Canzoni naziste di guerra come se fosse uno scherzo

Canzoni naziste di guerra come se fosse uno scherzo SENTIMENTI CONFUSI NELLA GERMANIA D'OGGI Canzoni naziste di guerra come se fosse uno scherzo Storie patetiche alla cerca della simpatia - Gli orrori del tempo di Hitler e l'altra faccia della medaglia - Il bravo tedesco, la buona famiglia tedesca... - Ma un coro si leva piuttosto imbarazzante (Dal nostro inviato srjeciale) Neuharlingersiel, agosto. Eravamo in una grande sala irregolare: in fondo, a sinistra, c'era come un salotto; a destra il banco del bar. Nel salotto, attorno ad un tavolo rotondo, con la tovaglia rossa, sedevano i componenti d'una mediocre orchestra. Ogni sonatore aveva un grosso bicchiere di birra davanti a sè. Al banco del bar gente si pigiava ■ con molta confusione. Un uomo, alto, gigantesco, vestito da marinaio, gridava come impazzito e picchiava pugni sul banco. Tutti bevevano alternando un bicchiere di birra con uno di cognac. E secondo l'uso del luogo, il cognac veniva seruiìo ghiacciato. <Che strana usanza — dissi al mio vicino. — In tutto il mondo il cognac si beve diversamente, molti riscaldano persino il bicchiere prima di versarvelo; invece qui lo si ghiaccia»'. Mi fu risposto: * Ma qui siamo a Neuharlingersiel ed abbiamo usi diversi da tutto il mondo ». Diretto a Spiekeroog, ad una delle isole Frisie, avevo 'lasciato Brema nel pomeriggio ed er» giunto a NcuharUngersiel troppo tardi per prendere il battello. L'avevo subito capito senza che nessuno me lo dicesse perchè mi, era bastato guardarmi attorno. La bassa marea aveva lasciato in secco alcune barche ed esse appoggiavano la chiglia su una nera e viscida melma che velocemente s'induriva come una crosta. Il mare, ritirandosi, lasciava scoperto un grande tratto di terra levigata e luccicante; e là sopra i gabbiani più che volare, preferivano camminare. Domandai quando sarebbe stato possibile partire: « Domani mattina, con la marea alta » mi risposero. Le lettere della vedova Mi trovavo in un piccolo paese. C'era un vecchio ponte a schiena d'asino e dalle due parti, lungo un canale, poche case di pescatori. Era domenica e mi pareva che tutti gli abitanti fossero raccolti intorno al ponte aspettando che la giornata finisse. Uno di quei pescatori mi aveva detto dove potevo dormire ed ero capitato in quella specie di locanda, in mezzo ad una festa estiva. L'orchestra, seduta nel salotto, sonava vecchie polche, vecchi valzer; i sonatori stonavano e bevevano con uguale entusiasmo. Molti già balla■lllllllllllllllllllllltllllllllllllllllllllltllllllllllll lllllltllltlliiliiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiitilllllllllllllllivano, in maniera pesante. Ogni tanto mi passava davanti un giovanotto col braccio sinistro amputato; faceva rapidi giri e la manica vuota della giacca sbattacchiava sulla schiena della ballerina. Molti cominciavano ad essere ubriachi e nell'aria si sentiva come il riverbero d'una violenza non sfogata. Io so come l'italiano riesca ad essere ubriaco, od a fingersi ubriaco ed allora diventa leggero, fantasioso e piacevole. Altro era guardare questi tedeschi, marinai e pescatori del nord. Erano prepotenti, non avevano nessuna grazia nella voce e nei gesti, nessuno, invenzione della fantasia. Mentre li guardavo mi chiedevo perchè mai stessi a guardarli. Un tale, alto e grasso, vestito ridicolmente, si alzò da un tavolo e venne verso di me. Aveva la faccia rotonda, sotto la fronte gli luccicava lo sguardo mansueto e testardo. Portava calzoni a sbuffo, la giacca era alla cacciatora, di tela verde. Si capiva che anche lui non doveva essere del luogo. Mi sorride e con una cordialità che penso provocata dall'ubriachezza, mi mostra una lettera. Rivolgendomi la parola in