America e americani visti dopo il ritorno di Mac Arthur

America e americani visti dopo il ritorno di Mac Arthur INCONTRO CON UNA FORMIDABILE REALTÀ' America e americani visti dopo il ritorno di Mac Arthur La parola guerra corre per gli Stati Uniti come la parola dollaro - "Un vecchio soldato non muore mai,,: in milioni di dischi - Segno sinistro ovunque: "rifugio,, • Come sono intese le intenzioni Truman e quelle del proconsole - Qualche riguardo per la vecchia Europa (Dal nostro inviato speciale) Washington, maggio. E' sera tardi. Pioviccica. Dalle foreste galleggianti sulle grandiose acque del Potomac viene un fiato fradicio di umido profumo. Con un ultimo cenno di saluto lo sportellone del Constellation vien chiuso pesantemente e l'apparecchio si volge verso la pista di lancio. Andrà dritto di qui a Shannon in dodici ore di volo ininterrotto: incontro alla notte e all'Europa. Lo guardo partire non senza qualche tenerezza. Dentro quell'aeroplano ho vissuto e volato per diecimila miglia, su quasi tutta l'America. Ero in una comunità allegra e tranquilla, una specie di microscopica internazionale. In essa, indiani e pakistani, inglesi e tedeschi, italiani e francesi, spagnoli e irlandesi, israeliani ed arabi e greci (gli accostamenti non sono intenzioìiali), abbiamo diviso le fatiche di un così lungo ed impegnativo viaggio, comunicando tra noi, scambiandoci pensieri ed osservazioni, discutendo e criticando, senza frizioni e senza rinuncie mentali. Dentro quel potente aeroplano delle Trans World Airlines che ci ha portato avanti e indietro sulla lunghezza di mezzo meridiano terrestre, il mito delle Nazioni Unite ci è parso assai più consistente che non nella strana scatola di cristallo verde a trentotto piani che ne rappresenta la chiesa maggiore sull' East Side River a New York. Ognuno dei trentaquattro rappresentanti della staìnpa mondiale invitati i?» America dal Dipartimento di Stato e dalla Compagnia di trasporti aerei T. W. A., ha potuto compiere una esperienza della quale qui traccere¬ mo i primi lineamenti. Nessuno di noi è venuto a cantare la gloria degli Stati Uniti, preparato da un lungo tirocinio di partito e da un'approfondita tecnica dell'apologia e della propaganda. A nessuno di noi è stato chiesto di dire ciò che non ha visto e di non dire ciò che ha visto. Gli americani che amano di dare un nome ed' un cognome non soltanto alle cose (treni, piroscafi, automobili, grattacieli, macchine per lavare, ecc.) ma anche ai fatti e alle azioni, hanno chiamato questo viaggio d'informazione la scampagna della verità>. V'è forse in questo un'intensione polemica, ma solo un'intenzione. Aggiungerò anzi che taluno di noi non negava le proprie prevenzioni. Il gruppo europeo non mancò alcuna occasione per rilevare certi lati, ai suoi occhi, o deboli o criticabili di uomini e aspetti degli Stati Uniti. Anche iìi manifestazioni pubbliche alle quali eravamo chiamati dicemmo ognuno con libertà quanto ci stava a cuore: così lo scrivente dichiarò all'arrivo al New York Times che l'Italia si interessava al progresso atomico americano non solo per le garanzie che esso poteva offrire all' Europa in caso di guerra, ma soprattutto perchè applicato alle industrie di trasformazione avrebbe risolto problemi sociali dolorosissimi nei paesi poveri; così l'indiano Gosh, parlando a Detroit al signor William Ford, secondo dei tre eredi di Henry Ford e direttore commerciale della grande casa produttrice di automobili, disse che il suo paese si aspettava dall'America macchine agricole e non carri armati. dissi, « lienzo »: in castigliano. Aggiunsi: < Nel catalogo del museo del Prado si legge continuamente: <.lienzo> di Rubens, « lienzo » di Velasquez, < lienzo » di risiano, eccetera ». Arias disse: « Effettivamente, quelli sono i soli < sheets » che abbiamo saputo produrre in Europa*. Colpe e potenza Ma, dico, tutto questo non redime le colpe degli europei, nè diminuisce Za potenza degli Stati Uniti. I fogli di acciaio prodotti negli stabilimenti grigi e tetri delle vaili di Detroit servono poi a difendere i gloriosi « Zensuoli» dipinti dai maestri della civiltà europea. Il nostro è destino degli imprevidenti: lamentarsene appare inutile e tardivo. Il nostro viaggio sul continente americano si è svolto mentre si sviluppava la crisi Truman-Mac Arthur. Siamo arrivati a New York che non s'erano ancora rimosse dalle strade le tremilanovecento tonnellate di pezzetti di carta, fogli di elenchi telefonini, coriandoli, stelle filanti e rotoli igienici lanciati dagli entusiasti sulla testa dei loro eroi nazionali, durante i trionfi della Quinta strada. A Chicago, in una sera gelida, tra ghiacciate luci di riflettori e lampeggiatori fotografici abbiamo ascoltato il discorso del proconsole di Asia al Soldier's Field. Vi erano trecentomila persone entusiaste ma assai poco convinte. A Sun Francisco abbiamo abitato nella camera e dormito nello stesso letto occupato la notte prima da Mac Arthur. Anche sulla costa della California l'eroe di Bataan ha bandita la guerra santa tra nevicate cartacee, fuochi di bengala, cortei di motociclette e canti corali della vecchia ballata < An old soldìer never die » (< Un vecchio soldato non muore mai >) citata nella patetica perorazione del suo primo discorso al Congresso e che, rintracciata da un editore di dischi, dopo ventiquattr'ore fu stampata e incisa e adesso si vende in tutta l'America in milioni di esemplari. (Ma ciò che Mac Arthur non sospettava è che la ballata servì come inno alla brigata comunista americana durante la guerra di Spagna). Noi la udimmo dagli altoparlanti, nelle trincee della città universitaria di Madrid. A Washington, infine, mentre sulla pelouse del suo giardino alla Casa Bianca, il Presidente Truman ci parlava e si faceva fotografare con noi, Mac Arthur, cinquanta metri più in là, dinanzi alla commissione d'inchiesta del Settato pronunciava l'ennesimo atto di accusa contro la politica asiatica del governo democratico. Voglio dire, itisomma, che siamo capitati nel rosso dell'uovo, in un momento particolarmente acuto della crisi americana, che non è finita e non si definisce solo nel duellò Truman-Mac Arthur. Pareva quasi che il nostro viaggio di informazione si svolgesse sotto la gridante, sollecitazione dei titoli di giornali, pareva che quei chili di carta portati og-H mattina nelle nostre carne . in albergo volessero metterci la pulce nell'orecchio, volessero ognuno tirarci dalla sua parte col vociare degli allarmi e delle rivelasioni. Era invece una nostra illusione: nessuno negli Stati Uniti vi inviterà a pensare in una certa direzione, se voi non mostrate di volerlo fare per conto vostro. Noi siamo passati da New York, Stato con governatore repubblicano Dewey e sindaco democratico Impellettieri, a Pittsburgh, a Detroit, centri e vertebre principali della potenza americana, a enorme maggioranza repubblicana; da Chicago, di natura politica bifronte come New York, a Los Angeles e San Francisco, in maggioranza 'epubblicane; e di qui agli Stati del centro, con Kansas City, roccaforti del Presidente Truman, senza poter stabilire un criterio Valido su quel che gli americani pensano del Presidente e del Generale. Abbiamo potuto stabilire con sufficiente approssimazione, però, che per gli americani (pure cosi aZieni ma sempre affamati di simboli) Truman e Mac Arthur vogliono significare, il primo: la pace finche è possibile; il secondo la guerra al più presto possibile-. La parola guerra corre per gli Stati Uniti quasi altrettanto frequente che la parola dollaro. E' divenuta moneta di scambio: non si teme, non si respinge, ma le si attribuisce un valore variabile sul metro della distanza dalla fronte dove si combatte, cioè la Corea. Così a New York si parla di guerra senza crederci troppo, a Washington se ne parla e ci si crede, a Los Angeles si crede che scoppierà la prossima settimana, a San Francisco all'indomani del giorno in cui se ne parla. E' che a San Francisco e a Los Angeles arrivano i vapori dell'Estremo Oriente carichi di feriti, mentre a New York, a Chicago, a Pittsburg la guerra la vedono solo nella persona grifagna e trionfatrice del generale Mac Arthur.