Napoletani e milanesi

Napoletani e milanesi Napoletani e milanesi Dopo il cinematografo, siamo alla letteratura degli straccioni, conseguenza di tutte le guerre. Senonchè la grande tradizione realistica radicata nei bassifondi sociali, muoveva dai soldati di ventura, divenuti furfanti e progenie di furfanti; e i « picari » spagnuoli, gli usciti dalle taverne, bettole, carceri inglesi, i masnadieri tedeschi, e i reitres francesi, riempivano pagine, capitoli, racconti dove nequizie e atrocità, luridume fisico e morale erano trattati con senso d'arte. Oggi che la guerra ricade sui cittadini, i relitti che Anna Maria Ortese descrive ne il vtare non bagna Napoli (Ed. Einaudi) destano orrore, ma hanno perduto baldanza, vivacità, pittoresco. Entrando con la Ortese nell'ex-caserma borbonica dei Granili, che raccoglie una turba di senzatetto in immonda promiscuità, il lettore sbalordito e nauseato, si aggira fra larve fetenti, e analoghe raffigurazioni di identici ambienti ci eran venute da Venezia, ed è di ieri // cielo è rosso di Giuseppe Berto. Spettacolo di decomposizione sociale che lascia pensosi, ma l'angoscia dei casi, la miseria dei personaggi, non bastano a interessarci artisticamente. Tutt'altro che propensi alla letteratura delle duchesse e contesse e relativi boudoirs, alle filiformi analisi dei maldipancia ideologici e spirituali, l'invasione di quello che Marx chiamava il a sottoproletariato » in troppi libri odierni, comincia a stancarci. La' Ortese ci dà un ottimo reportage, lucido, preciso, senza un filo di retorica. Ma purtroppo non nuovo: dai Goncourt a Renato Fucini e a La pelle di Malaparte, testimonianze del genere abbondano, giacché il problema fondamentale, ossia l'eccesso della popolazione in rapporto alle risorse, nessuno lo ha voluto e lo vuole affrontare, porvi rimedio. E' un vecchio morbo che ogni tanto trasuda con l'emigrazione, si affievolisce o si rinfocola. C'è un personaggio del Mare non bagna Napoli, malato sino alle midolla, con una serqua di figli che è incapace di sfamare, il quale lamenta che la moglie si sia rifiutata (finalmente!) di procreargli il « figlio dell'anno santo ». Inutile il commento. La descrizione del popolino partenopeo, varia secondo il temperamento dello scrittore : chiazze impressionistiche nei Goncourt, toscana lindura nella Napoli a occhio nudo del Fucini, delicato sentimentalismo in Giuseppe Marotta, disordinata volgarità in Domenico Rea. Quest'ultimo s'è -illuso recentemente con Ritratto di maggio (Mondadori ed.) di replicare o controbattere il Cuore deamicisiano d'ispirazione « borghese », sostituendo alle affettuose e bonarie figure dei maestri torinesi un insegnante sadico e bastonatore; e ai ragazzi del nostro paese, scelti in ogni condizione sociale e presi dal vivo, una scostumata e lercia masnada, già odiatrice dei benestanti o verso i medesimi servile. Lotta di classe nelle scuole elementari! Calcar la mano nella rappresentazione, insufflare ideologie nella narrazione, ecco la nuova ricetta di tanti scrittori presuntuosetti e mediocri. La Ortese, ch'è stata a loro vicino, ce li mostra uno,dopo l'aitro, in un lungo capitolo del Mare non bagna Napoli, ennesima versione delle illusions peràues di certi intellettuali meridionali che ci son noti fin dal Riccardo Joanna della Serao e dai ricordi giornalistici di Verdinois. Se affondassero il bisturi nelle carni purulènte con una autentica sensibilità artistica o una schietta vena' di riformatori, benvenuti: Jules VUlès il refrattario è stato ed è fra i nostri autori. Invece, abbiamo sempre il dubbio che si tratti di un calcolo o di una moda, e che le cloache servano di trampolino alle ambizioni ed esibizioni letterarie. Non diciamo ciò per la Ortese, che nei suoi limiti, è sincera. Però, il lodato racconto Un paio d'occhiali, che apre il volume, a una seconda e riposata lettura, ci sembra artefatto; e la farfalla che chiude Oro a Forcella, ossia il capitolo del Monte di Pietà, un'immagine messa lì con le mani, per far colpo. Gli scrittori che da De Foe