Non è dannunziana la casa di D'Annunzio

Non è dannunziana la casa di D'Annunzio PESCARA. CITTA» "ifa CAMMINO Non è dannunziana la casa di D'Annunzio Le piante del poeta, lauro olivo melograno oleandro, hanno perduto ogni senso simbolico, e sgron dano acqua nel cortiletto - Ricostruzione febbrile, fatta un po' a casaccio - Traffici e ottimismo (Dal nostro inviato speciale) Pescara, ottobre. Molti anni fa, una comitiva di giornalisti, guidata da un giornalista abruzzese che viveva da tempo a Milano, partì dalla capitale lombarda — allora si chiamava ancora « capitale morale » — alla scoperta dell'Abruzzo. Si trattava di scoprire l'Abruzzo dannunziano, il folcklore, Aligi, i serpari di Cocullo, te stornellatrici di Ottona, il convento di Michetti, magari le ceramiche di Castelli e di Rapino, o le scamorze e le « si se » di Guardiagrele : il tutto da vedere, e visto, sotto specie letteraria, perchè la letteratura e, diremmo meglio, la rettorica giornalistica e dannunziana, — e allora il giornalismo dannunziano era in fiore — copriva tutto d'una sua patina fortemente colorata, e nascondeva naturalmente l'essenziale. La « grande sagra » Difatti,, feste, ricevimenti, discorsi, cortei di carri infiorati e di ragazze in costume e quanto d'altro si fece, comprese le recite della Figlia di Jorio, portò il segno vistoso di quella rettorica e del falso che l'accompagnava immancabilmente. Nessuno si domandò se quelle prosperose ragazze che cantavano, nel sole d'agosto, per le vie polverose della vecchia Pescara, tanti stornelli, e quei giovanotti in giubbetto di velluto e ciocie che facevano il controcanto, avessero poi di che mangiare che non fosse una fetta di pane e di cacio, condito con un pugno di olive o una cipolla: la gente d'Abruzzo cantava, dunque era felice; tutto l'Abruzzo, dalla montagna al mare, festeggiava la € granda sagra » del risveglio d'AHgi, e dunque l'Abruzzo era la terra della poesia. E della prosperità. Sono passate da allora due guerre; l'Abruzzo di quel tempo appartiene ormai alla preistoria o, se volete, al mito, e di ciò che oggi si può chiamar dannunziano, in Abruzzo non c'è più. nulla, nemmeno nel costume dei paesi intorno alla Maiella. E tanto meno a Pescara. C'è, si capisce, la casa di Gaiiiiimiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiuiiiiiiiiiii briele; ma la casa di D'Annunzio non è una casa dannunziana. Non lo era già prima che la saccheggiassero, nei giorni confusi succeduti al passaggio dei tedeschi e all'arrivo degli alleati; lo è tanto meno adesso che buonqi parte dei mobili sono scomparsi, i comò con la biancheria di casa sono vuoti di cassettoni, il letto d'ottone dove lui nacque è stato trafugato, coi tappeti casalinghi, le sedie, i libri che il poeta mandava alla madre, le stampe settecentesche appese alle pareti; e se c'è rimasto qualcosa, è la vecchia poltrona dove stava seduta per lunghe ore alla finestra donna Luisa, un vaso giapponese e un braciere d'ottone salvati dalla fedele Manetta. Ho detto che la casa di Gabriele non è dannunziana; è una casa di media borghesia provinciale, di architettura settecentesca sulla facciata che dà sul corso Manthonè — il vecchio corso della vecchia Pescara, fiancheggiato da piccole case, con piccoli negozi — e anche nell'interno, con stanze ariose, dai soffitti a croce, e con qualche decorazione campestre o bucolica. Ma sono scomparsi anche i riquadri sui quali il padre di Gabriele fece incidere i titoli delle prime opere del figlio: da Primo Vere a Terra vergine, c Anch'essi furati», mi dice Marietta. La casa, come si sa, fu rammodernata qua e là dall'architetto Maroni, che nel cortile interno cavò un pozzo e mise la ghiera, e piante rampicanti per scale e su per i muri; ma le quattro piante dannunziane che furono piantate nel cortiletto esterno, dietro la casa — il lauro, l'olivo, il melograno, e l'oleandro — hanno perduto qui ogni simbologia alcionia; sono quattro pianticelle che sgrondano acqua e sentono già l'autunno. Ora, di questa casa, così discreta, silenziosa e, in fondo, così ermetica, si vorrebbe fare un museo; e certo, anche un museo vi si può fare, che i cimeli di D'Annunzio, sparsi