Fuga in città di Corrado Alvaro

Fuga in città Fuga in città Ci mettemmo a contare gli scalini della casupola: nove; e i bambini che vi stavano seduti: sei. Ci trovavamo alla periferia di Roma, in una contrada che ricordavamo di avere frequentata una diecina d'anni fa, allora quasi deserta, ondeggiante tra cumuli di terra come quelli delle tombe ctruschc a Ccrveteri e a Vcio; e lontano, come ricordi di una vecchia incisione, una macchia d'alberi, una torre medievale, un gruppo di pini ombrelliferi su un rialzo roccioso bucherellato di grotte. Ora non ritrovavamo più quel paesaggio; anche da quella parte Roma era assediata dal mezzo milione di rifugiati, sfollati, dispersi. Nel centro della città si sente poco questa popolazione composita; gli stranieri in visita e in vacanza, che quest'anno affrontarono i torridi mesi di luglio e agosto, fanno macchia, si distinguono subito e perciò il centro della città appare abbastanza uniforme Ma alle antiche porte della città, alla periferia, presso la stazione, quella folla di dispersi è prevalente, sembra arrivata ieri, si è fermata alle mura come un esercito che aspetti di calare nel cuore della città. Qualcuno vi si avventura in avanscoperta. Non si sa come faccia, a vivere l'individuo penetrato in un viale di Villa Borghese con un coperchio di imballaggio da frutta per negozio, in cui si possono contare un sacchetto di arachidi, un cartoccio di semi di zucca, tre tavolette di cioccolata, dodici di gomma da masticare. O un secchio di olive dolci. O un sacchetto di lupini macerati. Non si sa come faccia a vivere ma vive, e senza inquietudini, umano, perfino gentile e benigno. E' il limite del sopportabile. Ma sopporta. Ma sgomenta chi lo guarda. Sulla piazza della periferia, davanti alla porta della città, sembra che tutti i giorni arrivi una folla nuova, coi bambini in braccio, i bambini per mano, i bambini, in gruppo,, i bambini attaccati alle sottane delle donne, a mazzo tra le braccia degli uomini; tra i venditori di cocomeri, i banchi di uva, i cinque 0 sei caffè intorno alla piazza di cui uno è improvvisato in un chiosco sotto un albero, le vecchie osterie. Per sedersi, vi sono anche le soglie delle porte. Sembra la tappa d'una carovana. La folla parla una diecina di dialetti. Mastica e biascica tutta qualche cosa. Si può vivere con molto poco, con troppo poco. Fra tanti frutti della terra, le donne sembrano portare in braccio grossi frutti; sembrano piante con frutti umani che crescono loro da tutte le parti, sani, tenaci. I camioncini e le vecchie automobili che arrivano da tutte le strade della periferia solcano la folla gremiti di gente. . Le vie della città si aprono di là dalla porta, oltre il ponte, come miraggi. Su di esse è puntato l'assedio che si stringe tutti 1 giorni più numeroso. La città è ben vestita, pare tutta vivere facilmente, pare infischiarsi di domani. Il sole al tramonto offre spesso uso spettacolo felice, illumina supremo le sommità dei palazzi, dei campanili, delle cupole; oltre il buio delle vie piombate nell'ombra antica, lo scenario dello sfondo splende dell'oro de! sole. Basta levare gli occhi per essere felici un istante, per scordare dove e come si vive. Non è una città amata, non diventa mai familiare; abituata a tutto, neppure indifferente, ma alta, assente, tollera come ha sempre tollerato pellegrini ed espatriati su questa terra. Nessuno può dire di amarla, e tuttavia vi si sta come in un placato esilio, in cui tutto si può scordare, perfino la nostalgia della natura. Non vi si hanno amici ma compagni di pellegrinaggio. Nulla vi ha valore; anche se appare ricca, non si capisce donde venga la sua ricchezza. Poiché non vi esiste dramma, conflitto, conquista, il teatro mediocre che vi si recita la sera è un dippiù. Poiché tutto è risolto nella provvisorietà della vita terrena, non esiste angoscia né pensiero. Qualcuno vi ha sempre pensato per tutti. Dopo tant; secoli, è di nuovo una capitale da fare. Capita di leggere nei suoi giornali che non sarebbe poi un gran male distruggerla, aprire grandi strade per circolarvi, senza scomodarsi a costruire nuovi quartieri di traffico, nuovi interamente giacche il passato si pensa di abolirlo essendo scomodo. E' una città che da secoli ormai si demolisce; ma da minor tempo non sa ricostruire, inventarsi. Un momento come questo, intermedio della sua vita, di tran sizione come è per tutta la società umana, è pericoloso per la sua esistenza II fatto stesso che si possa parlare con disprezzo di nostalgie culturali a proposito di chi pensa che non sia bene darle un colpo fatale, dimostra una dose troppo forte di rozzezza nella sua consistenza attuale. Costruita male per cinquanta anni, la bruttezza e lo squallore di certi suoi quartieri moderni