Avventure stendhaliane

Avventure stendhaliane Avventure stendhaliane Negli ultimi mesi del 19^3, o nei primi del 1944, quando infuriava a Roma la persecuzione antisemita, ebbi una telefonata che davvero non m'aspettavo. «Lei non mi conosce: sono uno stendhaliano e desidererei fare la sua conoscenza ». « Il suo nome? ». « Bruno Pincherle ». In quel clima d'inquisizioni, di agguati, di basse vendette, quel cognome tipicamente ebraico poteva giustificare il sospetto di un'insidia. Ma non ci pensai neppure lontanamente. Noi stendhaliani (parlo di quelli veri) siamo una confraternita in cui domina la buona fede. Quando, poche ore dopo, ebbi il piacere di ricever Pincherle in casa mia, gli chiesi come mai avesse osa to affidare il proprio cognome a un telefono che poteva essere sorvegliato. Mi rispose che non aveva voluto, presentandosi a me, ricorrere a una finzione o a una reticenza. Pincherle è uno degli uomini più leali e generosi ch'io abbia conosciuto.. Quella risposta fu il primo segno che ebbi del suo bellissimo caratte re. Lo ringraziai, ma non potei fare a meno di ricordargli, nel comune interesse, che la prudenza è la prima delle quattro vir tù cardinali: mi telefonasse pure quando voleva, ma si servisse d'un nome convenzionale. E il nome fu ben presto trovato: quello del più romantico e bizzarro personaggio della Chartreuse de Parme, il banditopatriota Ferrante Palla, dottore in medicina proprio come Pincherle. Come seppi più tardi, alla Chartreuse aveva ricorso durante la guerra e la resistenza anche il mio amico Jacques Heurgon, che parlava a una radio degollista nordafricana con lo pseudonimo ottimamente scel to di « lieutenant Robert ». Quel lo di Ferrante Palla era stato già adottato da Pincherle nel pub blicare insieme con Bruno Maffi (in clima di antisemitismo ancora relativamente mite) una traduzione commentata di Rome, Naples et Florence, che io ave< vo ammirato come un modello di appassionata e intelligente erudizione stendhaliana. Ma ora anche lui era un proscritto e un randagio come Ferrante Palla. Viveva chi sa in quale nascondiglio, dove collaborava a giornali clandestini. Per salvare un fratello dai vagoni piombati, l'aveva fatto operare di una appendicite inesistente con la generosa complicità dei Fatebenefratelli all'Isola Tiberina. Ma tutto questo non gl'impediva di perlustrare Roma sotto gli occhi della polizia nazista per scovare nelle librerie antiquarie e nelle bancarelle qualche cimelio stendhaliano. E di tanto in tanto ne trovava; e veniva a mostrirmila sua preda con una candida gioia che m'inteneriva. Sentivo ch'era più stendhaliano di me. Con me poteva aprirsi anche su cose di politica, e lo sapeva. Ma di politica mi parlava appena, come di qualcosa che non toccasse il fondo della nostra nascente e già sicura amicizia, in quel paradiso che doveva esser per lui, lontano dai suoi libri andati dispersi nella sua precipitosa fuga da Trieste, il settore stendhaliano della mia biblioteca messo intieramente a sua disposizione. Lì dimenticava tutto: perfino gli orrori della caccia all'uomo. Da allora Bruno Pincherle non ha cessato di tenermi al corrente di quanto viene scoprendo intorno a Stendhal. Piccole scoperte, ma infinitamente gustose, e illustrate con una perizia e un intuito invidiabili. Nello scorso autunno me ne anticipò una, che poi presentò al convegno stendhaliano nell'antica capitale dei Farnese e che ora viene pubblicata nel fascicolo di « Aurea Parma » dedicato a Stendhal, insieme con scritti di Vaudoyer, Martincau, Bonfantini, Michel, Boyer. Del Litto, Pellegrini, Gaillard. Magnani, Lombardi, Blin, Bernini, Caraccio, Brombert. Anche questa parrebbe una piccola scoperta, ma in realtà è di molta importanza. Nel libro De l'amour, scritto a Milano nei lucidi intervalli della sua non corrisposta passione per Metilde Dembowski Viscontini, Stendhal ricorda quattro esempi di quello ch'egli chiama « amour-passion »: l'amore della Monaca portoghese, di Eloisa per Abelardo, del capitano di Vésel, del gendarme di Cento. Domandatogli chi fossero codesto capitano e codesto gendarme nominati cogli altri due famosi esempi, disse di non ricordarsene. Era evidentemente una risposta evasiva, perchè non si curiosasse nei suoi fatti personali. Chi ha familiarità con Stendhal sa benissimo che nei suoi libri ci sono di tanto in tanto allusioni che lui solo poteva capire o al più uno o due lettori e lettrici. Per quel passo delVAmour la lettrice a cui pensava era Metilde, unicamente Metilde. VAmour è tutto pieno di velate allusioni a lei e a fatti che lei sola poteva conoscere. Questa è dedizione amorosa: altro che il libro dannunziano in esemplare unico per la donna unica! Ma che cosa pntevan significare per Metilde il capitano di Vésel e il gendarme di Cento? Quest'ultimo era già stato identificato, più di mezzo secolo fa, da un uomo politico italiano che aveva il gusto della erudizione storica, il conte Nerio Malvezzi, poi ministro dell'agri coltura nel secondo ministero Fortis. Il gendarme era un tal Antonio Grasselli, che nel 1807 ricambiato ■ d'amore da una ragazza di Cento, Rosa Vancini, ma