Eduardo poeta di Giovanni Artieri

Eduardo poeta Eduardo poeta Nel cimitero dei teatri di Napoli converrà iscrivere, illustrandoli con due belle monografie, il « Fiorentini » e il « Nuovo ». Il primo scomparve una quindicina d'anni fa nella bonifica edilizia di Via Toledo; il secon do, incendiatosi e rifatto, è oggi degradato alla condizione di cinema popolare. Tutti e due que sti teatri, — l'uno ornato di specchi, modanature d'oro zecchino e d'un sipario del Cammarano, elegante salotto settecentesco an cora tutto glorioso della prima della «Lucia di Lammermoor» e del « debutto » di Eleonora Duse, giovinetta; l'altro ugualmente dorato e acceso di velluti sacro ai successi rossiniani della « Scala di seta » e a quelli digia comiani di « Assunta Spina », furono culla all'arte dei fratelli De Filippo (Eduardo, Peppino e Titina). Al «Fiorentini» Eduardo non era neppure un attore di qualche ■ nome. Faceva particine. Ne ricordo una, un tipo di « cammoristcllo» acre e asciutto in una commedia di Aniello Costagliola, « L'agnello pasquale», ch'era, poi, riduzione della quinta novella della seconda giornata del « Decamerone », quella di Andreuccio da Perugia venuto a Napoli a comprar cavalli che Benedetto Croce illustrò con un saggio di toponomastica medioevale. Eduardo figurava uno dei ladri ai quali s'accompagna Andreuccio, recandosi a spogliare dei suoi preziosi paramenti e anelli l'arcivescovo Filippo Minutolo. Non ricordo bene come quei casi boccacceschi mutassero nello sviluppo, dell'ambientazione moderna e dialettale. Tuttavia non mi riuscì di dimenticare quel risecchito ladruncolo, ehe era Eduardo. Egli s'incideva con un acido nuovo sulla lastra della commedia; metteva nelle poche sue battute una specie di inedita elettricità, la sua figura si staccava come un acquerello di Juan Gris su una parete di pittori di accademia. Mostrava già quella raccolta intensità del dire, quella specie di stravinschiana padronanza del ritmo scenico, quel gusto patetico e crudele della deformazione che più tardi, nelle grandi commedie, diventerà una specie di realtà magica, una evidenza addizionata al sortilegio. Attorno a quel tempo (e voglio proprio vantarmene) scrissi nella cauta e sorvegliatissima rubrica teatrale di Riccardo Forster sul « Mattino » ciò che pensavo di loro tre, i De Filippo. Nessuno, prima, aveva adoperato le parole grosse che adoperai. 1 De Filippo veni vano, scambiati per attori tra prosa minore e varietà. Ed effettivamente essi recitavano ancora da attori di varietà nelle scenette e « numeri » e parodie delle riviste dei due Galdieri, Rocco e Michele, e più tardi del Mangini, Scarpetta, Marinelli, quasi sempre al teatro « Nuovo » di via Montecalvario, a mezza via tra il fosso di Toledo e la collina di San Martino. La gente rideva allora come adesso; ma adesso certi silenzi commossi, certe sospensioni ed emozioni dinnanzi all'arte dei De Filippo (in specie di Eduardo e Titina) esprimono altro giudizio. Allora gli spettatori nulla concedevano alla squallida malinconia di «Sik Sik, l'artefice magico », illusionista maldestro che sbaglia sempre ed ha sbagliato anche la sua vita e sa fare soltanto la riverenza alla fine del gioco ravvivandosi i grossi mustacchi alla Umberto I. A poco a poco dal « Nuovo » al « Kursaal » e di qui al piccolo, illustre «Sannazaro» a Via Chiaja Eduardo tagliò addosso a sè a Titina e a Peppino (ma anch'essi vi contribuirono) un repertorio, secondo le regole ereditarie del mestiere. Ma senza saperlo egli, Eduardo, veniva fissando anche la segreta poetica dei suoi diversi eroi napoletani: la malinconia e lo squallore di vite sbagliate, le « fissazioni » e le manie ingenue di chi non possiede altro che un po' di fantasia per illudersi, la comica e triste varietà di garbugli sorretti dalla bontà un po' cinica e dal cuore generoso dei poveri. Dallo « schizzo » di « Sik Sik » Eduardo passava a più complessi ed anche più tristi e seri ritratti umani: quelli