La morte di Edoardo Rubino di Marziano Bernardi

La morte di Edoardo Rubino VX GRAVE LUTTO PER LA SCULTURA ITALEAXA La morte di Edoardo Rubino Il sereno trapasso di un vecchio gentiluomo - L'immenso lavoro di una lunga vita e Vopera che rimane dell'artista Da ieri sera Edoardo Rubino giace composto nel feretro, fra le grandi statue dello studio dov'cgli per tanti anni lavorò, c lottò e gioì coi suoi fantasmi d'artista. Ardono alti quattro ceri scavando ombre, gettando luci sui gessi, che sembrano ancora animarsi del fremito di una lontana ispirazione. Ai piedi della salma un mazzo di violette cupe, c sulle mani pallide un'orchidea; e la fragilità del fwrc stupisce su quelle dita forti clic nervose plasmarono pesi enormi dì creta, che assalirono blocchi vasti di marmo. Soave come una madre, è a capo della bara la figura dell'Immacolata, il modello della statua che nel santuario di Cuneo sta al centro del sacrario di Duccio Galimberti, eroe della Resistenza. E intanto alla casa di via Asti è uti continuo affluire di amici, di antichi discepoli, di autorità e personalità della cultura, uniti nel rim- MiiiiMiiiMiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiMiiiiiiiiittin pianto di un artista che sempre seppe essere un gentiluomo perfetto ed un maestro di vita. Così s'à mostrato fino aW'iltimo battito del suo cuore ferito dall'infarto. Sereno, virile, perfettamente conscio che alla digni' ì della sua lunga esistenza si addiceva un nobile commiato dalla vita. E se n'è andato in un mondo per lui non oscuro senza rammarichi, persuaso d'aver speso bene i suoi anni, confortando i congiunti, pronunziando alte parole d'addio per tutti: lucido, vigile fino ad impartirò le più minute disposizioni riguardo i lavori compiuti e da rifinire, e i due angeli in marmo da porre sulla sua tomba: quella tomba che egli, artefice di tanti monumenti funerari, aveva lasciato nuda, rinviando un impegno che gli pareva, fra gli altri di continuo assunti con instancabile attività, forse superfluo. La sera prima di morire, con memoria e voce limpida, disse alcune terzine d'un canto dantesco che particolarmente amava: il canto di Buoncontc: come a indicare che anch'cgli già vedeva la sua < carne sola >. Altrove era ormai lo spirito. Domattina si svolgeranno i funerali. Dal declivio della collina egli per l'ultima volta discenderà quelle strade tante volte percorse con passo agile, con là baldanza cordiale che lo rendeva simpatico a tutta la gente del Borgo Po. E' una partenza che lascia un grati vuoto in Torino, nell'arte, nell'anima torinese. Una delle troppe partenze che a poco a poco mutano il costume di una città. Alacre, e l'asciutta persona ancora prestante come quando gettava tonnellate di bronzo per la Vittoria della Maddalena ed il Carabiniere del Giardino Reale; sicuro l'occhio vivace nel profilo lievemente aquilino, virile, bellissimo; rapida la mano nervosa che aveva scalpellato innumerevoli marmi con perizia — in questa grande tecnica antica — ormai pressoché perduta dagli statuari; fino a ieri, si può dire, aveva lavorato intrepido attorno alla figura in piedi di Francesco Rurtini, che dovrà prender posto fra quelle dei più alti maestri dell'Ateneo torinese. Contemporaneamente preparava bozzetti per un monumento a don Ricaldone, per un altare richiestogli dalla fabbriceria del Duomo milanese (a Milano s'era recato l'altro giorno a giudicare un concorso per vetrate), per la tomba di un'amica di famiglia. Da poco aveva terminato i ritratti di Gioele Solari, di Domenico Riccardo Peretti-Griva, il nuovo busto di Giovanni Agnelli. Ed era entrato nel suo ottantatreesimo anno di vita, essendo nato a Torino T8 dicembre 1871. Attività mirabile, che sarebbe stata sorprendente in un giovane; invidiabile giovinezza fisica e mentale che gli durava per privilegio di natura. Ora la spirituale statua di Francesco Ruffini è compiuta, almeno nel gesso; ed Edoardo Rubino che nel convulso dell'andina pectoris ancora impartiva disposizioni al formatore singhiozzante presso il suo letto, è morto in pace con la sua coscienza. Perchè sulla sua opera la critica (che del resto poco e male la conosceva, se non negli aspetti più « ufficialmente » vistosi e forse meno fortunati) potrà avanzare varie riserve e parlare d'accademia e di retorica, di gusto rimasto qua e là « umbertino », di esteriorità o di scolasticismo. Ma su un punto si troverà disarmata: sulla probità artistica di un lavoratore sempre, verso il suo lavoro, severissimo, di un ricercatore di forme perpetuamente e nobilmente insoddisfatto di sè, malgrado la padronanza assoluta del mestiere che gli avrebbe permesso qualsiasi virtuosismo: insomma, di uno scultore il quale, dopo sessantanni di continuo interrogare la creta e il bronzo e il marmo, e dopo mezzo secolo di successi largamente popolari, ogni volta che metteva sul trespolo