Il trentennio fascista di Giovanni Artieri

Il trentennio fascista Il trentennio fascista Tre volte, prima degli sbarchi alleati in Sicilia, Mussolini soffrì 10 sgomento, l'angoscia e, per alcuni brevi giorni, l'agonia della fine; fu, in ordine di tempo, nel settembre del 192J per l'avventata occupazione di Corfù; più tardi, tra il 2 e il 20 dicembre •935 quando la « Home fleet » caio nel Mediterraneo; nel cupo marzo del '37 per lo scontro di Guadalajara, che tagliò a mezzo 11 suo viaggio in Tripolitania. Tutte e tre le volte, tuttavia. Mussolini uscì vincente dal terribile gioco e come e perchè troviamo raccontato o riportato in un libro di Sinibaldo Tino («Il Trentennio fascista », Mondadori, Milano) attualissimo nel preiente fiorire di biografie, testimonianze, tentativi di analisi e sistemazioni attorno al dittatore • alla dittatura. Dal groviglio di Corfù — secondo una testimonianza del conte Carlo Sforza — Mussolini fu salvato personalmente da Poincaré sotto la pressione della maggioranza francese, in quel momento entusiasta di lui che chiamava « il salvatore dell'Occidente ». Già vecchio e presso alla tomba, il Poincaré intervenne a Londra in funzione filoitaliana. iNon voglio morire — dichiarò a Sforza — con la taccia di antitaliano; non voglio rinnovare le polemiche del 1911, a proposito del " Carthage " e del " Manouba "». Quanto alla crisi etiopica il Tino riporta un racconto di Jules Rnmains, non molto noto. Secondo il Romains, ai primi di dicembre 1935 il suo amico Yvon Delbos, vice-presidente della Camera francese, gli avrebbe confidato che dentro 15 giorni il fascismo sarebbe scomparso e il nazismo, allora albeggiante ma già minaccioso sul Reno, avrebbe seguita la sua sorte. Il curioso si era che il fascismo sarebbe crollato volontariamente, poiché — è sempre Jules Romains a raccontare — Mussolini avrebbe fatto sapere a Herriot di « gradire » l'applicazione delle Sanzio ni per crearsi una condizione di insostenibilità al potere. Al Par tito che lo sorvegliava con occhi piuttosto sospettosi egli voleva poter dire: «Ecco... son preso alla gola... me ne vado ». In quel la fine d'anno l'ambasciatore del Giappone a Roma, Yotaro Sugimura, ebbe occasione di vedere Mussolini parecchie volte; ne derivò, netta, l'impressione d'un uomo che si sentisse perduto e 10 dichiarò apertamente al Romains due anni più tardi, nel '37, quando — si badi — i rapporti tra Roma e Tokio erano i più stretti e cordiali. Perchè in quei diciotto giorni non cadde il fascismo e Mussolini non « abdicò » a favore di un governo (che si disse già formato) di coalizione a base nazionale? Intervenne Lavai. Stavolta fu lui a garantire a Mussolini, nel previsto caso d'un conflitto diretto con l'Inghilterra, la preziosa neutralità. della Francia. S'aggiunga che' 1 conservatori inglesi, i banchieri della City, l'aristocrazia, mentre la rivoluzione rossa compiva passi da gigante in Spagna, non se la sentivano di abbattere il portabandiera dell' anticomunismo europeo, in omaggio ai principi di Ginevra. 