delle commedie .di anteguerra come « Natale in casa Cupiello », per citar la più nota e, poi, a queste del dopoguerra, sèi delle quali si possono leggere nel bel volume «Cantate dei giorni dispari » (Einaudi, Torino). Immutato ne è rimasto il modulo umano: il tranviere Gennaro Jovine di «Napoli milionaria », l'illuso Pasquale Loiacono di « Questi fantasmi », lo squallido Libero Incoronato di « Le bugie con le gambe lunghe », il professore Otto Marvuglia, ricalco del vecchio « Sik Sik », della « Grande illusione » e il « fissato » Alberto Saporito, eroe delle « Voci di dentro ». E' gente (eccezion fatta di Domenico Soriano e di Filumena Marturano: tipi «forti» ma che pure debbono piegare all'imperativo della vita) questa dei drammi di Eduardo molto malinconica e a volte fieramente triste; davvero a seguire questi grandi comici viene voglia di chiedersi cosa ci sia da ridere a questo mondo. Da secoli i comici mostrano volti seri e pensosi: Edoardo Scarpetta non rideva mai e il vi so di Eduardo de Filippo che ne reca i tratti definiti e fissi di maschera smarrita tra gli uomini, non è proprio di quelli che fanno ridere. Al limite di questa incongruenza, insomma, troviamo la teoria del comico di Bergson e i volti meccanici di Grock, di Buster Keaton e di Charlie Chaplin. (Il riso di dentiera, breve e gelato di Eduardo, ricorda appunto quello di Chaplin), Quindici anni fa i tre fratelli debuttarono all'» Odeon » di Milano: la prova del fuoco. Dettero «Il berretto a sonagli» di Pirandello, in napoletano. Era in scena Titina mentre gli altri due da una quinta seguivano le reazioni del pubblico. Nervoso appariva sovratutto Peppino, tutto intento a cogliere la confortante maretta delle risate che, secondo lui, dovevano « venire » a certe battute. Invece niente. «Edua'... Edua', non ridono... » mormorava angosciatamente il fratello. Non ridono... » e si disperava. Alla fine Eduardo gli gridò: Sfatte zitto, che se ridono vuol ire che non ci pigliano sul serio... ». * * E' forse per evadere da questa sazietà o timore del « comico » che Eduardo ha messo insieme un libro di versi? O per espio rare, dentro di sè, un mondo di verso da quello troppo proteso e offerto, « a troppa gente, della ribalta? Nel «Paese di Pulcinella» (Casella, Napoli) troviamo intuizioni liriche sottili, suoni di tasti toccati da Rimbaud, da Verlaine, dal Di Giacomo e si veda, per tutti, la delicata pioggia di «Fina e lenta» («S'aràpene 'e ffèneste e tutte 'e case, - 'e. baicune cu l'ellera addirosa, - chi tir' 'a biancaria ca steva spasa... E saglie cheli' 'addora 'e terra nfosa. »); ma la sostanza di tutte queste poesie altra non è che una irrefrenabile dialettica drammatica^ movimenti, contrasti, «colpi di scena ». Eduardo non riesce a incantarsi, non rista estatico, sperduto, assorto, contemplante; mai. Rarissime volte (per esempio: «Tu») sfoggiando una certa originalità di ritmi e di accenti, vaga e svaria in una inquieta « rèverie » alternata di luci e di assopimenti, di risvegli e soprassalti e quasi ascolta sul cuscino gli schiocchi dei battimani della recita or ora finita. Per il resto son la polemica, il moralismo, la rappresentazione, la protesta a sostenere il suo estro. Dedica sonetti scherzosi e amari al D.D.T., ai bicchieri ricavati dalle bottigliette di birra americana, alla polvere d'uova e all'immangiabile minestra di piselli in scatola, alle luride industrie' della borsa nera e alle combutte e imbrogli tra « alleati » e napoletani per il saccheggio dei camions di derrate; alle stravaganze dell'uniforme nuova (la tuta) che impedirà alla ragazza di riconoscere il fidanzato, partito bersagliere con le penne, ritornato vestito da G.I. E a lui, Eduardo, tutte quelle tute delle truppe motorizzate appaiono come « casse da morto con la chiusura lampo », segni dell'ineluttabile morire della vecchia, dolce, differenziata, liberale Europa. Questa materia che non riesce a mutarsi in poesia lo diventa, come, nelle