Il nostro Sella

Il nostro Sella Il nostro Sella I Biellesi, come si sa, han fatto di Quintino Sella quasi un nume indigete e tutelare. Quante volte, in ore critiche, si sente ripetere da qualcuno di loro: «Qui ci vorrebbe Quintino Sella! ». In congiunture simili, ma con meno affettuosa familiarità, i Romani invocano Sisto V. Mezzo biellese e mezzo romano (ma più biellese che romano quando vengo in Piemonte), io posso gustare tutto il sapore delle due invocazioni. E a Quintino Sella mi piace ritornare, ai suoi scritti, ai suoi discorsi, nelle vacanze estive o autunnali. Leggerlo è un piacere sano e corroborante, come quando si sale a una altura aperta e luminosa e si respira aria ossigenata. Leggo, e nelle soste della lettura, come accade, mi s'incrociano ricordi e confronti. Mi ritorna alla mente, fra l'altro, un episodio sentito raccontare in famiglia. Il mio nonno materno, a cui erano - affidati a Roma gli affari ecclesiastici della Russia, sùbito dopo l'insediamento della capitale aveva avuto occasione di avvicinare i ministri in carica. Abituato com'era ai costumi della vecchia diplomazia, agli stilizzati epigoni del congresso di Vienna, riferì che tra i ministri di Vittorio- Emanuele uno solo gli era sembrato un signore: il Visconti Venosta. E dal suo punto di vista aveva forse ragione. Ma Quintino Sella, che di quel ministero era la forza più viva e attiva, aveva per lo meno la signorilità di una vasta e bene assimilata cultura, come si vede nel tessuto dei suoi discorsi; e questa particolare signorilità si manifesta anche in certe lezioncine occasionali, o magari battute improvvise, con cui sapeva rimettere al loro posto giovani parlamentari intervenuti non felicemente in qualche discussione. Giovanni Faldella (delizioso e arguto autore di bozzetti patrocinato ai suoi esordi dal Carducci, poi quasi dimenticato, poi riscoperto dal Croce e oggi esaltato oltre il dovere da critici di avanguardia) era nel 1881 deputato novellino. Nel marzo di quell'anno, discutendosi alla Camera il disegno di legge sul concorso dello Stato nelle opere edilizie di Roma, disegno di cui Quintino Sella era relatore, il Faldella aveva preso la parola col suo fare faceto e sbarazzino, lanciando frizzi, tra l'altro, contro le accademie e la loro minuziosa e tardigrada attività. E Quintino Sella, di rimando: «E' facile ridere dell'Accademia (era quella dei Liryrei, pupilla dei suoi occhi); questa è cosa notissima. Probabilmente l'onorevole Faldella ha confuso un'Accademia delle scienze che forse non conosce bene, coll'Arcadia che io credo conosca meglio ». Il Faldella infatti aveva pubblicato da poco una caricatura (del resto piena di brio) della vecchia Arcadia allora insediata nel palazzo Altemps a Sant'Apollinare. Ed ecco che Quintino Sella, senza voler fare le vendette della povera Arcadia, metteva in caricatura il caricaturista. Aveva riso, il Faldella, del latino accademico. E il Sella (un velo di commozione s'indovina nella gravità dell'accento): «Oh! onorevole Faldella, quando vediamo stranieri rendere ancora quest'ultimo culto alla civiltà latina, adottando questa nostra antica lingua, non siamo almeno noi italiani quelli che ne ridano ». In una precedente seduta di quel marzo 1881, sempre a proposito del già ricordato disegno di legge, s'era riparlato a lungo di accentramento e decentramento, e i malumori regionali contro Roma, come avverrà più di mezzo secolo dopo, avevano avuto il loro sfogo alla Camera. Un altro attor giovane, Ferdinando Martini, svolgendosi il dibattito su la costruzione del palazzo delle Belle Arti a Roma, aveva invocato contro il progetto le tradizioni artistiche delle diverse regioni d'Italia, e anche a lui era toccata una lezioncina, ma più secca e staffilante: « L'onorevole Martini Ferdinando vuole che noi conserviamo in fatto d'arte la loro autonomia alle nazioni italiche Non c'è più la nazione italica, ti sono adesso le nazioni italiche » Ma nel leggere quanto disse Quintino Sella in quell'occasione (e parlò e polemizzò per parecchie sedute) un'altra polemica mi si veniva fingendo nella fantasia, tra lui e uno che non era alla Camera: il Carducci. No, Quintino Sella non era il tessitore impigliato nelle proprie reti, il ragno insidioso dell'ode carducciana a Roma, Nè «cose piccole», farfalle svolazzanti sotto l'arco di Tito, in quella Ruma che il Carducci lamentava trasformata in Bisanzio, erano i problemi che Quintino Sella si poneva e poneva ai rappresentanti della nazione. Era un uomo d'una forza di volontà pan alla robustezza dell'ingegno e alla solidità della cultura, uno spirito in cui perfetto si rivelava il rapporto fra il pensiero e