11 progetto Laval-Hoare per un compromesso in Abissinia intervenne a porre una prima rèmora all'onda catastrofica rotolante su Mussolini e il fascismo. Avversari decisi, ma deboli, rimanevano Eden e una parte dell'opinione liberale* e conservatrice britannica. Per suggestione di questa, sempre se è esatto quanto narra il Romains, venne chiesto al Quirinale se la Casa Reale d'Italia avesse potuto garantire l'ordine nella Penisola per 15 giorni, nel caso di estromissione di Mussolini. La Casa Reale avrebbe risposto di no: mentre Leopoldo III fratello della Principessa ereditaria Maria José avrebbe trasmesso a Edoardo, principe di Galles e prossimo Re d'Inghilterra un appello in que sti termini: «Attenzione! Voi state per abbattere non soltanto Mussolini ma la Casa di Savoia E questo può costituire il punto di partenza di uno sfacelo delle dinastie di Europa ». Con Leopoldo ed Edoardo solidarizzavano altri: il principe Paolo reggente di Jugoslavia, il re Cani di Romania, Boris di Bulgaria Ed ecco avverarsi un nuovo oaradosso: il rivoluzionario e Tenace antimonarchico Mussolini, protetto e salvato dalle princi pali monarchie di Europa. Anche la guerra etiopica costi tuì, per lui, un trionfo insperato; anche quella di Spagna sebbene aduggiata dalle giornate di Guadalajara, successo dei rossi assai più propagandistico che militare, come poi gli avvenimenti dimostrarono. Mussolini e il fascismo, a questo punto, sono entrati nel folto degli avvenimenti che li condurranno ad una morte. Ma è lecito chiedersi, e se lo chiede anche il Tino, perchè il dittatore sfidasse ancora il destino una quarta volta. La risposta vien fa cile al solo ricordare quali farti premettero sulla ragione, le speranze, la mobilità di umori e di intuito dell'uomo: le vittorie fulgoranti della Polonia e il patto Molotov-Ribbentrop; le campagne di Norvegia, di Danimarca, di Olanda, il crollo della Francia, Dunkerque. La trappola mostrava un ingresso facile (i « mille morti per sedere al tavolo della pace») e per di più a forma di arco di trionfo. Mussolini vi si precipitò, illa cieca. A legger lentamente, da questo denso libro di Sinibaldo Tino si vede, però, come quello della guerra mondiale numero due non fu il più grande degli errori di Mussolini; altro errore e questo non suo, si ritrova alla radice di tutto. Alla radice di tutto si incontra il famoso « veto » di don Luigi Sturzo al gabinetto Giolitti-Orlando-De Nicola, nel 1922, che avrebbe sicuramente stornato da prima e annullato pmsecdpusddebzlmcssCcCtRaavrrmsmtapmdrmssvzqmSzdmcftT—r poi il moto rivoluzionario della marcia su Roma. Per quanto la storia non possa farsi con i « se » e con i « ma », certamente il processo di assorbimento nello Stato del movimento fascista avrebbe preso altre vie e, forse, invece di un dittatore avremmo visto un successore di Giolitti II « veto » dette il via alla marcia famosa e di questa come di ogni episodio emergente di quel periodo, Sinibaldo Tino ci offre una narrazione gremita di notizie, particolari, inediti aspetti. Si capisce come, resa impossibile ogni altra combinazione ministeriale e costituzionale gli eventi dovessero sboccare in quella « rivoluzione » Curiosa rivoluzione in cui alcuni capi (il De. Vecchi, il Bianchi, il Ceccherini) la mattina del 28 ottobre 1922, trovandosi dentro Roma già bloccata e in stato di assedio dovettero chiedere alle autorità militari dello Stato che volevano abbattere il lasciapassa re per varcare gli sbarramenti e raggiungere le colonne già in movimento verso la città. Tutto si svolse in un clima incerto e malato, tra di gioco d'azzardo e tragedia a lieto fine, creatosi, appunto, per la ripulsa dei cattolici a consentire un gabinetto capace, e Giolitti ne era capace, di liquidare la marcia su Roma come aveva liquidata la questione di Fiume. Ma forse lo Stato liberale soffriva in quell'epoca una malattia di cui il primo sintomo s'avvertì già nel « maggio radioso » quando il voto parlamentare venne sostituito dalle manifestazioni di