio 1954, ci ha lasciato Friedrich Meinecke, il maggiore storico tedesco di questa metà di secolo, più vecchio del Croce di tre anni e mezzo. Era nato nella Sassonia prussiana, a Salzwedcl (Magdeburg), il 30 ottobre 1862, ed era stato educato a Berlino. Ebbe a maestri il vecchio Droysen e Lamprccht; a esaminatori per la sua laurea in filosofia Treitsche e Dilthey. Fra Croce e Meinecke, contemporanei e in relazione di studi fra loro, corre più di una affinità, pur con tutta la differenza fra lo spirito universalistico di Croce, tradottosi in una ampiezza di ricerche e di studi senza uguale ai nostri tempi, e l'indirizzo specializzato dello storico Meinecke: indirizzo a cui si associava una certa timidità di pensiero, preferente le combinazioni e i compromessi alla dialettica concettuale. La prima e principale affinità fra i due è che ambedue si nutrirono dei succhi migliori della civiltà ottocentesca, e di codesta civiltà tennero in vita lo spirito, per quanto poterono, nel pieno del sovvertimento novecentesco. Affinità più specifica è che ambedue dedicarono il fiore della loro attività alla storia e al problema storiografico, e furono rappresentanti e difensori, anche se in diverso modo e misura, dell'indirizzo storicistico. V'è, però, una affinità ulteriore che necessariamente interessa di più il gran pubblico, al di fuori degli studiosi professionisti. Tanto Croce quanto Meinecke furono condotti, per spontanea reazione del loro spirito e per senso di responsabilità, ad applicare la propria esperienza di studiosi, e la propria coscienza di uomini morali, agli avvenimenti del loro tempo e della loro nazione. Al processo di codesti avvenimenti rispose una loro trasformazione spirituale, assai più sensibile nel Meinecke, temperamento (come s'è detto) poco filosofico, e quindi non di uguale capacità del Croce nell'adattare l'applicazione dei principi alle nuove situazioni. Al principio del secolo XX — e cioè, alla vigilia della prima guerra mondiale — il Meinecke delineo la sua posizione verso lo stato tedesco di fondazione bismarckiana nella sua prima grande opera Weltbiirgertwn und Nationalsttiat (1908), tradotta dal compianto Oberdorfer per la « Nuova Italia » sulla 6" edizione del 1922 (Cosmopolitismo e Stato nazionale). Il sottotitolo: «Studi e mmlari19dqzinsfdcca mmcrasuininmcrztaptee rZpcd—pncinLrdtclbfdutLnltcrdzpnFzrlddcmsulla genesi dello stato nazionale ! ptedesco», chiarisce l'obbiettivo |ospecifico dell'indagine così irti-1 postata; a precisarlo definitiva- mente, occorre aggiungere che ,1^tstudia le concezioni successive formulate nella Germania pre- bismarckiana circa i caratteri e i Bdestini della nazione tedesca, da\EHerder a Ranke, sboccando poi] nella storia politica effettiva, cioè j rnella costruzione bismarckiana I cdell'impero tedesco, con la sua | nparticolare sistemazione del rapporto Prussia-Germania. Nè, peraltro, così terminando, il Meinecke compie un salto capriccioso, un arbitrario « passaggio ad altro genere », inquantochè egli collega la prima parte alla seconda con l'analisi del pensiero politico del grande fondatore imperiale. Bismarck. Qual è il filo conduttore dell'evoluzione ideale e reale ricostruita dal Meinecke? Questo: che alla Germania del secondo impero si era arrivati attraverso una liberazione sempre più completa dello stato nazionale autonomo, avente in sè il suo valore e la sua legge, dai legami con le idee e gli ideali universalistici dominanti la Germania del Settecento, nel periodo dell'« Aufklàrung» (o «illuminismo», come diciamo malamente noi italiani). In poche parole: dal cosmopolitismo al nazionalismo. Lo stato, diceva allora il Meinecke, è in prima linea potenza, ed una potenza che si muove secondo i propri istinti (non occorre spiegare l'affinità di queste idee con quelle crociane sulla politica, momento utilitario della vita spirituale). E con frase estremamente caratteristica parlava dei tre grandi liberatori dello stato nazionale dalle idee universali: Hegel, Ranke, Bismarck. Riteneva, dunque, il M., che lo stato nazionale — nel caso specifico, la Germania bismarckiana — dovesse implicare la rinunzia, pura e semplice, alle idee e agli ideali universalistici fioriti nell'età del razionalismo? No certamente: bensì questi si attuavano, per quanto era possibile, entro lo stato nazionale stesso. Il Meinecke terminava, insomma, la sua ricostruzione storica in uno spirito di realismo soddisfatto. Non