Uno scoglio nel Pacifico ove Truman incontrò Mac Arthur di Giovanni Artieri

Uno scoglio nel Pacifico ove Truman incontrò Mac Arthur GIRO BEL MOXnO TRA GUERRA E PACE Uno scoglio nel Pacifico ove Truman incontrò Mac Arthur Tappa a Wake, nel gran volo da Tokyo a Honolulu • Viaggio di sogno - Il meteorologo che sospira per le ragazze di Yokohama • Una piccola baracca ed un colloquio storico - In un'alba d'ottobre del '51 il generale si avvicinò al Presidente con le mani in tasca; poi i due conversarono senza testimoni per un'ora - Fu qualcosa di molto importante, e quest'isola oceanica un grande scenario: Victor Hugo non avrebbe desiderato di meglio (Dal nostro inviato speciale) Isola di Wake, ottobre. A Tokyo muoiono tutte le linee aeree internazionali verso oriente: la olandese, la inglese, la scandinava, la filippina; una sola, la Pan American World Airways, continua. Travalica il Pacifico, tocca le solitarie punte di Guam e di Wake, approda alle Hawaii, si spinge verso gli arcipelaghi del sud, sino a Tahiti, alle Figi, all'Australia, alla Nuova Ze¬ landa, e riapproda ,iul continente americano: chiude così il gran cerchio attorno al mondo. L'aeroplano lascia il Giappone sul tramonto. E' una partenza senza solennità. I soliti disbrighi ni banco dei bagagli, alla punzonatura dei biglietti, le solite discussioni per il peso. Un grammo trasportato per aria attraverso dieci gradi di latitudine costa dieci lire circa. I soliti ritardi per mechanical delay: prima del gran salto la revi- n o a a a i l a l i siorte dei motori, spinta alle estreme delicatezze di una visita clinica. E' difficile pensare al piccolissimo aeroplano nel quale stai per salire, isolato sul Pacifico, sospeso per undici ore e mezzo tra tanto cielo e lant'acqna. E', certo, questo che ti trasporta, il più possente apparecchio da passeggeri. Una conferenza preliminare del comandante ti avrà informato della potenza che ti trasporta, .superiore a quella di un medio incrociatore da baltaglia; avrai imparato, per somma capi, quali mezzi elettronici, astronomici, matematici, radiotelefonici, vengano usati nella cabina del navigatore per seguire e controllare la rotta. Avrai imparato che durante In notte, sino all'atterraggio di Wake, sarai portato, come uno dei Re Magi nel deserto, dal sottil filo d'argento del raggio di Betelgeusa, e il capitano te l'avrà indicata, lassù nello spazio, in fondo al nero firmamento ; saprai che un esile suono elettronico, un capello sonoro tiene al guinzaglio II colossale apparecchio e lo « tira » nell'aria e nell'immensità senza nome dell'Oceano tenebroso, verso Wake, e che un altro controllo, pure questo elettronico, fornito dal radar di bordo, indaga continuamente, spingendo le dita invisibili a migliaia di miglia attorno a te, per segnalarti l'eventuale approccio di tifoni di tornados, di turbamenti dell'aria che qui, nella preistorica enormità del mare diventano catene alpine d'aria pesante, schiacciante, valanghe di « rocce d'aria » dure e terribili. Un confine del Tempo Tu saprai tutto ciò, ma questo non servirà a conciliarti dentro se non un filosofico abbandono alla fatalità. « Se deve accadere... >. Tutti i tuoi compagni di viaggio pensano all'istesso modo. Il nostro pianeta è, adesso, questo aeroplano; le tue necessità non valicano le frontiere della tua persona, anche l'idea dei tuoi affetti e passioni, del tuo mondo, della tua patria e odi e amo ri e ambizioni e speranze, svanisce nella sonnolenta accettazione della cittadinanza volante, alla quale ti sei costretto. Conversi col tuo vicino: « Viene in Americat Si ferma alle Hawaii? ». Non viene in America, non si ferme rà alle Hawaii. Scenderà a Wake. <A Wake? > tu chiedi. «Per che fare?». E' un meteorologo della Società Internazionale per la Marina Mercantile. Si reca « Guam per impiantarvi un ufficio di raccolta di dati sulle tempeste nel centro del Pacifico, Tu lo guardi, questo compagno di viaaffio. E' un giovanotto di ventott'anni, californiano. « Afi toccherà — dice lui — creanni una occupazione, un diversivo, un hob by. Pescherò il pescecane e cercherò giardini di corallo tra le rocce di Guam. Ahimè — aggiunge — sarò solo. Guam è come Wake, la cabina di un faro, isolato nel Pacifico. Provi a guardare sulla carta». Tace, sospira, iiiiiitiififiiii»iitiiiiiiiiiiitiaisaiaiiBiaitBiaiiaaiiti*«ii « Perchè mi mandano a Guam? Stavo così bene a Yokohama. E' stato lei a Yokohama? Ha