L'orrenda strage di Schio alla Corte d'Assise di Milano

L'orrenda strage di Schio alla Corte d'Assise di Milano L'orrenda strage di Schio alla Corte d'Assise di Milano Ammassate nelle celle, 54 persone furono uccise a colpi di mitra - Il processo viene ripetuto contro otto imputati, di cui però uno solo sarà presente • Gravi elementi emersi in istruttoria Milano, 25 settembre. Davanti ai giudici della prima Sezione della Corte d'Assise di primo grado, presieduta dal consigliere dottor Maccone, rappresentante della pubblica accusa il dottor De Matteo, l'implacabile accusatore di Caterina Fort, sarà celebrato il 2 ottobre prossimo per legittima suspicione, uno dei più gravi processi del dopoguerra. Imputati sono gli autori dell'efferata strage di Schio, avvenuta la notte sul 7 luglio '45. Luogo della tragedia gli androni delle carceri locali. Vittime un gruppo di detenuti politici, ex-brigatisti neri, funzionari del fascismo repubblichino, appartenenti alle organizzazioni di Salò. In tutto 91 persone tra uomini e donne. L'atroce episodio Poco dopo la mezzanotte del 6, riusciti a impadronirsi delle chiavi delle prigioni, dopo avere legato il custode e sua moglie, una decina di giovani partigiani armati di mitra fecero irruzione nel carcere, ammassarono 1 detenuti maschi in una cella del primo piano, le donne in un'altra cella del secondo piano, aprendo su di essi 11 fuoco: le scariche risuonarono fra le urla disperate dei prigionieri, per quattro minuti. Poi il silenzio tornò sul buio iiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiimiiiiD carcere, appena interrotto dai gemiti e dallo strazio dei sopravvissuti. La carneficina si era conclusa con un raccapricciante bilancio: 54 cadaveri tra cui quindici donne, tredici feriti gravi e due leggeri. Otto soltanto sfuggirono alla spaventosa sventagliata di piombo e di fuoco: erano coloro che la sorte aveva fatto trovare addossati al muro della cella: alla prima raffica si erano gettati a terra, bocconi, ed i corpi di quelli che stavano loro davanti li avevano protetti. Un brivido di orrore corse per la cittadina veneta appena la notizia dell'eccidio fu resa pubblica, e un'ondata di sdegno si levò in tutta Italia. Da ogni parte fu chiesta la punizione dei colpevoli, e una rigorosa inchiesta fu subito aperta soprattutto per appurare le cause che avevano indotto un gruppo di giovani patrioti a rendersi responsabili di un cosi orrendo massacro. Numerosi arresti furono operati dalla polizia alleata: sette vennero pochi giorni dopo catturati e rinviati a giudizio della Corte militare alleata: Valentino Bortoloso, detto Teppa, Antonio Fochesato, Aldo Santacaterina, Gaetano Canova, Renzo Franceschini detto /) guastatore, Ermenegildo De Rizza e Luigi Losco. Con sentenza 13 settembre 1945 Bortoloso, Fochesato e Franceschini furono condannati a morte, pena commutata poi nell'ergastolo, come all'ergastolo furono condannati il Santacaterina e il Canova, mentre De Rizza e Losco furono assolti per insufficienza di prove. In tal modo si concluse il primo capitolo della fosca vicenda. Ma l'inchiesta delle autorità militari alleate aveva rivelato gravi responsabilità anche nei confronti di altri individui che non poterono essere giudicati, in quanto la legge inglese non prevede il giudizio contro i contumaci. Questi erano otto, anch'essi partigiani, e appena fu restaurata la legge italiana la nostra Magistratura ordinò che anche contro costoro fosse aperta istruttoria formale. Sono stati necessari sei anni per concluderla, e con scarso esito, poiché uno solo degl'imputati è caduto nelle mani della giustizia, il 33enne Ruggero Maltauro, detto Attila, il solo imputato che giovedì 2 ottobre sarà presente nella gabbia. Gli altri, però tutti identificati, saranno ugualmente giudicati. Essi sono: Giovanni Broccardo, di 30 a., detto R.T.; Italo Ciscato, di 29 anni, detto Gandhi; Narciso Manca, di 28 anni, detto Aquila Nera; Andrea Bruno Micheletto, di 28 anni, detto Brocchetta; Gaetano Pegoraro, di 50 anni, detto Nello; 11 coetaneo Igino Piva, detto Romero; e il 27enne Bruno Scortegagna, detto Terribile. Il Maltauro ha reso ampie dichiarazioni, ma si è sempre mantenuto negativo, limitandosi ad ammettere di aver avuto dal Piva e dal Pegoraro proposte per partecipare al criml.ioso episodio, ma di averle respinte. Due fpfti co-r>'"Ui sono però emersi durante la labo- dosa istruttoria del processo, e che al dibattito di Milano potranno recare non poca luce sul truce misfatto. Il primo è questo: al giudice istruttore il Maltauro ha confermato che la prima idea dell'eccidio di Schio maturò nella mente di alcuni congiunti di prigionieri del campo di concentramento di Bolzano, che non poterono fare ritorno perchè trovati uccisi. Il proposito di vendetta esplose violentissimo 11 giorno in cui, appunto di ritorno da Bolzano, un gruppo di membri del C.L.N. riferì che quei prigionieri erano stati uccisi durante una esecuzione in massa operata pochi giorni prima dai fascisti della città alto-atesina. I maggiori responsabili Questo tragico annuncio prò vocò un vivo fermento fra la popolazione di Schio, e i congiunti delle vittime ebbero, naturalmente, parole di profonda esecrazione: bisognava vendicare I patrioti assassinati. Occorre tener presente che allora molti fra ì più accesi elementi del movimento partigiano erano entrati a far parte della locale polizia ausiliare, comandata appunto dal Maltauro, e tutti disponevano di armi e munizioni di ogni specie. Il se condo fatto è questo: i due maggiori responsabili dell'eccidio sarebbero il Piva, segnalato in Ungheria e poi In Cecoslovacchia, ed il Pegoraro, pure latitante. Entrambi avevano avvertito il Maltauro dell'intenzione di dare l'assalto al carcere il 26 giugno, cioè due settimane prima della strage; e seguendo il piano architettato appunto dal Piva, l'pttacco doveva avvenire a colpi di bombe a mano. Non era stata dunque prevista l'esecuzione In massa con '.a tucilazione, ma una pioggia di bombe, dì tubi di gelatina e di cariche di dinamite, che avrebbe dovuto far saltare le celle con tutti 1 prigionieri. La cattura del Maltauro avvenne, come a suo tempo si è data notizia, quando costui dovette lasciare il territorio jugoslavo dove aveva trovato rifugio, in seguito al mutamento dei rapporti tra la Jugoslavia e il Cominform. Varie famiglie delle vittime si sono costituite parte civile. Il collegio di difesa è composto di una diecina di avvocati, e il numero del testimoni supera il centinaio. Il processo durerà una ventina di giorni.