in Italia, e all'estero, sono molti, compresi i manoscritti. Le bombe che pure hanno demolite quasi tutte le altre case attorno, l'hanno lasciata intatta: miracolosamente, mi dice Tommaso Cascella. Suo padre, Basilio, morto qualche anno fa a 88 anni, ideò — e fu l'ultima sua fatica — un grande affresco per il palazzo del Comune: e qui vi figura il bozzetto, ispirato a motivi della poesia dannunziana, le canefore, i pastori, la montagna, i colli, la pineta, con D'Annunzio in figura d'Orfeo o d'Apollo, avvolto in un manto bianco, che pizzica le corde d'una lira, all'ombra d'una grande quercia. La concezione è forse un po' rettorica, ma i colori sono vivaci, e armonica la composizione. La casa, con le finestre tutte chiuse, sbircia to piazzetta di fianco, dove tutte le mortine si svolge il mercato, tra le grida delle venditrici che si lanciano a sfida i prezzi (€ Venti lire ai chilo i pomodori!». * Diciannove », risponde un'altra voce .stridula e acuta li vicino), l'odore del pecorino accatastato su» ban- chi, la fragranza delle frutta e delle verdure dei pingui orti della pianura. E questo è forse il solo colore della vecchia Pescara, ma sparirà anch'esso appena si avrà il mercato coperto. Uscendo dalle viuzze... Veramente, chi ama ti colore dei ruderi — ma a Pescara non It ama nessuno — li può vedere ancora sut muri diroccati e sventrati della vecchie fortezza borbonica, che un'epigrafe definisce, non senza enfasi, lo € Spielberg d'Abruzzo, ardente altare d'amore e dolore >, nelle nere bottegucce dei manisenlehi e dei fabbri net cu- muli di rottami adunati tra quei ruderi. Ma, a uscire da quelle viuzze, Pejscara lancia i suoi larghi viali alberati verso la pineta e i colli, alza i suoi palazzi di molti piani, apre i suoi caffè con insegne al neon, i negozi rigurgitanti di merci, costruisce case nuove, belle o brutte che siano, con un'alacrità veramente febbrile. La guerra ha distrutto o sinistrato il 7.1 per cento delle abitazioni: quello che non fecero le bombe alleate, lo fecero i tedeschi, facendo saltare il ponte sul Pescara, case e villette d'abitazione, anche se questo non fu fatto sistematicamente come sulla spiaggia di Francavilla. La febbre del ricostruire cominciò appena il fronte si spo¬ sto di pochi chilometri verso | nord. E poiché il Comune non aveva un piano regolatore, e nemmeno un consulente urbanistico, come non l'ha tuttora (e almeno un consulente è ritenuto da tutti indispensabile), la febbre edilizia potè sfogarsi a piacere. Senso provvisorio Entro lo schema a scacchiere della città le case sorsero una accanto all'altra, di ogni stile, dal vecchio floreale e liberty al '900 più cementizio, o più spesso sensa stile, secondo il gusto privato del proprietario o quello più o meno ingegneresco dell'imprenditore. Risultato: Pesca- CI11111111 i 1111i1111111111M11111 i 111111111111111 j 111111111 ra non ha una fisionomia sua; vecchio e nuovo, e il nuovo è più brutto del vecchio, e più pomposo, vi si mescolano senza armonizzarsi, e danno un senso di provvisorio, come se si trattasse d'una città accampata, non costruita. Ora questo, secondo me, è il più grosso problema della grande Pescara; diventare una vera città. Qualcuno l'ha definita la Shangai abruzzese; non conosco Shangaì, ma credo che Pescara abbia meno carattere. Eppure è una città viva, ' industriosa, trafficante, ottimista; è già un importante emporio non solo del retroterra abruzzese, ma sta diventando uno degli emporii pù vasti e ricchi e attivi di tutto l'Adriatico. Le man- ca un porto; ma con le sue 1,0 coppie di barche (nel '44 non ce n'era rimasta quasi nessuna e ora aumentano continuamente) gareggia nell'industria della pesca con le maggiori città della costa. Perciò Pescara è una città in cammino, ma anche una città da fare. Costruire una città — e non nel senso dannunziano, rinascimentale, o principesco — è una grande ambizione; farla bella vorrei dire ch'è un dovere. Un'occasione come questa non si presenta due volte nella vita e nella storia d'una città; e penso che a sentirlo non siano soltanto pochi pescaresi. G. Titta Rosa ■ 11 II 111i111 ! 1111111 11111111 i 1111111 iIM11M11M1111