Una rivoluzione senza dinamite di Giovanni Artieri

Una rivoluzione senza dinamite CRONACA DELLE DRAMMATICHE GIORNATE DEL CAIRO Una rivoluzione senza dinamite II furore della distruzione, le bambole gettate nel rogo, i vini sparsi: fu uno scoppio di intolleranza religiosa • E tuttavia la tragedia apparve organizzata con tecnica perfetta: da chi ? a qual fine ? - Aspetti strani; niente fucilate ne saccheggi - Come cadde il governo di Nahas Pascià: un comunicato della radio e l'ordine di marciare impartito dal Re alle truppe Con questa terza puntata termina il racconto delle giornate di rivoluzione al Cairo, sabato e domenica 26-27 gennaio, alle quali ha assistito 11 nostro Inviato Giovanni Artieri. (Dal nostro inviato speciale) II Cairo, 31 gennaio. La gran parte del « lavoro » essendo compiuta nel centro della città, e in quella delimitazione che ho detto, le squadre rivoluzionarie si spostarono verso la periferia. Gli incendi appiccati, almeno tremila, bruciavano tranquillamente e a me suscitavano, mentre ! correvo con un'automobile del la polizia incontro ai loro strepiti e bagliori, il ricordo delle vie popolari di Napoli il giorno della benedizione dei cavalli, Sant'Antonio abate, che ad ogni crocevia si leva una catasta di legna, vecchi mobili, cartacce, carbone, rifiuti di soffitte, e s'accende; così che dappertutto stridono fuochi nell'aria di gennaio. Anche al Cairo ogni crocevia avvampava, ma quali gigantesche fiamme e quali ruggiti. Le avessero preparate per una ripresa di film non sarebbero state così perfette. Qua e là esse venivano alimentate. Dinanzi ai Magazzini Cigurelli, per esempio, un gruppo di giovani in camice lungo e tarbusc rituale rovescia nel rogo un gran muc- chio di bambole provenienti dalla devastazione del negozio Groppi. Taluni le lanciavano come fionde, volteggiandole nell'aria. Non ridevano, si capisce; apparivano seri e ag- r » grondati, quei giovanotti. Del resto, poiché quel gran guaio era accaduto e si trattava solo di pupazze di stoppa e porcellana, nessuno avrebbe trovato da ridire. Guardavamo dai vetri dell'automobile quella scena di significato così ovviamente iconoclasta; non era difficile capire che i giovani religiosi bruciando cosi coscienziosamente centinaia di bambole obbedivano ad un preciso comandamento della loro coscienza. Sarebbe stato lo stesso se li avessi visti a incendiare, come incominciarono a fare verso le nove di sera, quasi tutti i negozi dei salumieri greci, perchè vi si vendeva carne di porco. Essi, i giovani credenti, erano già passati, come ho detto, dal vinaio italiano Borsa vuotando le sue cantine e le preziose * biblioteche » di vini vecchi sulla strada, perchè le scritture sacre così vogliono. Discussioni pericolose Io m'ero trovato al centro di uno dei più grandi episodi di intolleranza religiosa di tutti i tempi, scaturito da un accumulo di circostanze politiche, per quanto evidenti e determinanti, effettivamente di secondaria importanza. Era una specie di tentativo razionale di rivoluzione, cioè una specie nuova di rivoluzione in cui tutto appariva comprensibile e prevedibile (e non pochi avevano previsto) e tutto, agli occhi di ogni credente e osservante la legge del profeta, doveva apparire giusto e ben fatto. L'incendio del Cairo ha Incenerito oltre 100 milioni di sterline e gran parte di questa ricchezza, in oggetti, valori isi pensi alle casseforti della < Barcklay's Bank », soltanto) è passata per le mani di circa un migliaio di persone, in gran parte ragazzi e giovanotti dai 16 ai 25 anni, suddivisi in squadre, addestrati alla distruzione, da tecnici che la loro scienza hanno certamente appreso nelle scuole dei Paesi sovietici. Non si ha notizia, fino adesso, che siano state colte ricchezze o valori nelle mani degli incendiari. In queste due giornate di rivoluzione al Cairo, insomma, sì è distrutto ma non rubato. E davvero è cosa da stupire tenuto conto del facile scatenarsi della teppa, tenuto conto che a girar per il Cairo c'era da rischiare facilmente il portafoglio. Avevo persino pensato, il giorno prima, a quale orgia di saccheggi e di rapina si sarebbe abbandonata la popolazione fanatica, in caso di sommossa. Invece ecco ciò che si poteva chiamare una « rivoluzione corretta >, una orribile, terribile ma correttissima rivoluzione. L'automobile nella quale ero venuto al centro, dall'Ambasciata, ferma all'angolo della i via Fuad I, intralciava in qualche modo il lavoro della squadra di incendiarii che in quel momento accudivano ad una sempre più perfetta combustione dei Magazzini Cigurelli. L'impazienza appariva evidente dall'andirivieni e dalle sempre più frequenti occhiate lanciate all'interno dai giovani in tarbusc e camicione. Taluni al vedere me gridavano qualcosa in cui correva la parola < ingollisi », ma si trattava di un minaccioso interrogativo al quale il primo tenente Amin Helmy Abdel Razek rispondeva: « Zufarah Italiah >, cioè < Ambasciata d'Italia ». Bastava per allontanare i peggio disposti, ma occorreva continuamente dirlo e intavolare discussioni pericolose. Il tenente si allontanò per non so quale motivo e nella macchina mi trovavo affidato a due inermi agenti di polizia in borghese, privi della più superficiale conoscenza di una lingua europea e sostenuti soltanto a quel posto da un residuo senso del dovere. I due agenti discussero un paio di minuti e trovarono la soluzione: uno sarebbe rimasto all'angolo in attesa di Abdel Razek e l'altro, con me e l'automobile, sarebbe andato ad attendere in una via laterale, la Sharia Adly Pascià. Lasciammo l'agente a terra e movemmo, inseguiti da qualche urlo. La strada scelta per sostare non pareva migliore di quella che avevamo lasciata. Lì presso al « Crédit Lyonnais » altri squadristi musulmani erano occupati a bruciare un paio di edifici che non riuscii di identificare. E anche li l'automobile dava fastidio. Correttissimo caos S'aggiunga che un'automobile intera, intatta, pronta a marciare, un'automobile < viva » eccitava in quei bravi giovani immediati sentimenti di distruzione. Accadde che per manovrare e situarsi meglio l'autista o urtasse o fosse per urtare uno dei passanti che gridò. Altri accorsero e tra costoro moltissimi armati di grossi rami d'albero, usciti di non so dove. Cominciarono a litigare. Aggiungerò che altri sbrigativi giovani, senza darsi pena di ragionarci sopra picchiavano bastonate sul bagagliaio e la carrozzeria. Aspettavo di sentirmi crollare addosso il vetro poste rìore. L'autista era stanco di gridare: < Pulìssia... Pulìssìa ». Essi, i giovani, non tenevano conto di questa parola più che se l'agente avesse detto: < Confucio o Giuseppe Garibaldi ». Anzi degli agenti in servizio quella sera del sabato 26, mentre il cinquanta per cento del corpo di polizia aveva scioperato solidarizzando passivamente con i rivoluzionari, non potevano non apparire crumiri sospetti, agli occhi di quegli atàvisti. Ad un più energico colpo di pscvAclfcfrdRpemrralpdsccvdpsvcdaNle a i i l è , e e a e o a t, lun n-, i-i randello sulla carrozzeria l'auci tista uscì dal suo posto e, attace cato allo sportello, si mise a a gridare: « Molazzem awal Ab del Razek > tante volte che ca¬ pii, per aver il tenente Abdel scritto il suo nome nel mio taccuino, che lo chiamava a gran voce: < signor primo tenente Abdel Razek... ». Dipendeva, si capisce, dal ritorno del tenente l'integrità della macchina e forse la nostra. Fossero i richiami dell'autista, fosse il caso fortunato, Razek e l'altro girarono in quel momento l'angolo della strada, con passo calmo. Razek disse qualche cosa alla piccola folla di giovanotti ed entrò accanto a me, chiedendomi cortesemente scusa per il ritardo. Il carattere di quella insurrezione, si può dire, mentre appariva così chiaro, e razionale, e quasi scientificamente preparato da uomini al corrente della tecnica e della pratica in simili faccende, mostrava qualche lato non perfettamente comprensibile. Era un tentativo di presa del potere da parte di forze estremistiche? Se sì, perchè i centri nervosi del Paese (la radio, le stazioni ferroviarie, la centrale telefonica, le centrali elettriche, le centrali dell'acqua potabile, e altri complessi di fondamentale importanza) funzionavano perfettamente? Perchè i rivoluzionari non avevano occupato i ponti sul Nilo, sbarrate le strade di accesso alla capitale, Isolate le caserme? Non lo ritenevano necessario? Sorprendeva, in questa rivoluzione, l'assenza di esplosivi. Una rivoluzione senza dinami te. Alcuni negozi