ostacolato dai parenti di lei, aveva proposto a questa di morire insieme spartendosi una pesca cosparsa di veleno. Il propo¬ sito era stato messo in atto con pari stoicismo. Una cronaca lo cale, segnalata dal Malvezzi e poi da altri, ma tuttora inedita, serba memoria del drammatico avvenimento, e Bruno Pincherle ne pubblica ora quanto si riferisce al gendarme e alla Rosa Preziose sono soprattutto le illazioni stendhaliane, per me calzantissime, ch'egli fa con la sua competenza e col suo sicuro intuito. Lo spazio non mi consente qui di esporle^ non che chiosarle. Basti dire che in quel fatto di sangue, probabile argomento di conversazione nella società frequentata a Milano da Stendhal, questi doveva vedere come un simbolo della propria passione per Metilde. Non pensò egli in quel tempo, come confessò direttamente e indirettamente, al suicidio? E Metilde, da cui s'illudeva d'esser corrisposto e respinto solo per punto d'onore non avrebbe riconosciuto un'allusione (e quasi una minaccia) nell'episodio di cui avevano certo parlato insieme, ricordato ora in quel libro scritto per lei? Se quest'ultima ipotesi può parere arrischiata, la responsabilità ne è tutta mia. L'identificazione del capitano di Vésel, personaggio ben più misterioso, è merito invece di Pincherle, e soltanto di: Pincherle. L'ha ripescato nelle Memorie postume, notissime a Stendhal e da lui spesso citate, d'un ufficiale svizzero passato al servizio della Francia, quel barone di Besenval che il giorno della presa della Bastiglia tentò, senza riuscirci, di domare l'insurrezione parigina, e divenne perciò inviso alla corte non meno che ai rivoluzionari. In una specie di racconto dialogato egli riferisce un'avventura capitatagli a VVesel. Una signora, ancor giovane e graziosissima, lo accolse una sera misteriosamente nella propria casa per confidargli un suo strano segreto amoroso. Un uomo l'amava alla follia, che ella stessa amava, ma a cui rifiutava di concedersi perchè temeva che allora cesserebbe in lui l'amore e soprattutto perchè il sentimento di lui scadrebbe comunque di nobiltà e di gratuita dedizione. Stendhal, sempre intento a ragionare sui propri sentimenti e su quelli (veri o supposti) degli altri, nelle pagine di Besenval doveva leggere come in filigrana la storia sua e di Metilde. Tanto più che la signora di Wesel, proprio come Metilde quando gli ardori di Stendhal divenivano importuni e minacciavano di comprometterla, inibiva al suo patito per un tempo più o meno lungo l'ingresso nella sua casa. E' molto probabile che Stendhal abbia fatto leggere^ a Metilde, perchè anche lei^^sjjricpnqscesse, quel volume delle Memorie di Besenval: sappiamo di altre letture comuni e di altri prestiti di libri. Ma, se cosi fu, fu un falso passo, da aggiungere ai tanti che il povero Stendhal fece allora. Metilde non avrebbe mai consentito ad ammettere che un raffinato calcolo d'amor: proprio, come quello della signora di Wesel, la tratteneva dal gettarsi tra le braccia di Stendhal. Alla felice identificazione proposta da Pincherle si potrebbe fare Ce lui stesso se la fa) una obiezione: dal testo di Besenval non risulta che il patito della signora di Wesel fosse un capitano, e neppure un militare. Può essere che Stendhal, per un'oscura associazione d'idee, abbia attribuito all'anonimo personaggio la qualità di militare ch'era invece di Besenval, interlocutore nel dialogo da lui riferito. Ma io credo che Stendhal abbia a bella posta abbuiato le cose, per disorientare il lettore comune ed esser compreso dalla sola Metilde. Anche la forma francesizzante Vésel, invece di Wesel, può essere uno dei tanti errori di Stendhal, tutt'altro che incensurabile in fatto d'ortografia e poco familiare con quella tedesca. Ma può essere anche un ritocco a ragion veduta, per addensare il mistero intorno a quell'allusione personalissima. Ancora un corollario. Che Metilde amasse Stendhal, che non volesse confessarlo e che non gli si volesse concedere per questa o quella ragione, tutto lascia pensare, l'abbiam già detto, che fosse un'illusione di lui. Perciò i tratti di somiglianza che Stendhal vedeva tra la settecentesca signora di Wesel e la romantica signora di Milano per noi dileguano in gran parte. Ma la signora di Wesel aveva profeticamente ragione. Se Metilde si fosse concessa a Stendhal, non sarebbe divenuta la vera e sola ispiratrice delle sue finzioni di romanziere poeta. L'amore, per non scadere, deve passare attraverso la rinuncia e il sacrificio. Deve forse esser consacrato dalla morte. Metilde morì giovane, come Beatrice, come Laura. Forse per questo in certe pagine di Stendhal in cui si parla di lei, o in cui si avverte, velata, la sua presenza, c'è come un sospiro che può far pensare alla Vita nova o al Canzoniere. Pietro Paolo Trompeo Abito estivo color azzurro cielo Indossato dall'attrice Inglese Glynls Johns. Cappello alla coolle e rose alla cintura nera qnaiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiMiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiuiiiiiiiiiiiiiiiiii iiuimiiiiiiiiiisai

Luoghi citati: Cento, Francia, Milano, Parma, Roma, Trieste