un po' di plastilina sia pure per la più semplice di quelle medaglie per cui era salutato maestro anche da chi gli negava altre possibilità, sentiva nell'animo lo stesso tremore di quando, ventiseicnne, aveva ricevuto dall'architetto Carlo Ceppi l'incarico di alcuni gruppi decorativi per la fontana monumentale dell'esposizione torinese del 1898. Dopo un duro noviziato nello studio di Leonardo Bistolfl (la famiglia del Rubino era povera, ed anche la frequentazione dell'Accademia Albertina alla scuola di Odoardo Tabacchi gli aveva imposto sacrifici superati con una volontà già allora imperterrita), il generoso aiuto del Ceppi segnava l'esordio d'una carriera fortunata. Quattro anni dopo le figure della Danza e le allegorie della Pittura e della Scx!tura, commessegli dal D'Aronco per l'esposizione d'arte de- corativa del 1902, venivano premiate su proposta del pittore francese Besnard; e la gentile statuetta della Fanciulla di Nazareth seguiva, nel Museo Civico di Torino, l'altra del Costume di Grcssoneg entrata nel '99. A trent'anni Edoardo Rubino era uno degli scultori piemontesi più in vista: e la Biennale di Venezia gli apriva le porte. Ma la sua cautela — come poi sempre fino al termine della vita — si dimostrava pari alla tenacia. Per due volte la Biennale non vide di lui che piccole opere decorative; e ritratti, prima della * personale » del 1942, soltanto nel 1907, nel '22. Un simile riserbo può essere riconosciuto esemplare. Per Rubino, intorno ai sessantanni, il proprio « passato », la propria « storia », erano la statua per il Vittoriano di Roma, il severo monumento torinese a Federico Sclopis, ad Alessandro Vittoria in Trento, dozzine di ritratti potentemente modellati con rara intuizione psicologica, cui s'aggiungeva, quando di donne, un senso innato di casta fiorente grazia (la Signora Mattirolo, ad esempio, il Ritratto della nipote); altrettante sculture funerarie e sacre solidamente architettate e come poche altre pervase di spirito religioso (dalla giovanile tomba Bidasio al grandioso gruppo della tomba Gambaro ed alla soavissima tomba Porcheddu, dal superbo Cristo di Villar Perosa alia Barca degli Apostoli del Vaticano); il gigantesco monumento al generale Mitre, di Buenos Aires, progettato in collaborazione con Davide Calandra e dopo la morte di questo da lui solo eseguito, come la nervosa statua equestre di re Umberto I in Roma (1926 0 '27); i monumenti torinesi a De Amicis, alla Vittoria (1928) sul colle della Maddalena, al Carabiniere (1933), formidabile fatica, quest'ultima, di più d'ottanta figure ad altorilievo oltre la serena statua del milite, che gli procurava il premio del laticlavio; e poi i monumenti ai Caduti di Novi Ligure ed alla guida Petigax a Courmayeur, i lavori per il camposanto di Milano, busti (fra gli altri di Giovanni ed Edoardo Agnelli), targhe, medaglie degne, nella perfezione del rapporto fra il tondo e le immagini, della miglior tradizione classica italiana. Era, come si suol dire, uno scultore « arrivato », un artista « ufficiale ». Grave colpa, in Italia, dove l'artista, per interessare certe Clitcs, o lo si vuol povero scannato (salvo celebrarlo dopo morte), o ricco più di « problemi » che di fatti, od almeno abbastanza sterile di temi, d'immaginazione e d'opera da sembrare, a consolazione dei falliti, un tantino impotente; e dove volentieri la critica dimentica che anche Michelangelo e Raffaello, Rubens e Van Dyck e persin Goya furono a modo loro artisti «ufficiali». Rubino? E dov'era il suo nucleo lirico, qualcuno domandava, la sua intima vita poetica? Forse nel gruppo simbolico del Giuramento sopra la statua del Carabiniere? E la sua arte? Un residuo di florealismo bistolflano, ai diceva, un prolungamento del verismo aneddotico di Calandra, il tutto condito di retorica accademica ed aiutato da un' innegabile abilità manuale. Leggeremo questo giudizio, pressa poco, in molti necrologi. E sarà, ancora una volta, un giudizio ingiusto. Certo, su una parte — e la più appariscente — dell'opera di Ruuino pesano le esigenze, per molteplici motivi quasi sempre insopprimibili, del lavoro di « commissione », commemorativo 0 celebrativo. Ma in quest'uomo che a sessant anni, lo si è detto, poteva appagarsi della sua fama, avvenne poi, nell'ultimo ventennio di vita, un singolare riesame della propria coscienza artistica. Tenace, riflessivo, instancabile, si ripiegò su se stesso: da prolisso e decorativo si fece sintetico, asciutto; da elegantemente fiorito e mollemente aggraziato, scabro e austero. Al sinuoso ritmo della linea, all'eloquenza sonora, preferi 1 pesi e gli equilibri dei volumi, la j talità passionale e vibrata. . _ ! Marziano Bernardi frase netta, le parole numerate: senza tuttavia mai nulla perdere — anzi, accentuandole in meglio raggiunte intensità — della sua schietta vena romantica, della sua sentimcn-