Cinque anni a Palazzo Chigi di Vittorio Gorresio

Cinque anni a Palazzo Chigi L'ULTIMO LIBRO Dì SFORZA Cinque anni a Palazzo Chigi « Ciò che mi ha spinto a scrivere questo libro in pochi mesi di forzata convalescenza' è stato il ricordo del rimorso che ho spesso sentito nel quinquennio '947-51 passato al Ministero degli Esteri...»: sono parole di Carlo Sforza, pubblicate come avvertenza ad un eccellente suo grosso volume di memorie ( « Cinque anni a Palazzo Chigi», editrice Atlante, Roma, 1952, pagg. 586) che in questi giorni sarà messo in vendita, arricchito di molti documenti inediti. Le parole dellVavvertenza» sono datate il 22 agosto 1952, due settimane prima, vale a dire, della sua morte, avvenuta il 4 settembre. Perciò il volume che egli allora licenziava è da considerare suo vero testamento politico, al quale diede le sue cure durante i tredici mesi (luglio '5i-agosto '52) di quella che si immaginava fosse una convalescenza. Si era dimesso dall'ufficio di ministro degli Esteri il 21 luglio '51, inviando a De Gasperi una breve, dignitosissima lettera: «La completa guarigione della mia gamba può non essere breve. Ciò rompe ogni esitazione; in questi tempi — e con vicini impegni di viaggi — il ministro degli Esteri ha bisogno di tutte le sue energie, anche fìsiche. Tu, che hai tanto il senso del dovere, mi approverai di chiederti di disimpegnarmi dalla mia carica attuale ». Così Sforza lasciava Palazzo Chigi, dove era entrato ministro — successore di Pietro Nenni — in uno dei momenti più tristi della storia italiana, il 2 febbraio 1947, alla vigilia della firma del Trattato di Pace, impostoci durante la conferenza di Parigi dell' estate precedente. Nenni lasciava il Ministero degli Esteri in conseguenza della scissione allora avvenuta nel Partito socialista; De Gasperi, che allora ritornava dal suo primo viaggio in America, aveva provveduto ad un rimpasto, preludio della più larga operazione politica che sarebbe avvenuta nel maggio di quell'anno per la estromissione dei comunisti dal Governo. Dei nuovi ministri nominati in quel febbraio, Sforza fu il primo a presentarsi nella sede del dicastero per prendere le consegne dal collega uscente (era una domenica, di pomeriggio, ed: alcuni diplomatici, anche di un alto rango, e quindi comandati ad assistere alla cerimonia del cambio, avrebbero preferito recarsi allo stadio per la partita che quel giorno si giocava, Lazio contro Juventus). Tre giorni dopo, a Montecitorio, quando la Costituente riprese i suoi lavori fu ancora Sforza il primo ad arrivare a prender posto al banco del Governo, così come era stato il primo ad arrivare al Viminale per il primo Consiglio dei ministri. Di quella sua solerzia la ragione essenziale era anzitutto il « senso del dovere » che egli, apprezzandolo negli altri, personalmente possedeva in misura eminentissima; ed in secondo luogo — o per lo meno in relazione a circostanze specifiche — era ia sua consapevolezza di quanto fosse urgente dare inizio ad una politica estera che procurasse il reinserimento dell'Italia nella comunità internazionale, come elemento di forza di questa medesima comunità, e non già come causa di debolezza, o — peggio ancora — fomite di pericolosi dissidi: «E' stata gran ventura per me, che avevo sognato durante quasi vent'anni di esilio una tale visione politica e diplomatica per il mio Paese — scrive Sforza nel primo capitolo — diventare il responsabile del ministero degli esteri in un momento in cui più si imponeva un'azione ispirata a questi principi ». A quella azione ha dedicato tutte le sue forze, ancora veramente prodigiose nonostante la tarda età cui era giunto dopo una vita travagliata, ed ha dedicato tutte le risorse della sua duttile capacità diplomatica: e se da molte parti gli è mancato, durando la sua opera, quel riconoscimento che sarebbe stato doveroso ed onesto, ciò Sforza interpreta da uomo saggio come fatto imputabile a se stesso: e cioè per avere, egli stesso,- mancato di esporre chiaramente agli italiani metodi, scopi e caratteristiche di una politica estera che doveva apparire veramente nuova se si pensa alla diseducazione che il regime fascista aveva imposto al Paese durante un lungo ventennio. Di qui il motivo di quel « rimorso » che nella prima frase dell'» avvertenza » da noi citata egli conferma di aver provato. c Io mi proposi — enuncia ora cominciando l'esposizione della sua attività come ministro degli esteri — di collaborare con tutte le nostre forze a facilitare il tentativo delle grandi potenze inteso a comporre un nuovo assetto mondiale e un nuovo equilibrio di forze sopra le rovine immani della guerra. Ma, in senso più particolare, il mio studio fu di reinserire l'Italia nella comunità europea occidentale, di cui per tradizione e storia è indissolubile parte, trasformando nello stesso tempo i nuovi legami, che mano a mano riuscivamo ad intessere, in una organizzazione permanente euiopea che potesse un gior lbvasmscfseqptdpstrgcfasrllsnuscalvvctatvqmime o o i ù i à r e o o , no rappresentare il nucleo dell'Europa federata». * * In concreto, comunque, il problema che si poneva e che esigeva una immediata soluzione era anzitutto di decidere se si dovesse o meno firmare, e poi raccomandare alla ratifica della Costituente, il trattato di pace. Racconta Sforza che De Gasperi, sul finire del gennaio 