visto quante belle ragazze. Belle queste giapponesi... Perchè mi mandano a Guam...? » e tace, socchiude gli occhi, sonnecchia. Forse pensa a Yokohama. (A me tutto questo pare umano, tenero, commovente. Piuttosto monotono, anche). Inatteso, alle tre del mattino, il quadro luminoso avverte di tenersi pronti all'atterraggio. L'altoparlante dichiara: « Fra tre minuti saremo a Wake. Ne ripartiremo dopo un'ora e dieci. I passeggeri possono andare al resthouse per rinfrescarsi. Non allontanarsi dalle luci. Grazie ». Son già passate undici ore e mezzo dalla partenza; esse fanno solo un terzo della gran distanza: la prima tappa, Wake; poi le Hawaii, poi la costa della California, Los Angeles, l'America, l'emisfero occidentale, l'Occidente. C'è una linea di confine tirata tra l'Occidente e l'Oriente, una linea precisa, matematica, riconosciuta intemazionalmente. E' la International Date Line, la linea del cambiamento della data. E' un confine del Tempo: la frontiera tra Oggi e Ieri. Ne vedremo le stranezze. L'apparecchio, adesso, rulla su una pista deserta, invasa da pozze di acqua, solitariamente illuminata da fari bianchi. Vedo due o tre torri di controllo, levate nella nerissima notte come pallidi candelieri; l'aeroplano accosta la piazzala dei rifornimenti, e uomini cominciano a saltargli sulle ali, a tentarne le eliche e i motori, a sorvegliarne le ruote, i carrelli, i Timoni. Noi usciamo, nel gran vento caldo del Pacifico, con qualche stupefazione. Così Giona, rivomitato. Si scorgono baracche di legno e di plastilina nel buio della notte; la maggiore ha una veranda con larghe poltrone; vi si dovrebbe guardare l'orizzonte (cioè t'incommensurabile giro delle acque che assediano questa punta di roccia); non vi si vede che la notte, e anche vi si vedono le raffiche di vento caldissimo. Striscia, questo vento, sul pianoro di corallo bianco e solleva come una setosa vela di polvere, dura, stridente; una segatura di diamanti, quasi sonora. < Eccola arrivata », dico al *iBaiiiiiataBiBiitaiai*B«iiiiaai«aiiaii>aiiiaaa mio compagno meteorologo. € Arrivato? dovrò attendere due giorni l'aeroplano per Guam. Ritornerò verso oriente per millecinquecento miglia ». Siede su una delle poltrone. Gli altri sono nel salone della baracca centrale: mangiano, bevono, rimangiano, ribevono, con ossessiva avidità. Penso ch'essa sia un ritorno ai beni e alle cose di questa terra, dopo la lunga inconfessata tensione del volo nella notte. E' un'avidità di naufraghi recuperati; o di gente sicura di andare incontro ad un'altra indefinita sospensione della propria natura terrestre, della < sicurezza» di poter vivere, o più semplicemente del proprio peso, della propria statica. « Dove si incontrarono Truman e Mac Arthur? » chiedo. Gli inservienti, di razza polinesiana e giapponesi mezzo sangue, badano a distribuire bibite e frutta. « Qui di dietro », risponde uno, mescendo caffè da una caffettiera. « Mi può indicare?». « Aspetti un momento », dice e termina di servire tre tazze. Ripone, esce dal banco. « Lei c'èra?» gli chiedo. «Si, ero qui, come al solito, al bar». Intanto siamo venuti fuori della grande baracca, passando per un locale ove si sono riuniti attorno ad una tavola gli ufficiali, le hostesses e lo steward; mangiano e bevono anch'essi avidamente, come tutti. Siamo ancora all'esterno, nel caldissimo vento. « Truman arrivò all'alba con un D.C. 6; Afac Arthur era qui già da undici ore. Gli andò incontro con le mani in tasca. C'era un gran vento come adesso. Tutti e due, soli, entrarono in questa baracca: vi abitava e vi abita un capo-tecnico della Pan American ». « Fumo in faccia » « Posso vederla? ». « Non so dice lui — forse il signor Mac Glay dorme». Invece il signor Mac Glay stava attorno all'apparecchio, approntandolo per la nostra partenza. Entrai. Era dunque quello il luogo dell'incontro tra il CesareTruman e il Pompeo-Mac Arthur, nell'ottobre di due anni fa? In un angolo di quella capanna prefabbricata si leggeva il nome della ditta produttrice <.Quonset Limited». Contro la parete, il lettino ancora disfatto del signor Mac Glay e presso un tavolino pieghevole la sedia di vimini iiaiKiiaBBaaBiaia*a**ai»iBaiiaaiiaBiatBiiaiB>«i*amaBaiBiBin che occupò Mac Arthur e quella di bambù, occupata da Truman. In giro, non una fotografia di quell'incontro che sembrò di « due sovrani di stati diversi, recatisi su un territorio neutro con i rispettivi consiglieri