Lo zio di ricambio di Filippo Sacchi

Lo zio di ricambio Lo zio di ricambio Davvero non posso lagnarmi, quest'anno delle mie vacanze. Erano le prime che facevo a! mare. Per l'appunto quest'inverno era morto il padrone dell'ai bergo di B"* dove andavo da vent'anni a fare il Ferragosto. «Cavaliere — mi disse il nuovo commesso, che è giovane, con capelli neri all'onda, e viareggino — lei dovrebbe provare una volta il mare, che diamine! ». « Cambiare, alla mia età? » feci io. « Come no? Il mare fa bene a tutti. Non è lei libero d'andare dove le piace? ». Così mi mise l'idea in testa, e per la prima volta sono venuto al mare. Sono scapolo, vecchio e impiegato statale di grado B-X, però fuori d'ufficio mi è sempre piaciuto il movimento, per cui mi sono trovato bene alla Pensione Belmare, benché con tante donne, bambini e ragazzi ci fosse un continuo schiamazzo e andirivieni. La mia camera sarebbe forse stata tranquilla, perchè era a capo del corridoio; e i primi tre giorni, sinché ebbi vicino il professore di Roma, con moglie e figlie bruttine, ci dormivo bene. Ma poi arrivò la signora Ebe e le cose cambiarono. Arrivarono una sera tardi con l'ultimo treno. Mi ero da poco addormentato quando mi riscosse un tonfo all'impiantito che parve spostarmi il letto. Due voci, una di donna, l'altra di uomo, una strana voce di uomo, baritonale, eppure con un timbro quasi ancora da ragazzo, altercavano nella stanza vicina. « Ma guarda te se è il modo di mettere giù le valigie, bestia — gridava la donna. — Vuoi svegliare i vicini che dormono? » « E' da stamattina che le porto — replicava l'altro. — Se non ti va come le porto, al ritorno prendile tu! ». Pensai, ecco un marito che sa difendersi. « Bella stupida che sono stata a venire con te », rimbeccò la donna. Allora forse erano amanti. In quella si senti un tramenìo, due voci di bimbe concitate: «E' mia... no, è mia... mamma, mamma... dammi subito... via... ». Poi la voce di donna: « Pulèn, Pulèn... Adesso cominciano queste! ». Poi, cik ciak, due schiaffi, e due pianti infantili acuti, distesi e all'unisono. « Oh, Signor, non vedo l'ora che si sposino », disse comicamente la donna. Appena l'indomani la conobbi, capii che nella sortita della sera prima, quando per proteggere il sonno dei vicini si era messa a strillare come un'aquila, c'era tutta la signora Ebe. Era una bolognese mora, opulenta e rumorosa, con viso colorito e piacente, e una magnifica cascata corvina di capelli, che a ogni colpo del capo si scuoteva intorno come una sonagliera, moglie di un giovane avvocato di Reggio, biondo e di poche parole, l'opposto di lei, che veniva giù il sabato. La voce baritonale però non apparteneva al marito, ma al fratello di lei, un ragazzo di diciassette anni, studente di liceo, bruno e ben cresciuto, con una lunga faccia simpatica e una espressione furbesca e insieme sgranata da bamboccione. La signora Ebe mi raccontò subito che se l'era portato al mare apposta perchè le custodisse le bambine se qualche volta voleva uscire di sera. Aveva esperimentato negli anni precedenti che croce sia per le signore che vanno al mare con bambini piccoli dover restare tappate la sera in pensione per non aver a chi lasciarli. Così avevano fatto il patto: lei lo portava al mare, e lui la sera andava a letto presto, che tanto gli faceva bene, e dormendo nella stanza comunicante garantiva la custodia. Il sistema funzionò bene le prime due sere, sinché lo zio Popi non ebbe fatto lega con la combriccola dei ragazzi della pensione. Poi cominciarono subito le storie. Era nei patti che per aver tempo a digerire lo zio Popi stesse in giro sino alle dieci e mezzo. Ma già la terza sera era rincasato in ritardo, alle undici. La sera dopo tornò alle undici e mezzo. Io che alle dicci sono di regola a letto, seguivo