1947, recandosi ad offrirgli il ministero degli esteri, lo invitò a considerare di quale grave sacrificio avrebbe portato il peso, firmando il trattato: aveva misurato la valanga di contumelie che i retori ed i passatisti avrebbero scaraventato su di lui? Sforza l'aveva misurata, ma sentiva altresì come dovere imprescindibile di tutelare e garantire l'avvenire del Paese: chi sa per quanto tempo, se la firma fosse mancata, le truppe anglo-americane sarebbero rimaste a occupare l'Italia. « E' questo che voi volete? », racconta di avere domandato allora più di una volta a taluni « solenni politici che si erano fatti specialisti di patriottismo nazionalistico ». E quindi spiega, ed in un certo senso giustifica, nella spregiudicatezza del suo spirito critico : « Sì, era questo che in fondo volevano, anche se non lo ammettevano apertamente. Nell'occupazione straniera essi vedevano una garanzia contro i movimenti di massa, senza capire che solo una politica lungimirante di rinnovamento economico avrebbe reso vane le campagne totalitarie di ispirazione moscovita ». Il destino di Sforza, come di quanti seguono soltanto il dettame della coscienza sdegnando di indugiare nei compromessi dell'opportunismo, fu poi, naturalmente, di non essere compreso: e da una parte fu definito da Togliatti «l'uomo politico più nefasto della storia d'Italia », dopo che aveva liberato l'Italia da una occupazione straniera fatalmente destinata ad essere soffocatrice dei « movimenti di massa » che 10 stesso Togliatti si adopera- ad impersonare; e dall'altra, dagli « specialisti di patriottismo nazionalistico », fu vituperato come affetto da «cupidigia di servilismo ». * * Scrive, sereno, Sforza, riferendosi ad'un celebre discorso pronunciato da Orlando alla Costituente: «Un vegliardo osò allora accusare De Gasperi e me di servilità verso lo straniero », ed 11 suo modo di respingere l'ingiuria sta tutto nella citazione che egli fa dei testi diplomatici che documentano l'iniziativa presa subito dopo la decisione della firma del trattato per ottenerne, subito, una radicale revisione, su bito affermando in venti note telegrafiche indirizzate alle capitali dei venti paesi interessati, « il diritto per l'Italia di contare su una revisione radicale di quanto può paralizzare o avvelenare la vita di una nazione di quarantacinque milioni di esseri umani ». Quattro anni dopo, parlando a Genova, Sforza chiedeva ai suoi ascoltatori: «Ditemi voi se ci si poteva rivolgere allo straniero con più fiera franchezza. La firma del trattato di pace, ingiusto e miope com'era, costituì il chia vistello che ci permise la marcia verso la piena liberazione e la piena uguaglianza ». Se, da una parte, la firma del Trattato era la sola chiave che si trovava nelle nostre mani per uscire da una prigione, dall'altra essa non era da vedere come sanzione di una sconfitta, quanto come suggello di una politica immorale e sbagliata, cioè della politica fascista. Era l'atto finale di un isolamento cominciato nel 1922, quando una dittatura aveva soffocato i sentimenti della nazione, aveva separato questa, moralmente e politicamente, dal resto dell'Europa libera, per poi gettarci, impreparati, in. una guerra dove in ogni caso avevamo tutto da perdere: «Pagammo il fio — diceva Sforza lucidamente — del massimo errore dei capi fascisti: aver rotto la collaborazione internazionale. Oramai — aggiungeva — la co scienza dei popoli tende ad una sempre maggiore coordinazione economica e morale come condizione essenziale di pace e di progresso ». * * Nei diciotto capitoli e nella appendice annessa a questo volume che Vittorio Calef ha intelligentemente curato per la editrice Atlante (dopo che alla sua elaborazione aveva attivamente cooperato), Sforza trac eia la storia della politica internazionale nei cinque anni della sua proficua presenza a Palazzo Chigi: sono gli anni che hanno visto la nascita e la trasformazione dei Piano Marshall, le vicende e le speranze della Unione Europea, le origini e la organizzazione del Patto Atlantico, la realizzazione del Piano Schuman per il carbone^ l'acciaio: avvenimenti decisivi per l'Europa e per il mondo, come si deve riconoscere, semplice mente a leggerne l'elenco. Sono gli anni, del resto, che per l'Italia hanno significato il superamento del Trattato di Pace, un tema al quale è dedicato uno. dei capitoli più avvincenti e più istruttivi, che è quello che immediatamente precede la con¬ clusione del volume. Ed anche in questa — nel capitolo che si intitola « commiato » — si torna ad enunciare quello che appare essere, non tanto il tema conduttore del libro, quanto il senso della.stessa politica di Sforza. « Noi dobbiamo — egli scrive — sentirci profondamente italiani. Noi dobbiamo volere che dei patriottismi nazionali seri e sobri continuino ad esistere e progredire: sarebbe una ben triste e grigia cosa un'Europa senza un'Italia e la sua umana vitalità, senza l'Inghilterra e il suo fondo poetico, senza la Francia e il suo chiaro genio. Ma alle nostre antiche lealtà nazionali noi dovremo aggiungere una nuova lealtà: quella verso l'interdipendenza delle nazioni. E noi italiani dovremo voler ciò più di ogni altro popolo; non vi sarà progresso possibile per l'Italia se non collaboreremo con tutta l'anima all'avvento di questa legge, matura ormai per la storia di domani ». Vittorio Gorresio