piazza. Sinibaldo Tino chiude in termini di equazione questa diagnosi e dice argutamente che la crisi del gabinetto Salandra nel '15 sta alla decadenza parlamentare come la marcia di Ronchi sta alla marcia su Roma. E' ben vero che nella marcia dell'ottobre '22 confluivano forze eterogenee e principalmente economiche: degli agrari pa dani e toscani; ma è anche vero che la « controrivoluzione, prima della rivoluzione » di cui parla Trotski, i « ras » locali — Balbo, Farinacci, De Vecchi e gli altri — l'avevano già compiuta e Giolitti, sottomano, l'aveva lasciata compiere. La conquista dello Stato rappresentava quasi un premio che Mussolini volle attribuirsi. Quanto avvenne dopo l'insurrezione fascista il Tino conside ra solo sotto specie di acre polemica. Egli attribuisce la dittatura alle « naturali tendenze ed aspirazioni » dell'intero popolo ita liano, cancellando così con un tratto di penna la storia unitaria, la migliore e tutta liberale, del nostro Paese. Fonda la sua ram pngna sulla « unanimità dei consensi » al « regime » che — effet tivamente — se li vide negare da ben poca gente: i trentuno professori di università che non giurarono, i pochi intellettuali riti ratisi in disparte, i numerosi sov versivi mandati a popolare isole e prigioni. Anzi nella « stagione bella » del fascismo, mentre.goti quiste civili e militari sembravano esaltare la vita dello Stato : un prestigio internazionale davvero notevole, si videro fuorusciti rientrare pentiti e bene accolti; ed anche chi non aveva soppresso dentro di sè un senti mento di diffidenza o di insofferenza e continuava a detestare nel dittatore le pose e ipavoneggiamenti e i lati cesarei, non sottraeva il contributo della propria attività alla vita collettiva. Il trentennio fascista giace in una prospettiva troppo ravvicinata. Nè, io penso, noi italiani per indole, carattere, passioni, interessi, siamo i più qualificati a studiarlo; tanto che certi giudizi e rivalutazioni, fin da adesso, ci provengono o dall'Inghilterra o dall'America o dalla Svizzera, da scrittori neutri o ex-nemici e non è fuori di luogo ricordare qulinchfamdemnazisucodiRmpDscpmchblzifudaindsbreasI'■iiiimiiiiimiiiiiiiiiiiiiiiiiiimiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii qui quel « Processo di Mussolini » dell'inglese Michael Foot che iniziò un modo di vedere il fascismo e il suo creatore, insieme paradossale e obicttivo. Nè si deve isolare il fenomeno dal clima europeo, dai suoi nessi e risonanze t imitazioni e continuazioni e perciò va giudicato nelle sue dimensioni continentali; così' come, domani, non si vorrà giu-| dicare del comunismo solo ini Russia, ma occorrerà vederlo nel' mondo, dov'ebbe la sua azione] più contrastata e significativa. Dal fascismo inoltre non si può scompagnare il suo maggiore e più tragico fratello, il nazismo, mentre non va espunto ciò che appartiene all'anarchismo, al blanquismo, al socialismo rivoluzionario, al dannunzianesimo, al futurismo, al nazionalismo corradiniano: farragine teorica che aiutò Mussolini assai più a rovinarsi che a governare, lanciandolo in visioni o intempestive o sbagliate e distraendolo dalla realtà, che egli sapeva per taluni aspetti maneggiare e dominare. Giovanni Artieri IMM11 11 IU II 111 111 111111M111111 ! 11M [Jl II 11 ! I 111 Miti I Kim, bimbo coreano, sorride. E* stato fortunato, l'ufficio postale d'una brigata di marlnes l'ha scelto come «mascotte» IMIIItlllllllIIIMIIIIIIIIIIilllIllllIMIIflIIIIIIKIItllllEIIMlCIIItllllllllllllllllllIIIIIIIIIII llliltllllllll^