Morte d'estate

Morte d'estate Morte d'estate Intorno a Pavese l'attenzione dei lettori più fini non si è sopita con la sua morte (eravamo abituati a vedere almeno un suo libro nuovo ogni anno): durerà e crescerà ancora. Sappiamo che egli è stato uno degli scrittori delle nuove generazioni destinati a restare nella nostra letteratura, per le pagine scritte e anche. Ira i_ pochissimi, per l'esempio dell'impegno, della rettitudine, della coerenza di tutta la sua persona- lità. Il suo nome ricorre ora co¬ me quello di un giovane maestro, di un caposcuola, anche se la scuola — si è parlato senza molto frutto di quella neovcrista — non c'era e non c'è. Ma è stato detto da Cocchi, a nome di molti: «Ce- sare Pavese era di. gran lunga ar¬ rivato piti avanti di tutti ». I numerosi e nuovi pensieri da lui meditati, i saggi critici di letteratura, con particolare importanza di quella americana, i più recenti scritti teorici porteranno argomenti suggestivi alla cono¬ scenza più approfondita della sua arte e della sua poetica, non tutta facile. Bisognerà non tardarne inutilmente la pubblicazione. Pavese non ha lasciato una sola pagina superflua o incontrollata, e va tenuto conto di tutto quello che ha scritto. E' uscito finora, postumo, il librettino poetico Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, presso il suo amico editore Einaudi, e qualcuno ha, non troppo a torto, messo in discussione l'opportunità di quella stampa isolata. Sono, in parte, le ultime poesie scritte da Pavese nei mesi, già destinati, che declinarono verso là sua morte, p son quelle tutte poesie d'amore, nel ritmo più breve e cantato (non più quello narrativo di La¬ vorare statica) un po' torbido, ossessivo, come una litania, una preghiera rituale, che egli aveva scoperto negli anni della sua rinascita « nell'isolamento e nella meditazione », dal '43 al '45 fra le colline di Crea. Sono poesie come incantate da quella nuova suggestione amorosa che aveva rotto, o forse fatta più disperata, la sua solitudine: dolore e morte vi suonano den tro con accento dominante. Se è mito — miraggio a lui caro — la trasfigurazione umana in cui si eterna un'immagine, una vicenda della natura, mitica vuol pssl. e 'a sostanza di questa nuovi poesia di Pavese (con un certo la del D'Annunzio di Maia e Alcione). « Verrà la morte e avrà i. tuoi occhi », egli dirà affascinato e umile alla donna che amava, ed ora è difficile dimenticare la Morte che ha quello sguardo umano. Brevi cose, rotte immagini, un fiato ansioso, che sembrano ac¬ compagnare il trapasso del poeta. Forse c'era in lui il sentimento, quasi compiaciuto, che si andasse realizzando un simbolo della vita, amore e morte, « un archetipo ancestrale ». Ma per indagare meglio anche questo complicato nodo della sua psicologia converrà ricorrere al diario, che nessun motivo di riserbo rende impubblicabile, e che del resto egli stesso curò con l'attenzione che si pone alle cose non decisamente private, e aprì e chiuse (o terribile chiusa del 18 agosto 1950, una settimana prima di morire: « non parole. Un gesto. Non scriverò più »! ) come si fa con un libro compiuto. Pavese cominciò il suo diario nel '3$, al tempo del suo confino politico a Brancaleone in Calabria e lo portò innanzi per quindici anni, seguendo perciò il cammino intero della sua arte, da Lavorare statica a La luna e i falò. Lo intitolò sul principio e per una certa parte Secretimi professionale, e poi tutto quanto // mestiere di vivere, come un tema educativo, che è poi anche una riprova di come in lui non ci fossero mai stacchi fra i problemi della sua poesia e quelli della sua vita; e là infatti possiamo seguire complesse e affascinanti meditazioni sul suo mondo artistico (letture, commenti, ricerca assidua dei suoi grandi motivi, il primitivo e il selvaggio, la nasci- ta e il percorso di alcune sue creazioni, i primi colloqui con Dio — ma «non è da dimenticare che Dio significa pure cataclisma tecnico-simbolismo, preparato da anni di spiragli » —) e quelli che egli stesso chiamava « i grandi fi¬ loni della sua vita interna ». Si rivolge a se stesso con il tu; solo negli ultimi mesi, nella prepotenza di un dolore nuovo e di una incalzante determinazione, quel tu diventa io. Non appaiono se non di rado i dati pratici della sua esistenza: qualche ricordo dei suoi soggiorni romani, o fra le colline del Monferrato, e brevemente degli amici, della vita torinese; altrimenti, non ci sono che memorie precise, nette, succose dei suoi prediletti autori (elisabettiani, Shakespeare, Vico, classici antichi e qualche russo, qualche americano), e del suo vario e tenace cammino morale e intellettuale Dei suoi contemporanei, qualche distaccato giudizio, con