francese, perchè senz'altro mi ha creduto tale, mi dice: « Tutti gli anni ricevo una lettera come questa ». Credetti d'avere di fronte un tipo strambo e non mi rimase altro da fare che leggere l'indirizzo scritto sulla busta, dal momento che l'altro me la teneva sotto agli occhi. « E' lui che mi ha insegnato il francese » continuò a dirmi con tono improvvisamente grave. E poi aggiunse: < Ma adesso lui è morto e sua moglie continua a scrivermi tutti gli anni, come faceva prima lui ». Con un lieve gesto del capo aveva chiesto se gli permettevo di sedere al mio tavolo. Gli avevo detto di sì senza entusiasmo. Quando fu seduto volle ordinare birra e cognac — il cognac che servivano ghiacciato — per noi due. La lettera era rimasta sul tavolo, come una cosa dimenticata. Per cortesia gli domandai chi era la vedova che gli scriveva ogni anno, capivo che da un pezzo egli attendeva questa mia domanda. < Eh — disse con vivacità — una storia simpatica. Lui era prigioniero durante la guerra e lo avevano mandato a lavorare llllllllllllllillllllfllllllllllllllllllllllllllllllllllllt nella fattoria di mio padre. Io, allora, ero un ragazzo ». Fece una pausa, conteggiò ti tempo trascorso e riprese: « Rimase in casa nostra un anno e mezzo, noi diventamelo amici, lui si chiamava Jean Petit ed era di Pontoise. Un magnifico uomo e noi diventammo amici ». Fece un'altra pausa, desiderando che mi mettessi bene in mente come « lui » fosse un magnifico uomo e come « loro due » avessero fatto amicizia. Continuò a raccontare: * Anche dopo la fine della guerra venne a trovarci una volta, ed anch'io tre anni fa ondai a Pontoise e rimasi qualche settimana suo ospite. Si era sposato e conobbi la moglie; ma pochi mesi dopo egli moriva in un incidente stradale. Da allora sua moglie continua l'abitudine che aveva lui, di scrivermi una volta all'anno ». Maniera ingenua Prese la busta, tolse il foglio che c'era dentro e me lo mostrò: < Mi è arrivata ieri mattina > disse. Sul foglio c'erano poche righe e te lessi presto. Con ingenua grazia madame Petit dava notizie intorno alla propria salute, e poi madame Petit chiedeva notizie sulla salute del suo amico tedesco. Gliela riconsegnai dicendogli che era una simpatica lettera. Desiderava evidentemente sentirsi dire quanto gli avevo detto e da quell'istante diventò ancora più cordiale. Sempre ritenendomi francese, mi fece l'elogio di Parigi; quindi, con la fissazione degli ubriachi, tornò a ripetermi la storia dell'amico prigioniero; e, alla fine, mi pregò di andare al suo tavolo. Voltandosi me lo indicò, era un tavolo d'angolo, un poco al riparo e vidi che già sedevano tre uomini e due donne ed anche costoro non dovevano essere del luogo, ma capitati per caso. Accettando, mi trovai vicino ad una delle due donne. Era magra, bionda, non brutta e, cosa abbastanza rara, persino vestita con gusto. In quel momento l'orchestra sonava pesantemente una vecchia polca, molti ballerini invadevano la sala e ta confusione era enorme. In tutti vi era qualche cosa di scatenato e quasi sembrava che ci fosse anche dell'ostentazione, come se si trattasse di superarsi a vicenda. Cercando un pretesto per chiac- chierare raccontai della lettera vista poco prima, quella che ogni anno madame Petit manda all'amico tedesco di suo marito. < Ho una storia migliore > mi disse subito, con serietà, la signora. Cominciò a raccontare che durante la guerra lei abitava vicino a Stoccarda,' in una villa: un pezzo di parco ed il giardino erano stati trasformati in campi di patate. Suo padre aveva ottenuto due priaiojiieri francesi come lavoratori: < Due bravi ragazzi — disse — volonterosi e bene educati. Dopo qualche tempo li trattammo come se fossero della nostra famiglia ed in quei tempi c'era un modo unico