Addio all'Islanda

Addio all'Islanda Addio all'Islanda L'aereo che mi portava via] dall'Islanda fece un largo giro sulla città per mostrarmela tutta insieme, una manciata di casette bianche con le macchie verdi e rosse dei tetti fra il porto e il lago; e riconobbi la punta del faro, e la'liscia verde lingua di prato su cui è posata la dimora del presidente della repubblica, un edificio candido e modesto dai tetti colorati, simile ad una fattoria coloniale o ad un collegio pour jeu?ies filles. E l'apparecchio prendendo quota, sotto il cielo basso che perdeva brandelli di nuvole, rividi l'aspro deserto delle lave intorno, e aride groppe di monti neri, e lontano, fra un fumare di vapori, il grande lago di Thingvellir. E già avendo spiegato la carta su cui avevo segnato la rotta, ed il naso al finestrino, stavo attento a riconoscere la piana paludosa di Hveragerdi con i cento soffioni bollenti, ed anche la cittadina mi parve di scorgere con le sue. cento serre dove si coltivano, come in laboratori preziosi, al calore messo in tubi di quei soffioni, pomodori e cetrioli e grappoli d'uva moscato — ogni chicco, ho fatto il calcolo, viene -ì costare una cinquantina di lire — e cespi di banane da fotografare ad uso dell'ufficio del turismo; e mi ripromettevo di vedere dall'alto lo sconfinato ghiacciaio Vatna, che occupa ottomila chilometri quadrati, e il monte Oraefa, che passa i 2000 ed è il più alto dell'isola e Odàdhahraun che è il più vasto campo di lava del mondo. Ma su dal mare grigio e giù da quel cielo basso ondeggiarono nuvole e vapori e vennero a mischiarsi intorno all'apparecchio; e per un po' di tempo la nebbia si affittiva e si attenuava tanto da rivelare biancori lontani che non si capiva se fossero ghiacci o nubi; poi la nebbia diventò uguale e compatta, non vedemmo più niente, acce cari da una caligine senza luce e senz'ombre che ci avviluppò per cinque ore, fin presso alle coste della Norvegia. Così l'Islanda mi si celò d'un colpo alla vista come per un incantesimo, tornò per me quella tozza immagine delle carte geografiche, perduta nel grembo dell'oceano settentrionale, con quella sua ramificazione nordoccidentale a guisa di corna di cervo che tocca il circolo polare; come non vera, solo una allusione di antico poeta, una parola di leggenda. Dicono che a venirci ed a partirne in volo, cinque o sei ore di viaggio da Oslo o dagli aeroporti britannici, si perde il senso di quella sua lontananza; se come si faceva ancora una decina di anni fa mi fossi im barcato sopra una nave, e aves si impiegato sette giorni per toccare il primo porto d'Euro pa traverso l'oceano nebbioso, veramente tornato a casa avrei ripensato all'isola come alla remota Thule della leggenda latina, la favolosa terra delle saghe, l'isola del fuoco e del ghiaccio ove si apre la bocca dell'inferno (ed esattamente, come avverte l'ufficio turistico, nel cratere del Hekla), ed i monti che nereggiano all'orizzonte non si sa mai se siano veri o illusione di fata morgana (fenomeno comunissi mo nell'isola, dice l'ufficio turi stico). Questo è vero, e il volo dura davvero troppo poco, con fortato dalle mirandoline. di bordo che portano panini e sfogliatine e cocktails Martini e puntando il dito unghiato di rosso contro la caligine dicono : « Sia mo, adesso, a tremila metri sul le isole Faeroer »; ma anche alle nuove misure si fa il senso, e vi assicuro che star sospesi cinque ore in un'immobile nube solida spessa uguale come il globo lunare entro cui fu ricevuto Dante basta a far tornare favolosa la terra, a far credere che sia rimasta addietro per un'eternità di tempo e di spazio. E naturalmente mi avvenne che per tutto il tempo del voli non tanto mi occupavano la memoria l'immagine e i gesti delle persone conosciute durante il breve soggiorno o la visione dei paesaggi o i colori del cielo quanto certi endecasillabi di un poeta dell'OttocentQ che letti da ragazzo in un'antologia scolastica mi avevano dato il primo desiderio delle terre artiche; di un poeta romantico che certo non fu mai