dall'altra parte del muro tutta la faccenda come se la vedessi. « Ah, è questa l'ora di venire, maleducato, lazzarone... », incominciava la sorella. Lo zio Popi aspettava con deferenza che passasse il primo sfogo, poi intavolava le sue ragioni: «S-scnti, Ebe — diceva, accortamente sfruttando una sua lievissima balbuzie — non pr-prenderla su questo tono. Mi sentivo il pranzo sullo stomaco, e...» «Oh, poverino, veli, — saltava su l'altra, — guarda che ha la digestione difficile... Ma se digerisci anche i sassi, vienmela a contare a me che ti conosco da quando sei nato! ». Oppure lo zio Popi diceva: «S-senti Ebe, avevamo una discussione con gli amici, capirai non potevo...». E l'altra: « Ah, ah, una discussione... Ma non sai che per discutere bisogna avere la testa ». <t Io c-ce l'ho la testa, e buona, e t-ti prego... » « E se ce l'hai perchè non l'adoperi a discutere coi professori, che ogni anno ti fai bocciare ». «A I-luglio, solo a luglio, perchè a ottobre passo sempre. Non posso vedere l'ingiustizia, oh! ». Il giorno dopo regolarmente l'intera pensione era chiamata a g.udice dei trascorsi notturni dello zio Popi. Fui io che, per farla finita, proposi una transazione: si spartissero le serate di uscita; per esempio, lunedì mercoledì venerdì lo zio Popi, martedì giovedì sabato e domenica, che erano le serate che si ballava dall'Aida e arrivavano i ma¬ riti, la signora Ebe. In fondo era un successo di Popi. Ma questi purtroppo non conosceva, come Traiano, la moderazione nella vittoria, perchè la sera seguente, salendo per andare a letto, trovo sulla porta spalancata della camera la signora Ebe, tutta rutilante in un abito da sera di seta rossa, che mi tende convulsamente una bottiglietta rotta. « Guardi, cavaliere, guardi qui, lei che si è gentilmente- intromesso, guardi cos'ha combinato quel delinquente ». E mi racconta che, già con le altre amiche sulla giardinetta del dottor Piccio per andare alla festa della pensione Aurelia, accortasi di non aver preso la chiave del tiretto dei soldi, si era fatta ricondurre a casa, e che aveva trovato? Tutto sossopra, le bambine che saltavano per la stanza, Popi irreperibile. Certamente, messe le nipotino a letto e spenta la luce, Popi era uscito, fidando che sarebbero rimaste quiete. Invece la Pulèn, che era uno di quei tipi di angioletti vezzosi e modesti ma assolutamente irresponsabili e capaci di tutto, aveva riacceso, aveva cavato fuori dall'armadio tutti i vestiti della mamma per provarli a sé e alla sorellina, poi aprendo i cassetti e servendosene come di gradini era salita in cima al comò, si era impadronita delle creme e dello spruzzatore del profumo, che aveva sparso dappertutto, riuscendo alla fine a spaccare anche la boccetta. « Guardi che desio! », diceva la signora Ebe mostrandomi la stanza, che pareva un campo di battaglia. Un profumo acuto e dolciastro aleggiava ancora sui cuscini sparsi, sugli abiti a mucchio, sui cassetti che versavano fuori come budella nastri di reggipetti e calze di seta. « Pensi, sospirava la signora Ebe, — era vero Cunei ». Ci sedemmo ad aspettare il Popi, che arrivò un'ora dopo, tutto giulivo. Io m'interposi come potei, ma una piccola scuffia gli arrivò lò stesso di traverso. Si difese dicendo che era stato chiamato da Gigi, perchè il cane di Mimma Paolotti si sentiva male. La signora Ebe lo chiamò snaturato, perchè per un cane abbandonava le nipotine, esponendole a tremendi pericoli. « Bel modo di sentire i tuoi doveri di zio », gridava indignata la signora Ebe. « Qu-quanto a questo — replicava Popi che era stavolta insolitamente riottoso — qu-quanto a questo se' io sono suo zio tu sei sua mamma, e hai più doveri di me ». « Questa è la gratitudine per i soldi che spendo per te ». « Qu-quanto ai soldi, so benissimo che la mamma ti