per una conversazione e per guardarsi negli occhi ». Truman e Mac Arthur uscirono dalla casa del signor Mac Glay alle 1,V>, dopo un'ora di colloquio. Sul Pacifico s'apriva, come un grande papavero, la mattinata tropicale. Si diressero sino alla baracca dell'Amministrazione dell'Isola (non la vedo in questo buio) con i loro seguiti: il gruppo Truman formato dal generale Bradley, dall'ambasciatore Frank Pace, ammiraglio Randford, Philip Jessup e Averell Harriman; gruppo Mac Arthur; ambasciatore in Corea, Muccio; brig. generale Courtney Withney. Erano due silenziosi cortei e parevano recarsi ad assistere ad una fucilazione. Mac Arthur cavò la ■ pipa di tasca e chiese a Truman: « Afi permette di fumare, signor Presidente? ». Truman (che non fuma) disse: « lo credo di aver avuto più fumo in faccia che qualunque altro uomo vivente ». Tutti entrarono nella baracca dell'Amministrazione e Truman cavò fuori un'agenda col la- '■ pis attaccato. L'uomo del bar dice: « Recai con tre altri nova fritte e caffelatte per dodici persone, benché fossero dieci. Qualcuno mangiò quattro uova invece di due. Truman partì alle 11 per le Hawaii; e dopo cinque minuti, Mac Arthur per il Giappone ». Per dimenticare Per quanto quel polinesiano del bar non sia in grada di capire quel che sto per dirgli, glielo dico: « Bene, avranno messo una lapide, supponpo, per ricordare questo avvenimento », « Una„. che cos'ai » èhlede ' interdétto l'altro. Io non so esattamente come sia in inglese la parola « lapide ». Ho usato la forma: marble board, tavola di marmo; ma l'altro non capisce. Ricorro a un giro di parole: « Una pietra commemorativa — dico — qualche cosa che somiglia alle lastre di marmo dei cimiteri». < Perchè? E' forse morto il presidente Truman? E' forse morto il generale Mac Arthur? ». « Ma no, ma no, da noi in Europa si usa. Gli avvenimenti sono ricordati anche così, sul marmo con iscrizioni ». « Non avete giornali stampati in Europa? ». E qui il mio indigeno di Wake allarga il gran naso wl volto bruno; un volto di pittura delle caverne. < Non è questo. Anche in Europa si stampano i giornali, come in America e in Giappone. Ma certi fatti di grande importanza, come questo incontro del presidente Truman con il generale Man Arthur, si fermano in tavole di marmo o di pietra, stmiti, poiché le fa piacere, alle tomb-stone dei cimiteri». E dove si mettono? — chiede — per terra? ». « No, no — gli spiego — si mettono dritte sui muri di antichi edifici ». « Sui muri? » chiede lui a se stesso. « Qui — conclude — non vi sono muri ». Siamo ritornati alla baracca del ristorante e il mio meteorologo è sempre lì di fuori, aspettando che passino i due giorni per il suo aeroplano diretto a Guam. « Sono andato a vedere la baracca dell'incontro tra Truman e Mac Arthur », gli dico. Ma lui non risponde, assorto com'è nel disappunto di quell'esilio su uno scoglio fermo a cinquemila chilometri dalla più prossima terra abitata. Mi guardo attorno. Vorrei attaccar discorso con qualcuno e magari incominciare una belio conversazione condita di molta filosofia della storia. Qual luogo per un incontro di protagonisti quest'isola oceanica, quest'infimo punto nell'immensità del Pacifico! Quale potente scenario! Victor Hugo, buon'anima, non avrebbe desiderato di meglio. Attorno non v'è altra gente che i miei compagni di volo, giapponesi delle Hawaii e un paio di cinesi di San Francisco. Essi hanno mangiato e bevuto molto. Un modo di « dimenticare » il lunghissimo volo ancora da compiere sino a Honolulu, seimila chilometri di Pacifico. Soli, in aria, tirati dal filo sonoro del capello elettronico e dal raggio, finché non spunterà l'aurora, della stessa Betelgeusa. Nessuno di quegli orientali sarebbe disposto — scommetto — a sostenere una conversazione sulla storicità dell'incontro fra Truman e Mac Arthur, nell'isola di Wake, in quell'alba di mezzo ottobre dell'anno 'SI. Quanto al mio meteorologo resta qui a smaltire la sua noia e mi ha già detto che « se ne frega » (I dont care...) di Cesare a di Pompeo. Lui vorrebbe Yokohama. (Rientro nell'apparecchio e partiamo da Wake, nella luce sorda della pista. Potrei avere sognato — penso — quest'atterraggio, tra tanto mare tenebroso. Chiudo gli occhi anch'io sperando di smarrire al più presto il senso di cosi irreale realtà). Giovanni Artieri Wake si trova nel Pacifico tra le Marlanne e le Hawai « Perchè mi mandano a mio compagno meteorologo