Il sorriso del figlio di Stalin

Il sorriso del figlio di Stalin Il sorriso del figlio di Stalin Spero, se m'induco a confidare al lettore un paio di riflessioni su alcuni punti dell'articolo col quale su questo giornale Barzini junior ha recensito con garbo di umana partecipazione e simpatia un mio recentissimo romanzo, di non cadere nel ridicolo e nella sconvenienza di farmi commentatore di me medesimo. Mi fido, perchè saranno vere e proprie, ossia semplici c fiduciose, confidenze, e anche d'occasione, d'attualità. Dunque, secondo Barzini, una « conclusione » dell'eroe del mio romanzo, poi che eroe di un racconto, si dice, non che un « cavaliere dalla trista figura » del divino Cervantes, anche la figura tristissima e grama del protagonista del « Cappotto » del gran Gogol; dunque, una « conclusione » di Jacob, « figlio di Stalin », spaventa. Qucseo ombroso e mite, e pure a suo modo strenuo renitente alla leva e ad ogni promozione propria a pur minimi gradi d'una qualsiasi importanza secondo il mondo, questo Jacob dice che la giustizia non è di questa terra: lui, figlio di un potente, di un forte, di un grande della terra, come Stalin. Al qual proposito, vorrei contraddire a Barzini su un punto; ossia dove lo definisce, e non è e non sarà il solo, un debole. Nò di fatto, per il poco ma molto significante che se* ne sa, o che io ne so, ne, ritengo fermamente, nel racconto. mio, la renitenza, la rinuncia, il rifiuto del figlio di Stalin a partecipare del1. grandezze c glorie del mondo, e men che meno de: riflessi comodi e lusinghevoli che potrebbero pur facilmente venirgli dall'esser figlio di un tal uomo, sono debolezza. Ne storicamente nè esteticamente, sia nel documento e sia nel romanzo. Quel che di lui si riferisce, ed è di ragione pubblica, costituisce una chiara premessa, per lo meno, di grandi tentazioni respinte per amor di un sè stesso, tanto semplicemente quanto risolutamente, irriducibilmente, indipendente. E che questo amore sia dimesso, modesto, particolare, tutto intrinseco, puro d'ogni invidia e ambizione, voglia di contrapporsi, di proporsi, di agitarsi, di teorizzare e di agire; puro, dico, ossia senza rancori e senza paura, senza paura e senza speranza; questa dimessità lo fa nobile e generoso, proprio per la inflessibile dimissione che non osa pur pensare d'essere forza di strenua rassegnazione, ma in qualche modo ce l'ha. E la dimostra, la produce tale, se non ni'inganna illusione d'autore e l'amore al personaggio, la ricusazione a difendersi, l'accettare senza accuse e senza recriminazioni, senza incriminazioni, con pieno e spietato riconoscimento umano e logico la sorte umana, e la sua propria, specialmente in quanto ha d'ingiusto. Quando alle tentazioni evitate in pace, s'aggiungono e succedono le inevitabili prove della guerra, nel riconoscere che quanta esiste è razionale ed esiste quel ch'è razionale, nel riconoscerlo e nel subirlo, q1' scuro eroe a me par forte e coraggioso, anche se di fronte alla necessità egli sia forse animato da "una brama o pazienza nichilistica e fatalistica. , Però, non è un filosofo heghcliano, nemmen per riflesso catechistico della dottrina marxistici o marxleninistica. Non è neppure, se non per insorgenza e risorgenza di nozioni prime e ingenue, e vorrei dir popolari come direi naturalizzate; non è neppure cristiano, poiché gli mancano, delle tre virtù, per lo meno la fede e la speranza. Quel che egli sia non sto a tentare di spiegarlo, perchè meglio e più chiaro, più vero che nell'immagine poetica, non riuscirebbe, e neanche incombe a me. Ma che le prove esprimano, partoriscano una forza ascetica nel suo rifiuto è della sua rinuncia, questo mi sta di dirlo, se non altro per moto d'affetto. E sì il racconto non esprime, non persuade, non ha cotesta forza, non ne ha nessuna. Sta di fatto che secondo quanto dice Barzini, « spaventa » che quella « conclusione » sia riconosciuta e fatta propria, citando parole testuali, « dall'autorità, dal talento, dalla saggezza cauta » del sottoscritto. Il quale non vorrebbe, per vero, spaventare, tanto più che il mondo com'è messo oggigiorno non gli par che patisca carestia di spaventi, ma, a tacer di tant'altre sapienze, e proprio stando fra romanzi e romanzieri, rammenta l'autorità di una saggezza, e anche cauta, come quella di Manzoni: e quando capita, per una volta, a Renzo Tramaglino di dir che c'è giustizia a questo mondo, si sa jManzoni come lo rimbecca, dicendo che non sa quel che si dica, annotando che il poveraccio farnetica. Però, direi pure: che c'è poi da spaventarsi? Quella, che è piuttosto premessa che conclusione è d'ogni filosofia e d'ogni poesia, e d'ogni esperienza e storia. E' la