Il Carducci al tempo di Ça ira

Il Carducci al tempo di Ça ira Il Carducci al tempo di Ça ira Lettere d'amore, oramai, nell'epistolario del Carducci (siamo arrivati al XIV volume: 1882-84) non se ne trovan più, e discendiamo a un clima più calmo, eguale e quasi monotono. Lidia è con i morti e con lei la passione che fa bella e dolcemente irragionevole la vita di tutti i giorni. Di amore non si parla (anzi! «ih sono in un periodo antiafrodisiaco »: luglio dcll'83), non si sogna e non si scrive. La bellissima poesia Era un giorno di festa, e luglio ardea — con la affascinante immagine della misteriosa giovane pregante nell'antica chiesa lombarda, nero lo sguardo luminoso di una lagrima, all'ombra piumata di un nero cappello — non è che una <c vecchia poesia » dell'anno avanti riclaborata per l'amico Guido Mazzoni; i versicoli a Delia (del 22 aprile '83), velame classico del «romantico nome » Adele, e cioè la Bergamini, l'amica romana, son poco più che una galanteria. Niente amore. Lo vedevano, sì, in Roma al braccio della formosa bellezza; non eran che gusti passeggeri. E il Carducci aveva anche il coraggio di scriverle: «Addio. Vi saluto con quel sottilissimo filo di affetto che mi può rimanere per i fenomeni chimici dell'esistenza ». Anche la reverenza verso ìa delicata marchesa Dafne Gargiolli, l'amica di Verona alla quale ora apriva l'animo, aveva dell'idillio platonico. Dolce come un pastello, il breve madrigale Vere novoi a Lalage, è una réverie di primavera. E il Poeta era ingrassato del corpo, e immalinconito, ma non aveva ancora cinquantanni: certi fuochi tuttavia non avvampano due volte nella vita, o quando si ridestano danno una felicità autunnale. L'amore era tornato qualcosa d'inconcrcto, un desiderio dell'animo proteso verso ideali nobili e consolanti, tutt'uno con il sentimento della poesia. Chiedeva il Carducci volgendosi alla fida masnada di giovani allievi e particolarmente a Severino, « serenissimo ingegno », il Ferrari autore del Mago: « Biancofiore ov'c? ». Chi era Biancofiore, se non colei che è beata dentro una sestina del Petrarca, spirito senza corpo, nome antico e gentile dato ai vaghi fantasmi della poesia, la poesia stessa dunque, amore vero che ride degli amori vani? I versi a Severino sono del i° aprile '84; segnano il termine quasi ultimo di questo volume. Quel che c'è qui dentro è ora la solita vita misurata del poeta e del professore, del personaggio ufficiale e del brav'uomo privato. Anche la ventata per Roma è lievemente sul declino. In cima a tutti i desideri torna, o resta Bologna. « Qui a Bologna mi lasciano vivere tranquillo in una perfetta solitudine »; « io ormai non so staccarmi dalla vecchia Bologna». Non vorrebbe esserci sepolto — « mi brucerete proprio sul mar toscano, o sotto la torre di San Vincenzo, o presso Orbetcllo; e poi le ceneri gittcrcte nel mare » — ma viverci e lavorare, con i suoi fidi intorno, sì. Per tutti gli altri non ha che scherno: per i « lombardotti » (sbufferà col Sommaruga: « La finiscano un po' con quella contessa Lara che comincia ad esser noiosa: già, basta dire che piace a Milano»), per i « tarcagnotti » piemontesi (a Torino verrà eccezionalmente, invitato dal Giacosa, al tempo della I* Esposizione; e ci sarà nel gran pubblico che l'applaude anche il Verdi), e sdegno violentissimo contro i fiorentini. Altri suoi rifugi son Desenzano e Verona, per via dei Gargiolli, Livorno, per il Chiarini, Lendinara, per l'altra sua amicizia coi