Il diario di Pavese

Il diario di Pavese Il diario di Pavese E adesso, avremmo voluto non parlar più di donne e di amori, bensì cercar di vedere perchè Cesare Pavese sia diventato il simbolo di una generazione, che in lui si specchia e a lui si volge. « Della tua morte non possiamo liberarci... — Sconteremo la tua morte vivendo — Umiliati dal tuo schiaffo d'addio... — O tutto o niente. La nostra razza — Non conosce che' queste parole » canta per esempio Mario Genta in Oltre il limite (Torino, ed. Polymnia, 1952) e altri ancora chiedono, ansiosi e pensosi, la rivelazione del mistero, respingono o sdegnano le spiegazioni biografiche, puntando su quelle ideologiche. A tutti costoro, e ai sempre folti e nuovi lettori dell'opera, Il mestiere di vivere (Ed. Einaudi) ossia il diario che Pavese tenne dal 1935 al 1950, porta oggi una risposta. L'anonimo curatore dichiara che il manoscritto originale viene stampato « quasi integralmente, perchè alcuni pochi tagli s'imponevano là dove il contenuto era troppo intimo e scottante, e dove si trattava di questioni private di persone viventi ». I nomi, e i brani soppressi, agli amici i quali — come accennai qui il 2 gennaio — avevano potuto abbozzare una prima ricostruzione, non sembrano oggi essenzialissimi. La parabola rimane quella che — nonostante le ingenue proteste e le interessate reazioni — già sommariamente delineammo. // mestiere di vivere ci consente però di approfondirne il significato, e di conoscerne i particolari. « Il mio principio è il suicidio », si legge subito nel diario. E Lavorare. stanca, il volume che ne costituisce il preludio e raccoglie le confessioni poetiche, e ch'è del 1936, già diceva degli Amenati: «Siamo pieni di vizi, di ticchi, di orrori — Noi, gli uomini, i padri — qualcuno si è ucciso, — Ma una sola vergogna non ci ha mai toccato, — Non saremo mai donne, mai schiavi a nessuno ». Per quanto questo tasto sia ingrato, bisogna pur dire che il proposito, la tentazione del suicidio, il gorgo finale, balenano frequenti nel Mestiere di vivere: solo durante qualche tempo in cui Pavese è assorbito dalla fatica, non se ne trova traccia, ma come quei fiumi disseccati dove a tratti affiorano acque da sotterranee correnti, all'improvviso, il desiderio della morte riappare, incalza, trionfa: « Non parole. Un gesto ». Lo stesso accade per le due grandi passioni: l'ultima, ripeterà la prima, la cui intensità aveva scosso e travolto per anni ed anni questo misogino, strappandogli grida commoventi, distogliendolo dal lavoro, isolandolo dalla vita: «Conosco uno sciocco che ha rifiutato d'imparare in giovinezza le regole del gioco, perduto dietro chimere, e ora le chimere sfumano, e il gioco lo stritola ». Pavese, come attesta // mestiere di vivere (e per me è la parte più nuova, la vera rivelazione del diario) giunse a macerarsi senza posa, lucidissimamente comprendendo che il lungo periodo di rovello, malinconia, delusione, gli tagliava le ali, lo faceva restar indietro dai compagni più disinvolti, precoci e costruttivi, lo rendeva morbosamente schiavo del sesso La nevrastenia sessuale, e il conseguente sentimentalismo cupo e disperato, lo afferrano allora: non se ne libererà più. Ha un bell'usar parole grosse, cercar derivativi e spiegazioni: la Phisiologie de l'amour moderne lo attanaglia, e mi spiegò perchè egli volle e accettò, verso il termine della sua carriera editoriale, la versione dell'omonimo libro di Paul Bourget che gli proponevo di curare, e di cui si attende tuttora la stam pa. Odio ed amore, amore e morte, una gelosia che gli fa citare la Ballata dal carcere di Reading di VVilde («...We ali kill the thing we love...») si mescolano di continuo coi ricordi di un'infanzia timida, paurosa, infelice, lo avvolgono in una solitudine da cui di rado e difficilmente si districherà. Riaprite, come ho fatto io, Lavorare stanca: «un poeta si compiace di sprofondarsi in uno stato d'animo, e se lo gode». La materia autobiografica diventa, lentamente e faticosamente poesia, e poi sarà prosa d'arte: Paesi tuoi, La spiaggia, Ferie d'agosto. Senonchè, Pavese è segnato per sempre Quanti desideri di donne, progetti di matrimonio; quante aspirazioni alla vita normale, alla esistenza comune! Dal suo osservatorio di celibe, un celibe che non è libertino, che non è epicureo, contempla le coppie altrui, si compiace con amarezza, dello spettacolo del disaccordo fra i sessi, del combattimento perpetuo fra il maschio e la femmina (Par di sentire, nell'orecchio, i versi di De Vigny : « Une Iurte ctcrnelle. en tout temps, en tout lieu.. »). Pei lui, 1 arte e vita sessuale naicono sullo stesso ceppo », e le difficoltà di soddisfarsi appieno li ripercuotono sulla creazione Nondimeno, la sua terra lo salva, lo rimette in cammino. Molto egli dovrà alle native Langhe, moltissimo a Torino, celebrata « città delle fantasticherie, sdittAssmTqSDerRmlntddrpnèrgaptst«esmiulgiprqcmpsrnngzlsseTs e o , città della regola, città della passione, città dell'ironia, città