Tra poeti e pittori di Giovanni Artieri

Tra poeti e pittori Tra poeti e pittori Ogni fine mese portava il nuovo nume: di Sakura, su al Mezzogiorno, in quelle riunioni vespertine di poeti e pittori, affondate per le radici nel vecchio Ottocento, ma ricche di linfe nuove e germogli recenti. Si discuteva furiosamente, allora, quella poesia giapponese cosi antica c così nuova, introdotta dallo Shimoi e tra i disputanti figurava Francesco Cangiuìlo. /'enfant terrible del futurismo, allora ancora incerto tra poesia e pittura. Cangiuìlo contribuiva alla terza pagina del giornale con prose poetiche più placate e cònsone degli esempi di parossismi lirici del tempo di Marinetti. Era anche lui scivolato dalla febbre futurista in una specie di delicato crepuscolare impressionismo che, guarda caso, travasava in brevissimi poemetti, simili se non uguali agli haiku e alle tanka del vecchio Giappone, come certe greguerias di Ramon Gomez de la Serna; sebbene poi le liriche giapponesi vadano sempre al di là della pura parvenza e restino, le più belle, sospese a fior dell'anima con un incantamento strano, impossibile a imitarsi. Ma Cangiuìlo, incaponito e geloso, apostrofava Shimoi crudamente in quei pomeriggi che il professore veniva a leggere le cose più succose e intense, tradotte per noi. «Scimò — gridava Cangiuìlo — qui la poesia giapponese l'abbiamo fatta prima di voi*. E l'altro stupiva, poiché anche se molto napoletanizzato era pur sempre un giapponese e. non riusciva a rendersi con- I lo come. Cangiuìlo avesse po- i tuto scrivere prima, poesie che al suo paese erano state, dipinte su seta, circa duemila anni fa. Ma Cangiuìlo ribat- | teva osservando che il suo Sifone d'oro valeva bene un haiku o una tanka e lo declamava: Sole, traguardo di aviatori... Sifone d'oro al seltz... Con D'Annunzio non andava diversamente — mi racconta, adesso, Shimoi ■— si libene il Poeta mostrasse una maggiore reverenza per le forme della lirica orientale. I A Fiume aveva lasciato intendere al suo stato maggiore e alla truppa di conoscere j la lingua giapponese c non si i dice quanto quest'altra prodigiosa virtù aumentasse la idolatria dei legionari. < Parla anche giapponese con il capitano Shimoi*, dicevano. Alla mensa, poi, nel Palazzo del Governo di Fiume, a fin di tavola D'Annunzio si levava e invitando Shimoi a recitare antiche tanka diceva: < Adesso il "fratello" Haruchichi Shimoi dirà alcune poesie nella lingua della sua Patria ed io le tradurrò in italiano, per voi*. Shimoi si prestava al gioco e levandosi, declamava sillabe armoniose ma prive di significato. D'Annunzio stava lì ad ascoltare attentissimo, come a penetrarne l'esatto significato, poi si levava a suri volta e < traduceva *: cioè improvvisava, spesso bellissime imitazioni di liriche nipponiche e una di queste, poi, volle scritta al Vittoriale presso a un pozzo e a una grande rosa rampicante (quelle che da noi si chiamano, appunto, rose del Giappone). Shimoi la ricorda male e si sforza, chiudendo gli occhi di ritradurla per me che desidero annotarla. Dice: Come posso irrorarti o rosa rampicante, se ti attorcigli alla corda del pozzo? Che è, nello spirito e, quasi, nella forma un haiku autentico. Il piatto per la testa Eia — com'è noto — questo dell'imitazione un gioco tutto dannunziano, gli piaceva e non so quanti poemetti giapponesi improvvisò che Shimoi — allora giovane, poeta e giapponese per di più — lascio cadere come i petali del ciliegio <che non ritornano più al ramo*. Forse D'Annunzio per quel suo volere superare ogni altro, pensava di far meglio dei fratelli De Goncourt, e si era inesso già da molti anni — e prima di conoscere Shimoi — i/i rapporto col Giappone e con un amico, il barone Oku- | ma, fondatore dell'Università I di Waseda a Tokyo, che gli provvedeva testi, indicazioni, ; notizie così che Shimoi, già al suo primo incontro trovò il Poeta eruditissimo in materia di cultura e letteratura nipponica. Di un ricco ammiratore, un commerciante di Kyoto, Shimoi recò a D'Annunzio nel 1019 una spada, un'antica preziosa kàtana, cinta per tre secoli da illustri e potenti daimyo. < La userò col russo — disse D'Annunzio. — Vedrai*. E Shimoi, che non aveva subito afferrato quei misteriosi propositi, capì qualcosa soltanto quando seppe che al suo stesso albergo di Guidone si trovava il ministro degli esteri sovietico, Cicerin, venuto in Italia per la conferenza di Genova, in attesa d'udienza da parecchi giorni. Cicerin andava preparandosi diligentemente all'incontro col Poeta, sia leggendo, in francese e in russo, talune opere, siu cavandone appunti, citazioni e riferimenti per un discorso che voleva rivolgergli. Si godeva, intanto, le ombre del lago e la lettura dell'Innocente che, gli avevano detto, rivelava un'evidente influenza degli scrittori russi su D'Annunzio. Era un uomo timido, cortese, parlava i perfettamente le lingue » ' perciò Lenin l'aveva scelto come ministro degli esteri, alla morte di Krassin. Non so — neppure Shimoi sa — i se la sua fossi: una curiosità di intellettuale oppure in j quel voler avvicinare D'An: nunzio si alasse qualche soI greto intento politico. Nep] pure D'Annunzio riusciva a capire die cosa volesse quel ministro di Mosca e cosi l'incontro si realizzò in modo curiosissime) e, com-i allora, glielo raccontò D'Annunzio, Shimoi, adesso, lo racconta a me. Cicerin fu introdotto da Dante, l'ordinanza fedelissima, entrò in uno degli atrii e s'avviava alla scala del primo piano. Ma il Poeta comparve repentinamente: in uniforme di guerra, con tutte le sue medaglie e decorazioni, stringendo nella destra la kàtana, la spada giapponese mandatagli dal suo ammiratore di Kyoto. La. snudò, gridando a Cicerin: Arrètezvous. L'altro vide luccicare quell'acciaio taglientissimo, in balenanti mulinelli. E si fermò per davvero; pallido. Si volse per scendere e. infilar la porta, seccato. Ma alle sue spalle comparve Dante con un gran vassoio d'argento, vuoto, freddo, forbito; un piatto per la testa di quel san Giovanni bolscevico. Così tra l'acciaio e l'argento, il russo ristette, muto; in attesa che i lampi si estinguessero e D'Annunzio rimettesse nel fodero la vecchia arma giapponese. Non mi dice, Shimoi, come quell'episodio finisse. Anche lucidissimo, preciso, lento egli divaga sull'onda del calore e della passione dei suoi ricordi italiani. Si vede dalla sua immobile maschera d'avorio e inchiostro quanto quel calore e quella passione ne riscaldino le tinte immutabili; vagamente avvivandole come per un lontano rosalo riflesso di candela. < Mandiamo — gli dico — una cartolina a Carlo Nazzaro ». E gliela porgo e vi scrivo un saluto banale. Ma lui, come protestando contro qualcosa di ineluttabile (il tempo, lo spazio, la età), scrive: Luntane 'a Napule, nun pozzo sta!... e Jirma: Haruchichi Shimoi. Giovanni Artieri

Luoghi citati: Fiume, Genova, Giappone, Italia, Mosca, Tokyo