di armaioli in città erano stati pur essi bruciati, ma non risultava che le armi fossero state adoperate, benché sia sempre valido il sospetto che il contenuto di quei magazzini sia passato di mano e nascosto (e sarebbe questo l'unico furto in tanto correttissimo caos). La stazione radiotelegrafica Marconi funzionava perfettamente e così alle 19,10 avevo potuto mandare un primo annuncio di 600 parole. La radio del Cairo trasmetteva interminabilmente i dischi della «Eroica» di Beethoven; questa musica si interruppe per far largo alle seguenti parole dell'annunciatore: «Si prega di stare in ascolto. Fra venti minuti leggeremo una dichiarazione del primo ministro Nahas Pascià». Alle 20,20 la dichiarazione di Nahas Pascià diceva: « Il Governo non ha potuto impedire questa esplosione di patriottismo ». Si reiterava l'invito di non chiudere e attendere un comunicato sulle decisioni del Consiglio dei Ministri. Questo comunicato, a quanto ricordo, non venne. Edward Pollack dell'* Associated Press » mi telefonò che il re Faruk aveva ordinato alle truppe di marciare sul Cairo. Pollack parlava dal suo ufficio al centro della città, .presso il grattacielo < Immobilia » incendiato al piano terreno dove s'apriva il ristorante « Ermitage ». Gli chiesi notizie del mio albergo. Non ne sapeva nulla: taluni però lo dicevano intatto. In quel momento la radio trasmetteva una comunicazione governativa del Ministro degli Interni Serag Heddin: « Il Governo si difenderà con¬ rro un moto rivoluzionario bene organizzato ». S'annunciava l'arresto del signor Ahmed Hussein, il Nenni dell'Egitto. Gli avvenimenti, alla stregua di queste parole, assumevano una. fisionomia politica molto netta. Tentativo socialcomunista? Sino a quale punto dottrina, propaganda, suggestioni marxiste erano penetrate nella testa di quegli studenti che durante la mattinata, i libri sotto il braccio, gridavano « Morte agli inglesi », dietro le loro bandiere verdi? E come mai più tardi lo stesso Nahas Pascià dichiarava alla radio di non < aver potuto impedire quello scoppio di patriottismo? ». Italiani impazienti, volevamo farci subito un'idea delle cause ed effetti di quanto avveniva sotto ì nostri occhi. Volevamo subito attribuire colpe e meriti. A quell'ora e poi sino a quando venne annunciato, nella sera tardi della domenica 27, la caduta del partito wafdista, la situazione appariva senza uscita e suscettibile dei più gravi sviluppi. L'atonia del Governo e quella dichiarazione favorevole al movimento che aveva dato fuoco al Cairo appariva un vero e proprio atto di solidarietà con la rivoluzione. Profili tra le fiamme Andai verso l'albergo < Shepheard's». Sulla piazza Ismailia incontrai i primi veli di truppa arrivati alla spicciolata a presidiare i crocicchi e i ponti. Erano soldati stanchi, armati di fucili inglesi e baionette piccole come un coltello a serramanico. Portavano l'elmetto del « Tommy » della prima guerra mondiale. Ci lasciavano passare facilmente. La piazza Ibrahim Pascià e la statua equestre erano illuminate a giorno. Più avanti, gli alberi del parco di Ezbekieh ristabilivano l'ombra, ma le fiamme che ruggivano dalle finestre e dai balconi dello «Shepheard's» vi suscitavano enormi profili di uomini e di cose. Come bruciava! Rimasi a guardare. Quella non era la mia casa e, certo, nell'animo mio nulla si commoveva. Pensa; alle cose perdute: abiti ai quali ero affezionato, le mie carte, alcuni libri. Quel fuoco mi attraeva e così a piedi mi avvicinai come potetti allo « Shepheard's ». Sul marciapiedi tra i detriti fangosi e i frammenti senza forma, raccattai qualcosa, era <lui»: era il mio cappello, quello che avevo perso la mattina, quello la cui assenza mi aveva recato il primo messaggio del dramma di sabato 27 gennaio. Chi ha avuto pazienza di seguire questa lunga cronaca dell'incendio del Cairo sa che essa comincia, appunto, con la perdita del mio cappello dalla camera n. 248 dell'* Hotel Shepheard's ». E il racconto, a regola d'arte, dovrebbe terminare qui, mentre io raccatto il cappello e lo porto via. Invece lo buttai tra le fiamme e me ne rivenni indietro, assaporando la condizione di non possedere nulla, oltre i panni indosso. Mi sentii allegro, d'un tratto, quasi felice. Giovanni Artieri