Barba e capelli a San Francisco

Barba e capelli a San Francisco Barba e capelli a San Francisco (Dal nostro inviato speciale) San Francisco, settembre. Quando uscii dalla bottega di un certo De Luca, che fa il barbiere in Mìssion Street, a San Francisco, ero vagamente commosso: e quando vi entrai ero soltanto stanco. Uscendo avevo anche ! capelli mal tagliati, mal j-Vjtl 6 COn sopra una Pastetta d odore odioso: in compenso non ero più stanco e mi sentivo — come ho già detto — leggermente commosso. Mi ritrovai tra la nebbia, che veniva su dalla baia più bella del mondo, verso la città; era una nebbia come da noi si vede soltanto in dicembre, quando qui l'aria è invece chiara e calda come d'estate. Mi rigiravano nella mente le parole e gli uomini che avevo visto in quella dannata bottega di barbiere e mi sembrava di risentire tutte le parole e di rivedere tutte le facce degli italiani incontrati lungo cinquemila chilometri di America, quei cinquemila chilometri percorsi venendo da New York. Come tutte le strade di San Francisco, anche la Mission è lunga quindici o venti miglia, ed 10 ci camminavo sopra da due ore con la semplice idea di arrivare, presto o tardi, sulla riva del mare. Ero stanco. Là piccola insegna verde: «De Luca - , Barber Shop », in mancanza d'un caffè, d'un bar, d'un drug-store mi parve la salvezza. E poi c'era un'altra ragione. La bottega era piccola, al di là del vetro vedevo soltanto due poltrone, due lavoranti, due clienti. Con terrore mi era tornato alla mente un ricordo di New York. Due mesi prima, a New York, ero capitato in un bottega non soltanto di lusso, ma anche americanicamente organizzata, quindi complicata la sua parte e veloce soltanto in apparenza. Il barbiere di New York, ora posso dire che l'ho maledetto. Si buttò su di me come il falco fa con l'uccellino. Appena alla domanda se desideravo barba o capelli risposi barba, altri di cui nemmeno sospettavo l'esistenza mi circondarono. E questi dirò che erano come iene intorno ad un cadavere. Da un attimo avevo risposto: barba; da un attimo appena, e mi trovai lungo e disteso, perchè la poltrona si era trasformata in una specie di letto. Sulla faccia il « capo servizio » mi sbatteva soffici pannolini umidi e caldi; una subalterna si era impossessata della mia mano destra e con la pinzetta tagliava la prima unghia; un altro subalterno di cui io — nella posizione in cui stavo — vedevo soltanto la testa di negro, mi lucidava le scarpe. Un terzo subalterno, con una macchinetta massaggiatrice in mano, stava alle spalle del « capo », pronto anche lui a fare qualche cosa. In quella posizione, lungo disteso, ogni protesta mi sembrò ridicola. Non potevo dire che le scarpe erano già lucide; che le unghie, da quando ho avuto l'età di provvedere a me stesso, me le sono sempre tagliate io o — tutt'al più — una certa persona soltanto; infine che non volevo impacchi caldi, massaggi elettrici, frizioni manuali, creme, spruzzatore, sventagliate d'aria fredda, tutte cose che verniero poi. Chiudendo gli occhi avevo atteso che intorno a me tornasse la calma, perchè tutto quello che accadeva intorno a me sembrava fatto per vincere una gara di velocità. Ma qui, a San Francisco, quella botteguccia, i due lavoranti, i due clienti seduti come nella vecchia Europa si sta seduti anche quando si va dal parrucchiere, e la mia stanchezza, erano altrettanti inviti ad entrare. Tanto per sentire cqme mi si rispondeva, dissi forte : « Buon giorno », ed uno dei due lavoranti, 11 più vecchio, rispose: «Buon giorno, un attimo e tocca'a lei». C'era un divanuccio per gli aspettanti; c'era un tavolinetto da due soldi lì vicino, con sopra riviste umoristiche, che sfogliai con grande tristezza. Vedevo decine e decine di disegni accompagnati da una battuta. Mi accorsi che esiste una internazionale delle frasi equivoche, del doppio senso, del giuoco di parola; mi accorsi che esiste sempre la storia del commendatore che dice una papera freudiana mentre detta una lettera alla segretaria. Era roba stampata a San Francisco, California, e mi sembrava d'averla già vista a Parigi ed a Madrid od a Roma. Toccò davvero subito a me Ero capitato sotto le mani del più anziano dei due lavoranti, un uomo sui cinquant'anni, dalla faccia simpatica, lo sguardo intelligente, quello che mi aveva risposto in italiano. Da un minuto le sue mani avevano cominciato un taglio di capelli che poi risultò un disastro, quando entrò un tipo con un pacchetto sotto il braccio. Anche questo nuovo arrivato era sui cinquant'anni, nè elegante nè sciatto, non si poteva capire che razza di lavoro facesse. Aveva detto ad alta voce, con la mano che ancora tratteneva la porta: «Ho saputo adesso che sei tornato ieri sera. Ehi, Beppe, come va Tutto bene? ». Il chiamato Beppe sospese un attimo il suo infelice lavoro intorno ai miei capelli, alzo le forbici in aria, e tagliò l'aria due o tre volte, contento, felice, estasiato. Rispose: «Una meraviglia. Ma come si sta bene, che bella terra. Ho fatto il viaggio da Milano a Roma su un treno che corre come il vento ». L altro lo ascoltava con attenzione, come «e sentisse dire notizie strabilianti. «E poi — continuo 1 Beppe, tornando distratto con le forbici tra i miei capelli — e poi ho visto