quassù, e tuttavia solo i suoi versi mi parevano in quell'occasione i più adatti a rievocare il fascino della terra che avevo lasciato, i suoi colori primitivi e la tristezza del presentimento invernale. Sono gli endecasillabi con i quali Aleardo Aleardi inizia un suo canto in versi sciolti intitolato « Un'ora della mia giovinezza »; con la descrizione tutta ammanierata dell' autunno boreale (e pure così esatta per chi come me è venuto spesso a_queste terre ed ha camminato le notti di settembre sui ghiacciai marini delle isole Svalbard e ha navigato nei fiordi del Labrador ed è stato assediato dai ghiacci in un porticciolo a settentrione della Terranova), e della migra zione dei cigni : « Allor la battagliera - stirpe dei cigni si raduna in grembo - di recondito golfo; e detto addio - ai bianchi monti, ai gracili ginepri, - ai tuoi talami d'alga, intona il can to - della partenza, e per le nubi manda - la metallica nota. In suo viaggio - saluta i ghiacci tinti di berillo, - gli splendidi vulcani e le bollenti - fontane di Gaisero, e il mesto giallo - degli islan dici prati... ». ( Persino l'aggettivo « battagliera » è esatto; i cigni islandesi quando si ritrovano atmsdspcntsbiqtu n i i i e i a r i e o i i i o i e , o a migliaia sono aggressivi, si buttano sui pascoli e li distruggono; mi dicono che nemmeno in questi casi i miti contadini si decidono a prendere il fucile ed a sterminarli.) Sappia il lettore a questo proposito che il cigno islandese, come mi ha detto il mio giovane amico Halldor che lo ha sentito più volte, canta davvero, un suono patetico e dolce di tromba. Non tutti i cigni emigrano; i più anzi svernano in fondo a qualche fiordo; quelli che partono si danno il via con quel canto, che va dal basso profondo dei più vecchi al soprano da clarinetto dei più giovani, quasi un segnale militare; e quando gli isolani lo sentono, è come da noi le sere d'autunno che vendono le note lunghe del « silenzio » della vicina caserma, sanno che comincia l'inverno. Un inverno di bufere di vento e di mare, di clima umido più che freddo (spesso a Natale non è ancora caduta la neve a Reykjavik), con un breve sbadiglio di crepuscolo fra una notte e l'altra; eppure aspettano con nostalgia quella stagione che gli pare ancor più colorata dell'estate, con lo splendore fermo della luna sui monti bianchi e neri, con le fantasmagorie delle aurore boreali che aprono e chiudono i loro ventagli iridati per ore ed ore e sparpagliano nastri di fiamma in ogni parte del cielo Per restare nella metafora, la « sveglia » all'inizio della primavera gliela suona un altro uccello, una specie di- piviere che con un lungo sonoro lamento saluta il cielo islandese tornando dall'aver svernato sulle nostre coste. Una delle cose che più piacciono in un paese come questo, dove i fenomeni del cielo e del mare sono tanta parte della vita quotidiana e la contemplazione della natura è il passatempo preferito, è questo parlare frequente di pesci, di uccelli, di fiumi che mutano corso a ogni prima vera, di ghiacciai che cammina no, di color d'acque e di virtù di pietre; per cui ad esempio il merluzzo messo a seccare sulla lava imbianchisce meglio ed ha una carne più morbida di quello appeso a seccare al vento. Tor nando agli uccelli, mi è piaciuto sapere che qui ce n'è uno che chiamano « lo scrittore » perchè con il lunghissimo becco corre su e giù sulla superficie dei fiumi come volesse scrivervi i giuramenti di Lesbia; e la storia dei gabbiani che trovano la maniera, pur vivendo sempre in vicinanza del Polo, di non .vedere mai l'inverno; partono di qui l'autunno, vanno all'altro capo del globo a godersi l'estate antartica, e tornano su verso maggio. Poi c'è il falcone, da cui s'intitola il loro ordine cavalleresco e che il re di Danimarca, quando era anche re d'Islanda, portava nel suo stemma; nel Medio Evo, quando usava la caccia col falco, ricercatissimo era quello islandese, era orgoglio di re e di cavalieri averne uno, tanto che ad un certo punto il re riservò a sè il diritto di cacciarlo e di