per dimostrarlo: mangiavano le stesse cose, nella stessa quantità che potevamo avere noi». Con puntiglio meticoloso ripetè come fossero le razioni d'allora, te difficoltà per avere un uovo, mezzo etto di burro, poche patate. Soddisfatta d'avermi fatto capire che i due francesi erano stati trattati < come di famiglia >, passò alla seconda parte del racconto. Quando la guerra era finita, lei aveva saputo due cose. La prima, che uno di quei due giovanotti francesi prigionieri di guerra era figlio d'un generale; la seconda, che suo fratello, il quale si trovava a Strasburgo, era scomparso, non si riusciva ad averne notizie, tutte le ricerche possibili (almeno, a loro) erano state fatte senza risultato. E qui cominciava il patetico della storia, che da un pezzo io aspettavo. Raccontò con una punta di emozione che, non sapendo più a chi rivolgersi, lei aveva scritto al giovanotto ex-prigioniero pregandolo di aiutarla. Il giovanotto si era rivolto al generale suo padre, e costui si era messo con tale impegno nel soddisfare le richieste di quei tedeschi che avevano trattato suo figlio < come uno di famiglia », da riuscire a risolvere ogni mistero, c Purtroppo — disse la sigtiora — mio fratello era morto, ma almeno adesso sappiamo come e quando è morto e dove è sepolto. Lo dobbiamo ad un generale francese, che oramai considero come un amico personale ». / due racconti mi erano stati fatti perchè mi si riteneva francese ed io non ebbi la voglia di dire che sbagliavano considerandomi tale. Non ne valeva la pena. Li avevo sentiti in mezzo al frastuono di quella sala, ed era facile capire che i miei narratori cercavano una simpatia, persino la reclamavano in maniera così ingenua, che non bisognava negargliela. Forse inconsciamente rappresentavano l'altra faccia della medaglia, da una parte i campi di concentramento, le camere a gas e, dall'altra, il bravo tedesco, la buona famiglia tedesca. Quei racconti, non devo nasconderlo, ottenevano un certo effetto, anche se sapevo come giudicarli: casi singoli, molto umani e perciò comprensibili. Imbrogliare le carte Pensavo su per giù a questo modo quando nella sala capitò qualche cosa. Nell'angolo opposto al nostro, un gruppo si era messo a cantare in una strana maniera. Le voci erano ora forti e militaresche, ora infantili e come di scherzo. Altri, ad un altro tavolo, si erano uniti ai primi, ed il canto cresceva in maniera impressionante. <Che cosa cantano?» domandai. La signora mia vicina rimase un attimo imbarazzata, si capiva che non sapeva con quali parole rispondere. < Che cosa cantano t> domandai ancora. Alzò le spalle come infastidita poi, velocemente come se volesse suggerirmi di non dar molto peso alla cosa, disse: « E' una canzone del tempo di guerra ». « Una canzone nazista* ». «SI». Rimasi ad ascoltare quelle voci, ora di vera violenza, ora trillanti come in un giuoco. Quando il canto terminò domandai com'era possibile urlare a quel modo e se non temevano complicazioni. A gara i miei due narratori cercarono di spiegarmi che noi ci trovavamo in un posto fuori mano, non c'erano controlli, tutto era quindi permesso, c E poi — aggiunse la signora — e poi cantano fingendo un tono ironico, proprio come se si trattasse d'uno scherzo. Se venissero sorpresi potrebbero imbrogliare le carte ». I miei occasionali compagni erano davvero avviliti. Sembrava loro che quei canti avessero annullato la bellezza dei racconti che mi avevano fatto e soffrivano. Era una confusione di sentimenti; era una ombra, un esempio di quella confusione sentimentale in cui vive ancora la Germania d'oggi. Enrico Emaniseli? lllllMIIICMIIIIMIIIIMtllllIlllllllIlllllllilM

Persone citate: Brema, Hitler, Jean Petit, Petit

Luoghi citati: Germania, Parigi, Stoccarda, Strasburgo