verità effettuale delle cose, per dirla col Machiavelli. E per venir proprio al fatto nostro particolare, quante volte non l'avrà ravvisata e incontrata Barzini, che ha conoscenza del mondo assai larga? Insomma, è la verità della politica, della potenza, che consiste ed agisce, opera e vive, non in rapporti di giustizia o ingiustizia, ma di forze; in un contrasto di necessità incombenti ed opposte EenvvoqsdoQdalmlmszolcEbtsetelrqngqftcrDtsOcètulscqebprzsStsv E tutta la sua giustizia e moralità e verità, sta nel riconoscerle, e nello scegliere le reali, le vere, le veramente necessarie, e nel servirle bene, ossia energicamente, ossia ben anche con l'inganno, quando occorre, e con l'ingiustizia. Ma, quando occorre, quando e dove e fin dove e in quel che occorre, soltanto e non oltre. Questa è la verità, severissima, del severo Machiavelli e di tanti altri prima e dopo di lui. La politica sta di qua da meriti e demeriti, di qua dal bene e dal male. Se va di là da questo suo limite preciso, e vuol vantarsi giusta e buona, facitrice di giustizie, pia o umanitaria che si vanti o si illuda d'essere, illude e si illude, e si perverte e rovina in catastrofi immani e inumane. E ingannare e ingannarsi può ben essere necessità passionata e combattiva, ma se v'insiste di là dal limite stretto e contingente del combattimento combattuto, diventa falsa e debole, ipocrita e crudele, fallace politica e morale falsa. Verità, giustizia, ragione, libertà, quella dello spirito, si attribuì cano a Dio o alla storia, appartengono alla politica soltanto per quanto ad essa compete e vien fatto di riconoscerle, di rispettarle, immanenti o trascendenti che le si concepiscano, in una sfera distinta dalla sua. Ci riesce? Di rado, e molto imperfettamente, come vuole natura nostra, e suo malgrado e a sua insaputa. Oggi, la politica ci riesce meno che mai; e certo meno che mai è disposta a ravvisare il suo limite, e a lasciarselo ricordare. E' una trita e cruda realtà, una ironica e tragica verità, nella quale potrei esaltarmi fino a sostenere che una ritrazione, non che dalla politica, ma dall'ossequio che le si tributa e ch'essa esige con ingombrante e incombente prepotenza dottrinale e pratica; fino a sostenere che una ritrazione, pur tapina ma coscienziosa, pur di un tapino ma cosciente, come Jacob « figlio di Stalin », e come me suo narratore, è difesa dello spirito, o certamente momento necessario di tale difesa e affermazione. Ma ecco che lui, siccome mi sembra quasi l'avessi conosciuto vivente in carne e sangue, ecco che mi par di vederlo sorridere della mia esaltazione, evasivamente, indefinibilmente. E come se ridicesse che esser figlio di Stalin lui solo ha saputo che cosa sia, riconoscendo in tal padre, ne! padre, le ragioni, le necessità, la potenza, la giustizia, quella che è della terra; riconoscendole tutte, 'e non soltanto in universale nella storia, quanto a dir nel padre, le grandi e possenti e- terribili; ma riconoscendo anche quelle che in un pallido e squallido riflesso e riverbero, grette, ristrette, esose, opprimono e sopprimono il singolo, in particolare, lui Jacob poveruomo. Già: mi par d'averlo conosciuto vivo e vero, quasi non tseliiiiiiiiiitiitiitiiiiiiiiti fosse personaggio di racconto. Fu quando mori Stalin, ossia un di quelli che, il giorno in cui natura esercita su di essi l'azione uguagliatrice della morte, con la loro morte ingenerano lo stupore dei fatti di natura; e il loro ritorno alla natura pare come uno di quegli eventi che sconvolgono, nell'atto, e poi subito appaiono come fermi, quieti, da sempre e per sempre. Anni prima, in tempo di guerra, avevo sentito alla radio la notizia di un figlio di Stalin fatto prigioniero. Poi null'altro: un silenzio già pieno di presagi. Ma poi le notizie dell'evasivo ed oscuro Jacob, mi colpirono come se lo riconoscessi: poche, fuggevoli, ma tutte concorrenti in un punto solo, di straordinaria e coerente semplicità. E mentre ne discorro, mi sopraggiungc l'ineffabile e ritroso, pur tanto arreso, l'indifeso sorriso di quel Jacob; e so quel che significa: che non si stia a discorrerne, a dire di lui. E' un sorriso lieve e irrevocabile, umanissimo. C'è un verso di Dante che mi par pregno di un profumo di miele amaro, e che mi suona in tono di congedi e d'addii, dicendo: « Parole mie che per lo mondo siete ». Se avessi la puerilità seriosa di trattare coi personaggi come con persone, dirci addio, ora che è « per Io mondo », a un certo Jacob. Non mi resta che da scusarmi col lettore di tante confidenze che gli ho propinate. Chi sa? c'entra forse la malinconia di fine d'anno. Riccardo Bacchelli «lllllMItlllllllllllSMIIIIIIIIIIIllll llllllIMflIl