Elezioni di altri tempi

Elezioni di altri tempi Elezioni di altri tempi Durante la prima democrazia, quella nata dal Risorgimento (e che tuttavia partorì e ninnò il Fascismo, quasi come la rivoluzione delle rivoluzioni produsse il Bonaparte) vigeva a Napoli il Collegio uninominale. Ritengo che il sistema, buono o cattivo, si addicesse particolarmente al Sud. Un Partito è una grande Azienda, quasi un'industria (oggi con succursali o centrali all'Estero) e fondatori o continuatori di grandi Aziende noi ne produciamo di rado, i Marzotto e i Piaggio e i Rizzoli meridionali sono mosche bianchissime, hanno un che di esotico e d'inventato e finanche di osceno, come le baiadere. Da noi le idee o sono di carne, facce, corpi, o vadano tranquille a seppellirsi. Noi cerchiamo il protagonista, l'eroe o la vittima, il trionfatore o lo sconfitto, in qualunque vicenda... siamo nipoti dei fanatici di Rinaldo e, anzi, di Pulcinella e di Tartaglia, ci convincono i paladini e non le vmlignanelle, il soldatume di ogni conflitto; ci incanta l'individuo, l'attore solo con la tragedia o con la farsa al centro del palcoscenico. Teorie, programmi... altro che, figuria moci, sappiamo che anche Iddio ha qualche suo millenario progetto sulla Campania felice, ma non abbiamo fretta, non ci contiamo: egli ci piace, fortunatamente, non per le promesse che ci ha fatte o che ha lasciato intendere di averci fatte, bensì per la sua cara maestà e per la sua ineguagliabile barba. Giorni or sono percorrevo lentamente, in una carrozzella, via Caracciolo a tratti fulminata da un sole che appariva quando poteva dalle ■crepe delle nuvole, un sole affio rante come il secchio dal pozzo, sorgivo, che grondava luce per ■un attimo e ripiombava nell'invisibilità; il cocchiere, mezzo voltato sulla cassetta, lavorando come un tagliacarte, di 'sbieco, mi raccontava ciò che più lo aveva turbato della campagna elettorale in corso. Io dissi: « E tu a chi darai il tuo voto? ». f Al Re », disse. « Ai monarchici? Vorresti che tornasse Umberto? Ma perchè? » insistetti. E lui: «Signò, si domanda? Guardate un ritratto dei suoi figli... Gesù, che belle creature! ». Quando ero adolescente io, . dunque, il rione Stella dove nacqui e abitavo appartenne, co~ tutto il suo ribollire di * selci smosse, di cancelletti sbilenchi, di grondaie penzolanti, di facciate lebbrose, di paracarri, di fontanine, di scalinate e di gente nera come il diavolo, ad Arturo Labriola. Dal Museo alla Sanità, dalla fluviale piazza Cavour all' impennato Scudillo, quest'uomo politico, sì e no quarantenne allora, fu l'idolo intoccabile del popolino e degli impiegatucci, avversato senza costrutto in pochi « ambienti », fra lucidi anelli di bottegai e un alacre, ondoso fruscio di parroci. Maschi, femmine, vecchi, bambini frequentavano i comizi di Labriola. Che oratore. Il cinema balbettava, in quel periodo, e non c'era la radio. Tenere un discorso elettorale significava allestire uno spettacolo, affrontare occhi e orecchi esigentissimi, provetti. Era meglio rappresentare una nuova opera musicale a Bergamo o a Parma, che tentare la conquista orale dei Cagnazzi o di Materdei. Un candidato che smarrisse il filo di un'intenzione, o che nel modulare un brano ricco di articolazioni sbagliasse Varcata del respiro, o che osasse consultare qualche nota, era perduto. E che diamine. Con le parole il napoletano induce a mostrarsi e ad arrendersi il pane che non ha; con, le parole blandisce ed espugna, rivelandoli a se stessi, gli amici e i nemici, le donne e i santi. Napoli, prima che i napoletani la convertissero in parole, non esisteva. E rivolgendosi al rione Stella, don Arturo Labriola, nutrito di ottimi studi letterari, oltre che filosofici e politici, era consapevole di ingaggiare una battaglia molto più aspra di quelle parlamentari. Un pernacchio innalzato da un basso, o versato con l'imbuto da una finestra, lo avrebbe annichilito... perciò sentiamo: come gelava i pernacchi in gola ai suoi ascoltatori, l'onorevole Labriola? Tozzo, sgraziato, grifagno, vagamente cardinalizio, il Professore aveva scarsissime probabilità che la sua immagine, sul podio o sui cartelloni, gli levigasse la strada E non appena intonava il suo « Elettori di Stella! », era peggio. I toni pungenti e acerbi della sua voce aguzza, di suocera in una pochade, sembravano ottenuti da un suonatore di xilofono che urtasse a vanvera, con le bacchette, ì cocci di bottiglia sulla cresta di un muro. Nulla di più scostante e uggioso, nella terra dei mandolini; scnonchè Labriola aveva parecchio da aggiungere alla rasoiata iniziale di quel »uo « Elettori di Stella! ». Apriva il sacco enorme dei suoi argomenti, il sacco di una meravigliosa Befana della polemica, e l'uditorio, musica o non musica, era legato mani e piedi / Ascoltavano