tanto soddisfatto, per verità, che egli non si rendesse conto di certi difetti di funzionamento dell'impero bismarckiano; e non affermasse addirittura, proprio alla fine dell'opera, la possibilità e necessità dqddi arrivare a un nuovo rapporto. Teramente organico, fra Prussia e Germania. Ma col tempo, e in modo graduale, senza rotture: mentre fondamentali rimanevano la politica di potenza e il militarismo prussiano. * * Durante e dopo la guerra del 1914 nuove edizioni si fecero dell'opera del Meinecke, con qualche giunta rispecchiante parzialmente le nuove situazioni. Ma nello spirito dell'autore la trasformazione fu assai più profonda. Il Meinecke fu uno dei pochi grandi intellettuali tedeschi che si schierarono risolutamente a favore della repubblica di Weimar, e cioè dell'esperimento democratico tedesco basato sulla nmTmssdoctstdtglztccollaborazione di borghesia libc- j mllcrdrale e proletariato socialista. Il suo nome divenne, nell'ambiente intellettuale berlinese, segnacolo in vessillo. L'ingrossare della fiumana nazionalista e nazionalso¬ cialista non lo travolse, anzi lo |erese più saldo nelle sue convin- rzioni. Egli prese posizione aper- j rtamente contro Hitler, anche dopo il suo arrivo al potere. S'intende, che fu ridotto al silenzio; e dovette perfino lasciare la direzione di quella Historische Zeitschrift, di cui aveva fatto la prima rivista storica del mondo. Se in Croce l'ottimismo storicistico resistette alle esperienze dei venti anni fra le due guerre — e tuttavia il suo colore si fece più scuro, e la nota tragica risonò sempre più spesso nel concerto dello spirito universale —, in Meinecke esso andò a terra. La seconda opera, L'Idea della ragion di stato nella storia moderna, del 1924 (anch'essa tradotta in italiano, presso il Vallecchi), rinuncia alla dialettica dell'universale e del particolare, del bene e del male (molto imperfetta, del resto, nell'opera precedente), e riconosce apertamente un contrasto fra le necessità vitali dello stato e la legge morale. Lo stato, in certi casi, pecca, e non può non peccare. Lutero se la cavava con la giustizia imputativa del Cristo coprente i peccati degli uomini; Meinecke si rifugia in una giustapposizione di bene e di male, in una aspirazione a che lo stato si avvicini il più possibile — o intacchi il meno possibile — l'ideale morale. Fu facile al Croce (v. Conversazioni critiche, IV, 95 ss.) mostrare l'empirismo di una simile soluzione insoddisfacente, tornando a innalzare nel cielo della dialettica la sua sintesi di particolare e universale, di politica c morale. Ma il Meinecke avrebbe d( ! potuto rispondere, come Don Ab |oondio al Cardinal Federigo: 1 Tutto bcnc< ma le ho viste iq ,,e faccc, ( ^ ,e yide ne. ^. ^ che seguir(mo Critiche ancor più fondate potè rivolgere il Croce alla terza Brande opera del Meinecke (Die \Entstehung des Htstorumus), del ] '936, soprattutto per il fatto che, j ricercando i precursori della I concezione storicistica, il Mei | necke aveva preso come punto o o d'arrivo il Goethe, esaltandolo quasi come il più vero fondatore dello storicismo. Ma l'errore innegabile del Meinecke si chiariva come rivelazione di quello che era ormai il bisogno più prepotente dello storicista in crisi: l'affermazione di valori assoluti; la contemplazione delle verità eterne. Le « Madri » del Secondo Faust, a gli archetipi di Platone; o, per dirla con lo stesso Meinecke, in un'operetta posteriore, l'« ubi consistam » di Archimede. Era. codesto, il testamento del nobile spirito, dell'alta coscienza morale dì Federico Meinecke. Testamento più distesamente formulato nell'ultimo libro suo, del secondo dopoguerra: «Die deutschc Katastrophe », del 1946, tradotto in italiano anch'esso a opera della «Nuova Italia» (La catastrofe delia Germania). E tuttavia abbiamo qui un libro di storia autentica, forse più autentica delle grandi opere precedenti. Non sarebbe probabilmente errato dire che esso è il miglior sommario, o meglio, profilo di storia tedesca, dalla fondazione del Secondo Reich alla catastrofe del Terzo. Nell'ultimo capitolo, « Le vie del rinnova- mento », Meinecke dice la parola giusta del futuro non solo per la Germania, ma per tutti i paesi civili: occorre fondare, o restaurare, l'intimità della cultura, andata a pezzi nel suo apparato |esteriore; e in codesta intimità realizzare la connessione fra spij ritualità nazionale e cittadinanza del mondo. Luigi Salvatorelli