Mario, e la campagna della Maulina, in estate, a tre miglia da Lucca, godendo della famiglia, dei nipotini che crescevano, e della « repubblicana semplicità di costume lucchese antico ». Ma son pause brevi. E la sua vera vita, torniamo a dire, è di nuovo e più saldamente nella città' Jel suo lavoro. Esami, lezioni e intanto uno sguardo paterno al fratello Valfredo, ch'è bravo e modesto, e alla brigata di allievi amici, i « goliardi », e Severino e il Brilli, il Ricci, il Pascoli, il Lodi, il Picciola, coi quali si mescola a scherzare con un abbandono ch'è proprio degli uomini maturi che han bisogno di molto affetto e son selvatici, ma che poi segue negli studi, nei concorsi, nelle cattedre, persino nei contratti con gli editori, mai stanco di guidarli e raccomandarli. E poi i propri lavori, i propri, non lauti, non facili guadagni, e i debitucci. da povero. E sempre a sollecitare gli editori, con puntiglio, con esattezza, ma anche con un garbo timido che rivela l'impratico e, in fondo, il disinteressato. Passano nelle sue lettere le piccole compiacenze dell'uomo semplice: ricordi e grazie delle bottiglie di vernaccia e di vin Presciano, e di brachetto, e « quel barolo in viaggio » e il « Centerbe è buono », buono il Gorgonzola, e i « beccaccini stupendi »; e i giochi a scopa o all'uomo nero. E' un Carducci che conosciamo, anche questo; ma qui, in queste carte, proprio le inezie acquistano un valore di verità umana che s'illumina di confidenza e di simpatia. (E ora una lunga parentesi, per affermare che si sente l'impazienza che queste lettere rendano tutto il loro servigio all'opera del Poeta, come ha già detto ampiamente il De Robertis in una «lettera aperta alla casa Zanichelli», pubblicata nel primo numero dell'approdo, rivista della Radio italiana. La lettura di questo epistolario convince che un libro sulla vita e un commento all'opera del Carducci sono ancora da scrivere. Vi sono qui pagine attraentissime:. quelle, già note, sulla mu¬ sica di Wagner, quelle altre coi giudizi, da grande esperto, sul Foscolo o sul Barctti, o su minori, come il Gabelli — l'avrebbe citato volentieri il Vinciguerra quando ristampò tre anni fa il bellissimo Roma e i romani — e su giovani dai quali spera molto, il Salvadori e lo Scarfoglio, 0 lo scapaccione al Coppet, « vii rimatore da cocottes ». « In Francia dopo V. Hugo e salvo il Lccontc de Lisle, non c'è poesia ». Sul Carducci e la « Bizantina » ce n'è per un capitolo, e in parte è stato sfruttato. A Mario Praz che ha scritto sulla maestra di inglese e sull'inglese del Carducci segnalo, se occorre, l'ammirazione per il Corvo di Poe, ma tradotto dal Nencioni, e più grande ancora, in una lettera deU'8t, il rapimento per Whitman, letto e tradotto con l'aiuto di un suo primo insegnante. Infine, mi limito a ricordare ch'egli chiama bellamente il giovinetto D'Annunzio « cotesto mestichiere'», perchè Venere d'acqua dolce lo ha portato dalla diffidenza alla aperta condanna). Ma tra una lettera scherzosa e una sfuriata da uomo « più trite e ombroso e selvatico del .