l'azione, un realista della politica (come Cavour e Gioiitti) capace di osare al momento opportuno dopo aver tutto calcolato, ma non eia niente allatto estraneo ai grandi e belli entusiasmi. Il suo entusiasmo per la scienza già s'è visto; e come e quanto il Carducci, egli si esaltava al nome di Rnm.i Nel Canto dell'Italia che va m Campidoglio il Carducci aveva potuto esercitare a buon mercato il suo sarcasmo sui mezzi adottati dal Sella per salvare l.i finanza italiana. Ma in fatto di romanità Quintino Sella avrebbe potuto dar dei punti perfino Enotrie) Romano. II fascismo, purtroppo, ha fatto tagaQss tale uno sciupo di romanità che anche il nome augusto di Roma rischia oggi di sonar male. Peggio che un'orgia sfrenata, è stata una vile e nauseante prostituzione. Bisogna vincer quella nausea tCssvvper sentire quanta schiettezza di. raccento era nella romanità di sQuintino Sella. «Chi dunque ci.iha fatti quali siamo, — doman-| tdava il 14 marzo 1881 ai suoi colleghi della Camera — chi c'insegnò a volere una patria? Roma, niente altro che Roma... Non meravigliatevi se, quando si parla di Roma, le nostre vecchie ossa si elettrizzano... A'Ia non dimenticate, o signori, che siamo italiani per virtù di Roma, perchè se non fosse il sacro nome di Roma, le tante sventure, le tante ostilità che ebbe l'Italia l'avrebbero spezzata, l'avrebbero annullata; fu Roma che la tenne viva ». Questa prosa può ben reggere il confronto con la poesia del Carducci: « Son cittadino per te d'Italia, per te poeta, madre dei popoli...». Ma anche al Carducci dei Gìccmbi ed Epodi, poeta delle sinistre e del partito d'azione, rispondeva forse senza saperlo il grande statista della vecchia destra storica, rivendicando a sè la iniziativa d'aver presentato alla Camera, dopo Mentana e il jamais di Rouher, un ordine del giorno che ripetesse e confermasse la dichiarazione del 1861 su Roma capitale. Nel 1870, quando il Carducci sferzava quelli che irridevano il nome- di Roma come « un mito per le panche di scuola » e mettevano avanti il divieto straniero e la malaria. Quintino Sella, ministro, punzecchiava in Senato i seguaci della politica « contemplativa », paghi d'emetter di tanto in tanto qualche giaculatoria su Roma. La sua posizione nel ministero* Lanza egli la caratterizzerà più tardi con adorabile bonomia e modestia, rispondendo il 16 marzo 1880 a un'osservazione di Francesco Crispi: «Signori miei, che un ministro delle Finanze uso a spifferare chiaro, tondo, crudo a tutti quanti il suo pensiero; che un ministro più giovane del presidente del Consiglio d'allora, meno prudente, se volete; che un ministro il quale aveva votato sul serio nel 861 l'andata a Roma; che nella sua vita politica si era prefisso per scopo precipuo quello di arrivare da una parte al quadrilatero e dall'altro a Roma, fosse un po' impaziente, è troppo naturale e si capisce facilmente. Io non ero un diplomatico che potesse compromettere il Gabinetto, come un movimento di ciglio del mio onorevole amico Visconti Venosta, o un gesto d'impazienza dell'onorevole mio capo Lanza. Quindi io godeva di una certa libertà d'azione; ero, dirò così, il bersagliere nel ministero. Ecco tutto ». Se Quintino Sella passasse oggi per il piazzale di porta Pia e levasse gli occhi al monumento che vi sorge in mezzo, forse riconoscerebbe qualcosa di sè in quel bersagliere lanciato a passo di carica verso la porta. E questo forse gli diminuirebbe il dispiacere di veder il proprio monumento rimosso da via XX Settembre, dove l'avevano voluto i suoi con- nncgldp«tgndeplmltv■ 11111 < 1111111111 m i il i ■ 11111111111111 i 1111 ■ t r ii 11 il 111 temporanei, e relegato in via Cernala. Fu rimosso, come si disse, per facilitare la circolazione stradale. Se fu così, fu un provvedimento non necessario. Se invece la ragione fu un'altra e si ricorse a quel pretesto, fu una subdola offesa alla storia. Si sente in dovere di dirlo uno che è tut t'altro che un mangiapreti Pcr l'inaugurazione di quel monumento, credo, il poeta romanesco Adolfo Giaquinto pubblicò un gustoso sonetto, in cui finge che due guardie di questura lo ammirino e ne parlino nel loro dialetto abruzzese o molisano. Il più dotto spiega che vi è ritratto « un certo Selle » soprannominato « lu Quentinc ». Quanto al gruppo allegorico del basamento, non ha il minimo dubbio che la donna rappresenti « la mugliera » e « lu bardasele piccule », cioè il putto, « lu figlie ». Ebbene, i due questurini dell'Ottocento, con la loro ingenua ma non del tutto gratuita mitologia, mi paiono molto più spiritosi di questi nostri edili del Novecento. Pietro Paolo Trompeo iiiiiiiimim 11111111111 f 11111 ■ 1111111 ■ 111 m 111m1