a Fielding, da Hugo a Zola, hanno esplorato i bassifondi, non avevano queste finezze. E quanto all'Interno familiare, una scena del teatro dei De Filippo, un racconto di Gino Doria, per tacer della sempre viva e iheguagliata donna Matilde, dicono di più. Fra gli scrittori napoletani che nessuno ricorda — a meno che non sia critico come Croce, o buongustaio come Doria — Vittorio Imbriani si provò un gior no all'ambiente milanese, in un dimenticatissimo e curiosissimo romanzo. Dio ne scampi dagli Orsenigo, che ignoro se Carlo Emilio Gadda conosca, ma che egli dovrebbe venerare come an tenato dell'arte sua. L'autore delle Novelle del ducato in fior/mie (Vallecchi ed.) ha molto dell'Imbriani, quantunque di nascita e formazione settentrionale e scientifica, anziché filologicamente erudita. Lo si è fatto discendere da Carlo Dossi, da Faldella, e ci si mettan pure Rovani e.Giampietro Lucini, ip lo accoppio al napoletano Imbriani, e mi diletto di entrambi. L'anno scorso maltrattai il Gadda, e non me ne pento, per // primo libro delle favole; adesso, con le Novelle del ducato in fiamme (ch'è poi la Lombardia sotto i bombardamenti) egli ritorna alla vena dell'Adalgisa, ossia ai bozzetti milanesi, caricature di nobili, satire della borghesia grassa, ritratti di popolani inurbati. Talvolta scrive malissimo (si legga a' pag. 152 il periodo raccapricciante che comincia: «Quello nel di cui corpicino aveva voluto vedere, oh! giorni! la' prova difettiva di natura, un fallito sperimento delle viscere, dopo la frode accolta dal seme reluttante ad aver patito... ») ma sovente la sua aggettivazione è calzante e saporosa. Si confrontino i suoi benestanti milanesi con la immagine che ne dà Palazzeschi in Roma, e si vedrà quanto quest'ultima sia superficiale e frettolosa. In Gadda interlocutori e dialogo son di prima mano, di uno che li conosce e si crogiola ai discorsi, sottolinea beffardamente e malignamente le espressioni caratteristiche e le battute, volta e rivolta il vocabolario, lo spreme, in cerca della parola rara, della frase da appuntare nella pagina come una farfalla. E nel vernacolo, nei tipi popolari, è altrettanto felice, V'incendio di via Keplero presentandoci uno dopò l'altro gl'inquilini di una casa, con costrutti e figuri non indegni del Boccaccio del Sacchetti, prova che costumi e zimarre cambiano, ma gaglioffi e buontemponi son sempre eguali. Che cosa è mancato finora a Gadda per avere larga udienza? Anzitutto il carattere regionale dei suoi racconti, ne limita l'interesse ai lettorKdi Rajberti e di Porta. Poi, il lettor comune inciampa in note delucidative o interpretative di frequente poste a pie di pagina; è incerto, dinanzi un'orchestrazione stravagante, se l'autore parli sul serio o per burla. Le Novelle del ducato in fiat/mie valgon soprattutto per lo stile, per i particolari. Papà e mamma, per esempio, è — senza che sia mai detto esplicitamente —, la preparazione di un « imboscato »; Una buona nutrizione, l'allevamento, da parte di un terzetto femminile, di uno stallone che va a scaricar le sue voglie altrove; la Domenica, Il bar, Inchino rispettoso, Dopo il silenzio, poco più di bozzetti o schizzi. E il più lungo racconto, San Giorgio in casa Brocchi, ossia la cameriera procace che spupilla il signorino, mena troppo il can per l'aia. Meglio la pensione romana, con la padrona e il capitano chiusi dentro da uno scatto della serratura, e il famiglio ciabattone che esce dal luogo comodo e viene a liberarli; e specialmente il già citato In cendio di via Keplero. - Qualcuno ha trovato il nu'ovo libro di Carlo Emilio Gadda un po' volgarizzato, un'Adalgisa adattata a più facili lettori, e ha rimpianto le prodezze e girandole stilistiche e i capricci narrativi, le bizzarrie dei suoi primi racconti. Non sono di questo parere. Gadda ha tutto da guadagnare ampliando la sua osservazione e semplificando la sua maniera, senza però perdere in pittoresco, nè mettersi a sbrodolar e ad annacquare la sua prosa. Arrigo Cajumi

Luoghi citati: Lombardia, Napoli, Roma, Venezia