Roma. Ti dico, una città che qui neanche se la so¬ gnano. Una meraviglia. Vai a spasso -e devi per forza pensare che sei nel posto più bello del mondo, ti siedi in un caffè e ci stai come un signore. Una meraviglia ». II nuovo venuto lo interruppe per chiedere, all'improvviso, come se fosse seccato di quell'inconcludente elogio di Roma: « Beppe, sei passato da Gallarate? ». Il Beppe rispose di no. Non c'era passato: anche andando sui laghi, a Stresa ed a Como, la strada faceva un altro giro. Ci fu un momento di si lenzio, poi quello che voleva no tizie di Gallarate se ne andò. Aveva premura, ma disse uscendo: «Torno fra un paio d'ore» Il Beppe, che era il De Luca in persona, come se già non l'avessi capito mi annunciò che era tornato il giorno prima dall'Italia e che adesso tutti venivano in bottega per avere notizie. Infatti ne arrivò subito un altro. Questo era più vecchio del precedente, ma non aveva premura. Stette a sentire altri elogi, ci fu la descrizione di Venezia che sembrava il commen to ad una serie di cartoline illustrate, poi comparvero alcune piccole motociclette che pareva facessero parte del color locale, poi altre meraviglie fiorentine, C'era qualche cosa di intemperante e di ingenuo in quello che sentivo e, per fortuna, l'ingenuità riscattava la ridicolaggine Questo secondo visitatore fu paziente; ma appena capì di poter fare una certa domanda, la buttò fuori con precipitazione: « Beppe, quanto ti è costato? ». Il Beppe si lanciò in un lungo su e giù di calcoli. I due biglietti dell'aereo, per se stesso e la moglie, poi un mese di soggiorno, la spesa del treno, i dollari si sommavano, alle fine furono quasi tremila. Il secondo visitatore diede, un sospiro « Tremila », ripetè a mezza voce. Gli domandai da quanti anni mancava. Rispose pronto, sicuro, come se ogni giorno tenesse un conto esatto del tempo: «Sono, alla fine di questo mese trentadue anni. Palermo, vengo da Palermo. Lei conosce Palermo? ». E quel « conosce » ebbe un suono particolare, un valore che fuori di quella botteguccia non si può capire. Era come se mi chiedesse d'una persona ed infatti, in quel momento, senza nessuna comicità, con una tra sposizione di significati, sarebbe stato possibile rispondere: «Co me no? La conosco, l'ho vista pochi mesi fa, mangia, lavora, sta bene, quella campa ancora mille anni». Gli risposi in modo ben diverso, e parlando sentivo che Palermo s'allontanava. Si al lontanava perchè ad ogni mia frase- il secondo visitatore rimasticava una somma, quei tremila dollari, e mille facevano già una cifra per lui preoccupante, forse bisognava aspettare ancora due anni. E dopo questo secondo venne un terzo e noi venne un quarto La notizia del Beppe di ritorno era girata r.ol quartiere, tra Cohimbas Avemie, Stockton Street Mission Street, sin giù alla marina ed il Beppe ripeteva a tutti le stesse meraviglie, aveva cinquant'anni e sembrava un barn bino orgoglioso del suo viaggio Ognuno portava una nuova curiosità. Il terzo voleva notizie sulle rovine e sui bombardamenti (ed il Beppe, sempre trion fante: «Mi hanno detto che do vevo andarci un tre anni fa Adesso tutto è già a posto, una meraviglia»); l'altro voleva sa pere della politica, dei comuni sti e dei preti (ed il.Beppe girò intorno alla questione, però an che stavolta trionfante: «Non ho neppure avuto tempo di pensarci, ma deve andare bene bisogna avere pazienza. Anche qui hanno fatto meraviglie»). Il mio taglio di capelli era fi nito, adesso il Beppe m'insaponava la faccia. Era entrato un tipo alto, con un giubbotto verde sulle spalle, parlava un inglese molle, era forse del Sud. Questo forestiero voleva attaccare discorso, ma il Beppe gli cacciò tra le mani una di quelle riviste che avevo visto sul tavolino dicendogli con modi scherzosi di stare zitto e di pensare gli affari suoi. In quel momento io ero persona importante per il solo fatto che venivo dall'Italia e, soprattutto, perchè ci sarei tornato. Era un'importanza talmente imbarazzante, che ad un certo punto mi sembrò giusto dire al Beppe: «E perchè non vende la bottega, non fa il bagaglio e non torna a Livorno?». Aggiunsi per non essere troppo drammatico: «Anche i livornesi hanno capelli e barba ». ■ Il Beppe finalmente tacque un attimo e rimase pensieroso. Poi cominciò con tante parole interminabili a spiegare: primo, oramai era vecchio, aveva certe abitudini di vita; secondo, aveva tre figli nati in America, cittadini americani, una figlia sposata a Sacramento, un figlio con un buon impiego al municipio di San Francisco, l'altro faceva il soldato, era con l'aviazione. Come fanno i barbieri d'Europa quando hanno finito ed allora guardano nello specchio sopra il lavabo per rimirarsi anche loro, con il cliente, l'opera compiuta, così fece il Beppe e intanto pareva dicesse a se stesso : « Siamo tutti così». Alludeva ai visitatori di prima e ripeteva: «Siamo tutti così ». Poi aggiunse: « Non la vedrò più. Ah! ». Anch'io mi guardai nello specchio. Lo specchio mostrava il piccolo disastro avvenuto sulla mia testa. Non me ne importò niente: subito felice pensai che fra venti o trenta giorni al massimo, avrei potuto farmi tagliare i capelli ancora in Italia. Enrico Emaniteli!

Persone citate: Barba, Barber Shop, De Luca, Stockton