esemplare, città vergine in arte », e proclamata « amante e non madre ne sorella ». Fonte della sua ispirazione, ne ricorderà quartieri, viali, caffè, albe e tramonti, prati e colline, ne farà la sua America. E gli scrittori di quest'ultima saranno i suoi primi maestri, assieme a Balzac, Baudelaire, a uno Stendhal affiancato a Hemingway, al D. H. Lawrence di The woman who rode aviay, a Verga Più tardi, verranno i quattro grandi: Platone, Dante, Shakespeare (e gli elisabettiani), Dostojevskij; ripudierà Flaubert e Guerra e pace, adorerà Omero, leggerà Vico, Foscolo e Rousseau, schiferà la scuola romana, scegliendo il Piemonte, e la Sicilia del suo Vittorini. E negli ultimi anni, sarà affascinato dal primitivismo barbarico, dai miti del sangue e dallo studio del selvaggio, da cui nasceranno i Dialoghi con Leticò. Capitale con Lavorare stane», per lo studio della sua formazione letteraria, // mestiere di vivere è un ponte fra due grandi amori. E ragionandovi sopra, indugiando sugli sfoghi, seguendo le analisi, si arriva nel 1946 alla ripresa del tema tragico: «Il vuoto non è più supplito da nessuna scintilla vitale ». Ossia, raggiunto il successo, Pavese constata: « So bene che più in là non andrò e ormai tutto è detto ». E presto si accorge che il tentativo di comunicare col popolo, militando in un partito, sta fallendo: ha un bel battersi i fianchi, schernir la « libertà » dei liberali borghesi, gli mancano l'ostinato fanatismo, i paraocchi che sono il presupposto della missione e della carriera politica. Solo più tardi, quando ormai sull'orizzonte gli si addenseranno le tenebre, la politica tornerà ad essergli presente : temerà il conflitto, lo sentirà così prossimo da fargli pensare di rispedire in America la Venere « venutagli dal mare », giudicherà, il 21 marzo 1950 una: «giornata dura. Situazione internazionale, situazione italiana di latente guerra civile, voci varie di reazione atomica a catena per aprile »; sarà vittima di una angoscia diffusa e intensa, di una responsabilità che « lo schiaccia ». Che cosa lo trascinava alla deriva proprio quando la vecchia piaga del primo amore sembrava stesse cicatrizzandosi, la sua potenza di scrittore veniva riconosciuta dai « grandi cerimonieri » della critica, compiacenze e vanità romane 16 distraevano, recandogli altresì il profumo e la poesia di « un'elegante, incredibilmente dolce e flessibile primavera, fresca e sfuggente, corrotta e buona »? Una ragazza, « una normale ragazza » d'oltre Oceano era apparsa, sconvolgendolo « dai profondo del cuore ». Notti di Torino, notti di Cervinia, e poi: « Ci siamo, tutto crolla »; il « cancro segreto » s'è risvegliato : « Lo stoicismo è il suicidio ». Le ultime pagine del Mestière di vivere sono di una drammaticità senza pari, con la donna « venuta dal mare », poi tornata in patria, la consolatrice romana, l'incubo della guerra, la domanda: «Perchè morire? Non sono mai stato vivo come ora, così adolescente », il tentativo di una via d'uscita: «Chiodo schiaccia chiodo. Ma quattro chiodi fanno una croce », il testamento morale : « La mia parte pubblica l'ho fatta, — ciò che potevo. Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti » Mi ero detto, aprendo // mestiere di vivere, evitiamo le donne e gli amori. Ahimè, il libro è popolato di donne, intriso di amore. E Pavese, al mestiere di vivere è passato vicino, e non s'è accorto della chiave magica, del segreto: «La forza dell'indifferenza! — è quella che ha permesso alle pietre di durare immu tate per milioni d'anni ». E' entrato quindi inconscio in un mon do romantico nel quale è rimasto sino alla fine, al fatale epilogo Soltanto, il suo romanticismo ha spiegazioni fisiologiche oltreché sentimentali, e quando leggiamo: « Se ti è andata male con lei che era tutto il tuo sogno, con chi mai ti potrà andare bene? » pensiamo a un manuale di erotolngia, anziché a Jacopo Ortis Moralista acre ed acuto, lettore assiduo di Leopardi, è mancato a Pavese il razionalismo settecentesco dell'autore dello Zibaldone e delle Operette, la sua disperata calma fantastica Nel tentativo di veder chiaro in sé di rendersi conto di ciò che ^li accadeva, s'è avviluppato in una rete di ragionamenti, immerso in un mare di sensazioni, ingegnato a trovar spiegazioni fisiologiche, filosofiche e magari politiche; e per la generazione che l'accompagnò e lo segue, complicata, problemistica, esitante, malata del suo stesso male, questa è la grande attrattiva dell'opera di Pavese, che essa riconosce fratello Noi che, pur incuriosendoci della psicologia dello scrittore e dei suoi personaggi, ne apprezziamo soprattutto la poesia, preferiamo vederlo con la semplicità con cui ci apparve, ricordar l'immagine di una giovinezza e di un destino a cui per pochi anni di distanza siamo riusciti a sfuggire Gli avevano detto — narra nel Mestiere di vivere —, ch'era « un pagano»^ la risposta fu: «No, uno stoico ». E lo provò. Arrigo CajumI Fa

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