-.olito », con tutti gli elenchi delle sue fatiche giornaliere, ecco far capolino con molta semplicità e come di sfuggita certi annunci: caro Ferdinando, eccoti de' versi (al Martini); Angelino (al Sommaruga), eccole un sonetto, «si contenti d'un Sonettino bellino ». E qualche volta si tratta persino di poesie che non seziverà mai. Ma, preannunciate o no dalle lettere, le poesie di quegli anni s'intitolano, per citarne alcune. Visione e San Martino e La leggenda di Teodorico.' E vien cominciato il Canto di marzo. E non metteremo fra le pagine poetiche almeno Le " Risorse " di Sa?i Miniato? Ed ecco il 6 marzo dcll'83, bussando a denari con l'Angelino, gli annuncia : « Mi son rimesso a far sonetti. Ho cominciato una serie. Saranno dieci legati insieme, sul settembre 1792 in Francia». (La ispirazione, là prima e dominante, anche « nel più umile significato », gli è venuta dalla Storia della Rivoluzione francese del Carlyle che, troviamo nei suoi appunti, ha cominciato a leggere il 31 gennaio dcll'82). E il 5 aprile a Severino dirà « ne fo una dozzina » e: « vuol sentir la Principessa di Lamballe? ». Gemono 1 rivi e mormorano i venti... Il primo che scrive e manda e che metterà poi ottavo nella serie. Il 10 ne invia quattro al Chiarini e parla ancora di dicci in tutto Ma il 12 al Sommaruga dà nolizia: «I settembrini sono pervenuti al numero di nove. Spero di portarli tutti a Roma. Non più di dodici ». Il 14 ne aggiunge uno: Udite, udite, o cittadini, ieri - Verdun a V'inimico aprì le porte. Il 25 e il 27 aprile scrive in Roma il settimo e il decimo dei sonetti. II 9 maggio, da Bologna al Chiarini : « Qa ira uscirà domani »; e il 19 già chiede all'editore: «Come va Ca ira? ». 11 libro è in giro nell'edizione arabescata del Sommaruga. E cominciano le polemiche. « Si fanno dodici sonetti innocenti. E i corpi dello stato e il quarto potere scoprono che minacciano le istituzioni ». Allora a Qa ira in versi succede il Ca ira in prosa, tra il luglio e il novembre dell'Si. «Dunque anche una volta difendiamoci... ». Sas tii d'ai è fon? gli aveva detto il buon Lessona di quella « diavoleria ». « Sì. fu proprio forte, o Michele Lessema ». E giù tutta una professione di fede letteraria e storica e politica, con i suoi soliti slarghi lirici e lc^suc scorticate feroci. I sohettrtìel Qa ira non sono che « visioni », « esposizione fantastica » di un momento storico, ma dentro c'è anche tutto il moralismo politico del Carducci, c'è il suo sdegno virulento del presente, il fastidio e lo schifo della gente sulla quale sognava di sputare un giorno ancor morto, l'amarezza per il trasformismo il progresso e il fango cHe sale (l'aveva detto ai giudici del processo per la sua partecipazione ai fermenti suscitati dall'eccidio di Oberdan), il sarcasmo per Michelaccio, divenuto eroe degl'italiani; c'è il pj esentimento e la paura del de malo in peius. nvs-sarpvcmrccemCprtplin•"011MIII1111111111111111111111111111111111111111111111111111 Nell'ode Alessandria di un anno prima aveva avvertito: Ahi vecchia Europa, che su V mondo spargi - l'irrequieta debolezza tua, - come la triste fisa a l'oriente sfinge sorride! Ma c'è anche un anelito di riscatto, un bisogno di rinnovazione, del « turbine ■ che purifichi », benché su di una < ivoluzione non riesca ad essere che pessimista e restio e confuso. Così dunque, ancora e duramente, tra gli amici che gli morivano (Alberto Mario), i grandi che sparivano, anche se a lui non congeniali, il De Sanctis, il Prati, e già vicino ad avvertire il primo sintomo del male fisico, il Carducci combatte ancora nella pienezza della vita, anche se nel rifugio dell'anima sospira e fantastica la bellezza che è solo nel passato, la verità che è solo nella morte, come starà per incidere in un duraturo verso, presso l'urna di Shelley. Franco Antonicelli • ì < 1 ■ 111111 i ! 11J1111111 ! 11111 ■ 111111111111 [ 11111111111 ! IL11