muti e assorti, gli reggevano per così dire la matassa dei complicati ragionamenti che egli svolgeva con somma perizia, sfidandosi, temo, ad aggiungere instancabilmente filo a filo, concetto a concetto; e uno svariare di ombre e luci domenicali (trine di ringhiere, foglie inquiete come ciglia, il trolley fuggitivo di un tram li brato su piazza Dante, un pio vere e uno spiovere di rondini) illeggiadriva faticosamente, grado a grado, anche l'aspetto dell'oratore. Insomma Labriola giuliva ed era goffo e antipatico: vinceva e stravinceva per la sola virtù fondamentale, interna, delle sue parole. Non ricorreva si badi, a un linguaggio studiato per noi, futile, occasionale; macché, dissertava come dal suo banco a Montecitorio. Non ignorava con quali critici avesse da sbrigarsela, gente che per gustare una frase perfetta non era necessario che la capisse, un antico infallibile istinto ci. soccorreva in questo. Gli anni ai quali mi riferisco erano quelli del tifo nelle Corti d'Assise, per i Marciano i De Nicola i Porzio; gli anni in cui la plebe, non ancora attratta dai cimenti' sportivi, aveva per motto: «l'arte oratoria per l'arte oratoria », e magari si azzuffava barbaramente in sostegno dei grandi avvocati. Avrebbe potuto funzionare un Totoprocessi; i carabinieri, nelle aule di Giustizia, non sorvegliavano i detenuti, sorvegliavano il pericoloso entusiasmo del pubblico stupito dalla dottrina degli eccelsi penalisti. E forse il « Siete una scienza... bravo! », ringhiato da un sudicio ammiratore, lusingava i Principi del Foro almeno quanto gli amari elogi degli antagonisti debellati. « Il discorso di Turati alla Camera! La risposta di sua eccellenza Giolitti! » annunziavano allora, nei vicoli, gli strilloni. Era l'estate della democrazia: non la stampa giovava ai deputati e ai ministri, ma i deputati e i ministri facevano vendere i giornali. Altro che disciplina di partito,, altro che direttive! Ci invaghimmo delle qualità di un uomo politico, lo confrontammo ai suoi rivali, scegliemmo effettivamente i nostri rappresentanti, li selezionammo, non li acquistammo in blocco a una specie di asta elettorale. Noi, laggiù, ci vietammo addirittura di incatenarli ai loro principi! Chi più retrattile, sinuoso e volubile, infatti, di Arturo Labriola? Ma il rione Stella non gli mancò e non lo redarguì mai. Gli chiedevamo di essere geniale, temuto, importante, e basta. Intuivamo che l'intelligenza è rigorosa, coerente in sè, non nelle vie che piglia. Concepimmo ì Parlamenti come una gioielleria, e non come una Upim, di cervelli. Difendemmo, rammento, don Arturo perfino dagli, assalti di un piccolo nababbo, un certo Chianese di Villaricca o di Giugliano, sostenuto da molti quattrini e dai venali guappi della zona. Che scontri, che guerra... mi viene da ridere: combattendo godemmo e ci spassammo come a Piedigrotta o a Montcvergine. Gli avversari di Labriola accendevano fuochi pirotecnici? E uno scugnizzo recideva le micce. Elevavano un pallone? E, dai terrazzini, esperti frombolieri lo costringevano a ritornare, avvizzito o bruciato, ai mittenti. Organizzavano un corteo? E i punti-chiave dell'itinerario, cosparsi di sapone molle, si trasformavano in viscide piste di pattinaggio. Incollavano centinaia di manifesti con la scritta «Chi vuole il bene del nostro paese - vota. Francesco Paolo Chianese »? E nugoli di arguti amanuensi vi aggiungevano subito a carboncino: «Chi ama Napoli realmente - non lo vota, questo fetente ». Non avevamo, è chiaro, l'eleganza, lo stile del nostro candidato. Ma eravamo audaci per lui. Ricordo il giovane Gaeta nino Va sta re 11 a, un artigiano del vico Purità. Seguito da un'orchestra di ragazzacci che mediante coperchi di pentole facevano più chiasso di un'elegia di Victor Hugo, andò a cantare strofette ironiche proprio davanti al Circolo Chianese in via Nuova Capodimonte, affollato di maestri di rissa. Non era armato che dei suoi denti di lupo e dell'incrollabile certezza che Labriola fosse un Imalaia di cultura e di talento; nessun Griso del signorotto di Villaricca ardì torcergli un capello. I bastoni degli squadristi di Padovani, invece, lo ridussero più tardi alla tomba. Non sono sicuro che frattanto Labriola opponesse recisi no ai primi atti del Governo misto di Mussolini. E con ciò? Per noi di Stella, ripeto, Labriola era sempre, comunque agisse, Labriola. Un grosso ingegno, con un formidabile peso su qualunque bilancia. La nostra- democrazia, quella del Collegio uninominale, fondata sulla scelta dell'uomo e non del partito migliore, del singolo e non della schiera, agonizzava per ben altri motivi: troppi Misiano e troppi Farinacci, troppe ignoranti, rozze, triviali persone a sinistra e a destra. Giuseppe Marotta

Luoghi citati: Bergamo, Campania, Napoli, Parma, Villaricca