esportarlo. In quei tempi l'esportazione del falcone era la sola attività internazionale dell'isola, come oggi l'esportazione delle aringhe e del baccalà. (L'Italia è fra i più importanti paesi importatori dall'Islan da per il baccalà, e questo gli fa molto piacere, e che sia da noi una specie di cibo nazionale anzi popolare per il suo basso prezzo; vorrebbero però che noi non si badasse solo al prezzo, ma anche alla qualità, e il baccalà islandese, dicono, è il migliore del mondo.) C'erano anche balene una volta in questi mari, ma ormai sono tutte scomparse. Qualche orso bianco arriva, passeggero clandestino, a bordo di ghiacci della banchiglia polare, e lo ammazzano subito. Sono frequenti le foche, nei fiordi del settentrione e alla foce dei fiumi dove fanno la posta ai salmoni; è facile vederle da bordo delle navi, se un marinaio si mette a sonare la fisarmonica o appende a poppa uno straccio rosso; le foche, si sa, amano i colori, e più ancora la musica; e se passa una nave da crociera e l'orchestrina di bordo attacca la « Nona », o il jazz suona una samba, schiere di foche seguon la nave per ore ed ore. Bisogna compatirle, son foche. Addio dunque, Islanda. In fondo non mi dispiace che la nebbia ti abbia inghiottito di colpo, invece di vederti scomparire a poco a poco dietro la curva dell'orizzonte con le cupole nere e ghiacciate dei tuoi monti. Mi resti nella memoria come uno spettacolo rapido e bello, come una commedia di personaggi amabili, di situazioni piacevoli, a lieto fine, su cui è calata rapida la tela. Un popolo onesto, "riservato, cortese; un po' verniciato, specie la parte meno colta, di troppo americanismo, ma è moda superficiale; gli altri, professionisti, artisti, studiosi, moderni e cosmopoliti come gli europei migliori; ma gli uni e gli altri rimasti genuini, diversi, carichi di ricordi esclusivi, di commozioni non comunicabili, particolarmente sensibili a manifestazioni poetiche e naturali. I beni economici se li dividono con la maggiore equità possibile in una società contemporanea; non ci sono poveri, non ci sono miliardari; i ricchi non ostentano la loro ricchezza, le loro case sono piccole, semplici come quelle di un nostro borghese medio. Non ci sono disoccupati, nè gente che vive di rendita; ma pur lavorando tutti, sono saviamente pigri, non si ammazzano dalla fatica, non hanno furia a veder finito un lavoro. Una nazione coraggiosa, che della sua piccolezza ha il vanto; o, meglio che il vanto, una coscienza altiera e dignitosa. Non amano la guerra nè i militari; le csctvtcietcbcscus cure più importanti del governo sono per provvedimenti semplici e umani, l'istruzione alla portata di tutti, anche quella universitaria, la vecchiaia la malattia e l'invalidità soccorse non con elemosine, ma assicurando il cibo l'alloggio e le comodità elementari della vita; la letteratura e l'arte considerate una necessità sociale dal governo, un bisogno dello spirito da ogni cittadino. Un amor di patria, o se volete un nazionalismo, pacifico e tollerante; hanno lottato un secolo per emanciparsi dalla corona di Danimarca, ma davanti al ministero degli esteri c'è ancora il monumento a re Cristiano con l'iscrizione laudatori» intatta, e sul palazzotto del parlamento c'è tuttora la corona reale. (A Venezia sulla scritta «Rio del Palazzo Reale» hanno tirato un osceno frego nero sull'aggettivo; non li lasciava dormire, si vede.) Insomma, una nazione che verrebbe voglia di moltiplicarla per incanto per due o trecento, senza che con questa operazione perdesse le sue virtù, per farne uno Stato di trenta quaranta milioni che fosse di esempio e di guida alla smarrita umanità. Paolo Monelli UIII 11111M11MI Il [ 1111111(11111111 1111 Matrimonio alla Corte di Copenaghen: il principe Giorgio di Danimarca e la viscontessa Anson nipote della regina. Le nozze sono state celebrate al Castello di Glamls 1111MI■ I[1111[1111111111111 r 1111111111111(111M11111f 111111M11111111M111MM1111MIMiUMin 11 ! 11U1MMI: H i !I

Persone citate: Aleardo Aleardi, Paolo Monelli, Terranova