l'amico Vittorini una vicinanza e un confronto. E poi le lunghe riflessioni sul proprio lavoro, sul passaggio dal realismo naturalisticopsicologico, « troppo povero », al realismo simbolico. « Non si tratta di scoprire una nuova realtà psicologica, ma di moltiplicare i punti di vista che riveleranno nella normale realtà una grande ricchezza. E' un problema di costruzione ». E vedrà ili Moby Dick un suo grande modello. « E' una scoperta del nostro tempo. Non è personaggio, è puro ritmo. Narrerà ora., chi possiede blocchi di realtà, esperienze angolari che gli ritmano e cadenzano e ricamano il discor- so. Hemingway ha la morte vio¬ lenta... Conrad la perplessità dei mari del Sud, Joyce lo stereoscopio delle parole-sensazione, Proust l'inafferrabilità degli istanti, Kafka la cifra dell'assurdo, Mann il ripetersi mitico dei fatti, ecc. ». E lui, Pavese? Sapeva di avere i suoi blocchi di realtà (lo ebbe subito il « grosso monolito » da lavorare, il primo libro di poe sic), le sue esperienze angolari — i suoi miti, il destino, l'infanzia: sentiva di essere uno scrittore della specie di quelli nomi nati. Si lusingava anche di aver concluso il ciclo storico, la saga del nostro tempo, a Carcere (antifascismo confinario). Compagno (antifascismo clandestino). Casa in collina (resistenza). Luna e (alò (post-resistenza)». Aveva coscienza delle sue capacità, della forza crescente, della sicurezza del suo dominio artistico: conosceva i suoi trionfi. Diceva a se stesso con stupore: te lo avessero detto a vent'anni! E subito scuoteva le spalle; tutto bene, e poi? l'hai avuto: t'importa? Segnava nel diario con calmo orgoglio i successi, le recensioni ricevute, la consacrazione raggiunta. Ma accanto, tutti i suoi tormenti, le cadenze del suo soffrire, l'inclemente lotta con se stesso, i rimorsi ( per i t momenti di prudenza », per non aver combattuto, per non essere morto come altri). Chi si aspettasse una qualche rivelazione di una sua crisi politica, resterebbe deluso: solo una volta, fra i pesi della vita, accenna al suo impegno in una responsabilità politica « che lo schiaccia ». Troveremo nel diario anche una spiegazione alla morte che volle? Non basteranno le frementi, ora dolci ora disperate, ora umili ora sdegnose confessioni del 1950 (l'anno non finito, «l'anno che non finirò») per farci credere che un episodio della sua vita abbia contato da solo, più che un'antica confidenza con a morte congiunta a uno sfinimento di tutto il suo essere e al senso di conclusione della sua opera. Forse anzi morire era abbandonarsi, sfuggire alla costrizione di tante armature, essere ragazzo, « una protesta di vita » come diceva (e quasi con sgomento: « che morte non voler più morire »! ), e addirittura un'affermazione di maggior vita, quando si sparisce nella vitale prepotenza dell'amore. Ma certamente la morte, per mille vie, in molti sensi, per lui stoico dovette essere un esplicito, persuaso congedo da una vita che aveva esaurito tutte le sue ragioni. La luna e i falò, il libro ultimo, portava in sè i segni di questa malinconia della compiutezza. L'uomo che è ritornato al paese e l'antico Nuto suonator di clarino non guardano immalinconiti a un mondo distrutto? « A mezzogiorno era tutta cenere ». Come il corpo di Santa pieno di colpe, cosi nella loro maturità, nel loro mezzogiorno, tutto l'in¬ cbctf(qmsdtulel'ncssudaGdl'Pzgcarpggpcdd cosciente stupore dell'infanzia è bruciato in un falò, è ridotto in cenere. Davvero la maturità era tutto, anche la morte volontaria Ancora qualche ribellione di fronte all'ardore della vita fisica (ma non più alle speranze di quella intellettuale): «non sono mai stato v^vo come ora, mai così adolescente »; « più il dolore è determinato e preciso, più l'istinto della vita si dibatte »; ancora un'esitazione — « sembrava facile, a pensarci. Eppure donnette l'hanno fatto. Ci vuole umiltà, non orgoglio» •- poi, dopo alcuni giorni di silenzio, il « gesto ». Chi può giudicarlo? Malinconia dell'estate. Era la sua stagione, vuota di vita cittadina, ma piena della sofferente e amata solitudine del suo spirito. Gli amici ancora lontani, l'ultima domenica dell'agosto. Potè guardare dalla stanza dell'albergo la provinciale piazza Paleocapa, il giardino della stazione dove qualche suo personaggio s'era soffermato, non so se la collina, che nessuno come lui aveva conosciuto e cantato. Aveva desiderato essère « perenne cr>me una collina »! Nelle pagine del diario si possono scegliere queste parole come un'epigrafe per la sua tomba: «La mia parte pubblica l'ho fatta — ciò che potevo. — Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti ». Franco Anfaniceli!

Luoghi citati: Calabria, Carcere, Monferrato