indica pensieri squallidi. Una parte dei suoi abitanti è fuggita dalle province più povere e disadorne, ignora che cosa significhi una città di tradizione, una citI tà che non appartiene a nessu( no, di cui si è ridotti a fare i I custodi, jhe non si è arricchita | nel suo patrimonio morale, se ] mai impoverita, che è patrimonio del mondo civile. Si scambia facilmente la vecchiaia con la decrepitezza, la tradizione con la sporcizia, l'arte con la scomodità, e il nuovo a ogni costo col progresso Presso certe menti primitive, il nuovo è il progresso, il vecchio la povertà; il lustro è il bello, il dimesso e il t fspsvisssQrlafamiliare, il brutto. Esse fuggono la povertà e l'angustia, e nella loro poca esperienza trovano conforto nella carta stampata che li conferma nel rancore contro la cultura, cioè contro la tradizione. In questi anni di mcticciato, per Roma occorre fare attenzione. Le sue classi sono in trasformazione, l'inserimento degli elementi nuovi è continuo e caotico. La cultura non vi ha nessuna funzione, mentre l'avidità ne ha anche troppa. E' una capitale che si va formando. La sua consistenza apparirà quando la provincia potrà contenere la maggior parte della sua popolazione e non la costringerà ad andare raminga alla ventura nelle grandi città dove qualunque condizione appare facile, preferibile sempre alla condizione marginale della provincia impoverita. Ma intanto questa massa è informe, è mutevole, ha tutta l'aria del provvisorio. Con tutto il suo seriissimo scenario, Roma ha l'aria di una città di fresca formazione in qualche luogo di America. Lasciamo passare. una srenerazionc almeno, prima di decretarne il destino. La specu'azione moderna non ci darebbe neppure una città come la Parigi di Napoleone 111, brutta, ma limono riccamente distesa in uno spazio imponente; la Parigi che conserva come tesori i vecchi quartieri non toccati allora lai piccone perchè periferici. Contavamo i sei ragazzi seduti sugli scalini della casupola fuori di porta. Si aprono là villaggi simili a quelli di qualche luogo terremotato dell'Italia meridionale; sembrano ricostruiti per qualche fiera o mostra commemorativa delle condizioni della provincia italiana in un tempo remoto. Senza andare tanto lontano, qui si può avere un'immagine di certe condizioni di vita. I bambini sono in genere piuttosto beli e sani nelle casupole costruite sul ciglio della strada coi più eterogenei materiali. Non si finisce di contare i ragazzi, sbucano da tutte le parti, sono aggrappati dovunque, con quell'aria avida di tutto e non rassegnata, del bambino povero d'oggi. E' un tratto nuovo dell'infanzia, e dell'adolescenza. Sto per dire che è il segno nuovo della vita italiana, il tratto caratteristico della sovrapopolazionc. I ragazzi d'oggi si rendono conto subito della loro condizione, non hanno illusioni, non vivono in quella specie di poetica povertà che era un carattere comune della società povera d'un tempo. Sarà forse lo atteggiamento colpevole dei genitori a determinare questo nuovo stato d'animo; una colpevolezza non personale, non diretta, ma collettiva; un impulso a chiedere quasi scusa ai ragazzi, scusa della vita. Si reputano deboli, non resistenti alle delusioni, ai dispiaceri, ai dolori, alla lotta. Si dà loro un diritto alla felicità che si è negata a sé stessi. Ieri, essere' IT II1111111111111111 111111111 ! 11111 ■ 1111111111111111 II felici era nella possibilità della sorte, non una premessa e un patto con la vita. In un certo senso, era la riuscita che contava, il raggiungimento del proprio ideale e del proprio benessere, senza nascondersi la lotta e lo sforzo che richiedeva l'impresa. Oggi, la felicità è un diritto che si acquista venendo al mondo. Questo è il fatto nuovo della morale di oggi, che sconvolge tutto un modo d'essere. E i ragazzi, i giovani, hanno l'aria di - domandarvi che cosa avete fatto, come avete amministrato la loro eredità, vi chiedono ragione della vita stessa. Di certi ragazzi poveri è difficile sostenere lo sguardo. E noi stessi ci sorprendiamo a contare i bambini sulla soglia della casupola, e ci accorgiamo appena della loro povera innocenza, dèlia grazia che un tempo ci sedusse, della speranza che rappresentava la loro presenza; ci basta contarli c<»me un esercito che avanza. I sei ragazzi sugli scalini non aspettano un sorriso dai passanti che si sono fermati a guardarli e che notano soltanto che sono belli e sani, che devono essere nati a distanza di un anno l'uno dall'altro. Dove è l'immagine augusta della madre col fanciullo che fu il segreto di un'intera civiltà? La madre si affaccia sulla porta e chiama a se i bambini come una belva che si mette in istato di difesa. Corrado Alvaro

Luoghi citati: America, Italia, Parigi, Roma, Vcio