scene patetiche di «Napoli milionaria ». Cerro, Eduardo-poeta porta nell'ala il piombo della sua destinazione di commediografo, di attore, di regista. Se Di Giacomo — come diceva donna Matilde Serao — trasformava in poesia ogni cosa toccasse, De Filippo ne fa teatro. Anch'egli ha tentato il poemetto fantastico al modo di « I,assumine fa' 'a Dio » del Di Giacomo o del più celebre « Mparaviso » di Ferdinando Russo. Servendosi liberamente di un episodio del « Corricolo » di Alessandro Dumas («La predica di padre Rocco») ci racconta il caso di Vincenzo de Pretore, ladruncolo ucciso durante un furto, che recatosi in Paradiso (o almeno questo sogna nel delirio prima di morire) chiede a San Giuseppe, suo patrono, di rimanervi anche se il Padre Eterno opponendosi alla richiesta si trova a fronteggiare una specie di sciopero dei santi. De Pretore, questo Liliom napoletano," la vincerà e come poi finisca la fantasticata faccenda ognuno vada a leggerselo nel libro. Il poemetto diventa una commedia. S'intende che nel mondo defilippiano — misero, deluso, affaticato, stravolto — si insinua, come il sangue nei tessuti, un forte sapore di critica sociale. L'uomo fondamentalmente buono è esposto alle illusioni e delusioni dell'indigenza, deve lottare con la vita di tanto più forte di lui e spesso è costretto ad « arrampicarsi — come si dice a Napoli,— sulle fuliggini». La maggior parte di questa descrittiva polemica Eduardo la svolge secondo modi e ritmi di filastrocca ricavata, non so se intenzionalmente, dai vecchi girovaghi della strada napoletana: Pimpinella della» Corsea, Baccalà dei Quartieri i vari don Nicola dei « pianini » ambulanti e gli stessi « pazzarielli » ( banditori del vino nuovo) figure di rapsòdi e menestrelli scomparse dai quadrivi della città. Viene voglia, in forza di questo ricordo, di chiedere a lui stesso, a Eduardo, di recitar per apprezzarle meglio le poesie-filastrocca: « O paese 'e Pulicenella », « E' bella 'a papa risila », « Gesù, Gesù, Gesù » e altre, talune di arduo intendi mento per cui soccorre molto l'eccellente « Glossario », curato da Giulio Caizzi. Così da Edu.ir do vorremmo ascoltare le scene del « vicolo », il vicolo napoletano ch'è poi sempre quello di Galdieri e di Bovio, di Viviani e di Capurro, di Russo e di Di Giacomo nella sua umanità lentamente aggiornata dalle crude esperienze della guerra e delle invasioni. Sì, molte volte questi versi « fanno poesia » ( e vedi la bellissima « 'E margarite », vedi a Orto di guerra» e la citata: «Tu») ma quando no, il pensiero subito ricorre alle commedie, a « Napoli milionaria » a « Filumena Marturano », un durevole capolavoro, e alle altre in cui davvero palpita un afflato lirico al quale pochi, in Italia e fuori (Pi Giacomo, Pirandello, Sarment, Sheriff, Wilder) sono pervenuti sul teatro. Di questo libro di Eduardo abbiamo parlato volentieri non tanto perchè l'Autore rappresenta qualche cosa di noi e della nostra giovinezza e gli siamo legati da anni lunghi e fraterni, quanto perchè esso rappresenta pure un temerario tentativo di resuscitare la poesia napoletana. A Napoli il meraviglioso e purissimo lirico E. A. Mario va spegnendosi nei ricordi e l'inimitabile cantore della Campania felice. Eduardo Nicolardi, ha tentato recentemente di uccidersi per miseria. Si è ben lontani dai tempi della gran fiorita lirica tra gli ultimi quindici anni del XIX e i primi del XX secolo. Così il libro di Eduardo ravviva una tradizione e quasi un intimo culto che, se mancasse del tutto, potremmo davvero dire addio alla cara città e figurarcela una Pompei o Ercolano agonizzante ai piedi del Vesuvio spento, sotto un velo di cenere già fredda. Giovanni Artieri IMllHIIIUnilllMIIIIIll Illllllllllllllllllllll Farina vincitore Ieri a Goodwood riceve le congratulazioni di Parnell (a destra) classificatosi secondo. (Telef.) lt llliSIIIMIMIIKIIIIillllllMlllllllllllinillillllllIIIIMIIIIt 111111111 III ! 11111M ( 111111111M1111 11 M1111