ha dato cinquemila lire per le mie spese ». « Cinquemila lire, carino! Ma se le mangi in due giorni. Basta, se non viene presto Paolo qui succede una tragedia ». La tragedia scoppiò il venerdì mattina. Verso le sei mi svegliano strida dalla stanza: «Aiuto, muore, muore ». Era la signora Ebe. I più vicini accorremmo. « Un medico, muore », gemeva la signora Ebe in vestaglia, mostrando la Pulèn che si torceva sul letto. Di fatto la Pulèn non moriva, vomitava. Tutta la pensione era nel corridoio. Venne il medico, palpò, disse che per lui era una semplice gastrica. Fu più tardi che cercando qualcosa in un cassetto, la signora Ebe trovò sturato e vuoto il barattolo di certe pastiglie per la tosse che aveva comperato il giorno prima da una di quelle ragazze che girano sulla spiaggia a vendere saponette, shampooing! e altre specialità americane. Questo fu lo sprazzo rivelatore. « Pulèn, hai mangiato le pastiglie! ». Pulèn fece di sì e ricominciò a vomitare. La signora Ebe si precipitò dabbasso urlando: «E' avvelenata». A quell'ora la gente era alla spiaggia, quindi la scena fu meno teatrale della prima. Richiamammo il medico, che tornò, seccatissimo, e stette un pezzo a rivoltare il barattolo; ma era scritto in inglese, e non ci capiva nessuno. Era un barattolo molto grosso. « Quante pastiglie ci saranno state? » chiese il dottore. « Euh singhiozzò la signora — non vede? Era pieno ». « Le hai mangiate anche tu? » chiese il dottore alla Cia, che stava spaventatissima dietro la sottana della mamma. « No, — piagnucolò la bimba — non me ne hanno date. Le ha mangiate tutte la Pulèn e lo zio Popi ». « Oh, Dio, Popi... mormorò la signora Ebe lasciandosi cadere sul letto — mi ha avvelenate le bambine ». « Ma insomma quante ne avrà mangiate? — insisteva il dottore. — Si può parlare a questo signor Popi? ». Si vedeva ch'era francamente disgustato all'idea di questo zio che mangiava le pastiglie per la tosse insieme alla nipotina di cinque anni. Popi era andato a pescare. Furono sguinzagliati a cercarlo tutti i ragazzi in bicicletta dei dintorni. Arrivò con un'aria cionlolona e mortificata che inteneriva i sassi. Ammise di aver incominciato lui a mangiare le pastiglie. « Ne ho provata una. era buona, sapeva di menta. Allora ne ho presa un'altra... » « Può precisarmi quante ne ha mingiate lei e quante la bimba? », replicava gelidamente il dottore, che non mostrava dì apprezzare affatto il comico della situazio ne. Ma Popi non sapeva dirlo. Allora — concluse l'altro —, nel dubbio e siccome non so cosa ci fosse nelle pastiglie, è meglio fare alla bambina la lavatura gastrica ». « Bisognerebbe farti la lavatura gastrica nella testa », gridava la signora Ebe al fratello, scendendo le scale, nelemozione confondendo anche le parti del corpo. Questo, a ogni modo, fu l'ultimo incidente, perchè considerando che non c'era, altra via per stare tranquillo, mi offrii d'ora innanzi di custodire io le bimbe. Le sere in cui la signora Ebe voleva uscire avremmo scambiato le lenzuola ai letti: io sarei venuto a dormire nel suo, e lei sarebbe andata a dormire nel mio. A questo modo era sistemato tutto, la signora poteva star fuori sin che voleva, e Popi pure, e io avrei finalmente dormito in pace. Da principio la signora non voleva, per non approfittare, ma poi la cosa si mostrò così comoda che praticamente finivo per dormire sempre io con le bimbe, e non cambiavamo nemmeno più le lenzuola ai letti, salvo la domenica quando veniva il marito. Le bambine non mi davano nessun fastidio, perchè la sera prendevo le mie precauzioni. Si erano subito affezionate e mi chiamavano zio Popi. Si vede che per loro tutti gli zii al mondo si chiamano Popi. Filippo Sacchi

Persone citate: Aurelia, Mimma Paolotti, Piccio, Traiano

Luoghi citati: I-luglio, Reggio, Roma