Joyce, martirio dei traduttori

Joyce, martirio dei traduttori Joyce, martirio dei traduttori Più il tempo passa, e più ci silconvince che l'opera maggiore'di James Joyce, più che sulla vastità delle sue analisi riguardanti la natura recondita dei sentimenti, è fondata sullo stile. Seguendo il medesimo procedimento di Flaubert, lo scrittore irlandese affrontava la realtà come un compito tremendo al quale condannarsi per castigare il proprio esuberante lirismo, ma anche con l'impegno segreto di trasfigurarlo attraverso la perfezione o la originalità del linguaggio. Va sempre più cadendo perciò certo fastidio che una prima lettura di un libro ancora a noi accessibile, come YUlisse, poteva infondere per quella sua programmatica minuzia, per quel suo gusto esasperato del vero." D'altra parte, hanno provveduto gli imitatori dello stesso Joyce, con il loro ingenuo e depauperato « neo-realismo », a mostrarci come la grandezza del maestro si dovesse cercare altrove: non già nel particolare scatologico, ne nella quasi iniqua spettroscopia degli istinti, bensì nella capacità davvero prodigiosa di dar corpo, in un sia pur ricco e continuamente arricchito vocabolario, alle filiformi, fulminee e sovrapponentesi sensazioni di un individuo che « si ascolta pensare ». Il mero realismo, insomma, diventa negli epigoni di Joyce una specie di stenografia adatta a un discorso normale o di facile supposizione; mentre la fissazione letteraria, ferma e precisa, di un monologo interiore, è frutto in lui di fantasia, di istinto poetico e, insieme, di un calore, di una esaltazione stilistica che non hanno equivalènti nella prosa della prima metà dèi nostro secolo. Non possiamo addentrarci in questo argomento, che richiederebbe troppo àmpi sviluppi. Ci basti averlo accennato per mostrare quanto sia ardua l'impresa di tradurre Joyce (il Joyce, s'intende, deh'Ulysses e di Finnegans Wake). In Francia, ci si era messo Valéry Larbaud, lo scrittore finissimo che una dura malattia costringe purtroppo da anni al silenzio. L'intero Ulysses venne tradotto, in verità, da August Morel e da Stuart Gilbert, ma la revisióne toccò al Larbaud, assistito dallo stesso autore; senza il quale, forse, non sarebbe stato possibile giungere in porto. In Italia uscirono alcune pagine della tetra epopea di Leopold Bloom, egregiamente tradotte da Carlo Linati; ma il nostro compianto amico non era soddisfatto del proprio lavoro; e quando la Radio lo invitò ad inviare qualche altro brano deh'Ulysses per una rubrica letteraria, egli rispose: « Ulysses è un'opera di difficilissima e quasi impossibile resa, se non in certi punti un po' più vicini alla natura della nostra lingua. Ho tradotto a suo tempo qualche passo dove mi è parso un po' più abbordabile e per ora mi son fermato li...». Linati aveva colto il punto giusto: la traduzione è possibile soltanto dove il testo si avvicina alla «natura della nostra lingua ». E questa non è soltanto una-conferma della netta impostazione stilistica dell'opera, ma risponde anche a un convincimento dello stesso Joyce: essere cioè la sua scrittura più agevole da rendere in italiano che non in francese. La sua perfetta conoscenza della nostra lingua aveva infatti non poco influito sulla formazione del suo singolare e composito linguaggio. Ce ne offre testimonianza anche Nino Frank, in un saggio molto ampio e brillante apparso nel n. 23 della rivista La table ronde. Un giorno Joyce aveva pregato l'allora giovanissimo Frank di collaborare con lui alla versione italiana di un frammento di Finnegans Wake; e si eran messi tutti e due c$>n entusiasmo all'impresa. Si trattava delle 1 stesse pagine che qualche anno prima erano costate sei mesi di lavoro a una decina di scrittori francesi. « Fummo fierissimi — dice il Frank — Joyce e io, di aver battuto da soli la numerosa équipe francese. E' vero che io usufruivo dell'aiuto indiretto portatomi dalla traduzione ben riuscita di costoro, e che Joyce — al quale la lingua francese rimaneva sempre un poco estranea, sebbene la conoscesse alla perfezione — provava, nel giuocare con le parole italiane, la stessa voluttà provata nell'abbandonarsi ai suoi giuochi in inglese. Aggiungerò poi, senza falsa modestia, che Joyce sta almeno per tre quarti in quel testo italiano; io stesso gli tenevo soprattutto luogo di vocabolario di cavie, di compagno di lavoro ». Si noti quella voluttà, provata nel « giuocare » con le parole: il raffronto con Flaubert sai ta nuovamente agli occhi. La traduzione italiana più recente è quella offertaci da Al berto Rossi (James Joyce: Poesie da un soldo, Ed. Cederna Milano). Manca a noi la competenza per giudicare la qualità di questa nuova prova; ma ci possiamo richiamare ai giudizi di esperti, i quali parlano, come Aldo Camerino, di « pezzo assolvi tamente encomiabile » a proposito delle pagine deh'Ulysses fatte seguire dal Rossi alle poesie Di più, confrontando lo stesso brano nella traduzione francese, ci rendiamo conto ancor meglio della congenialità già ammessa dallo stesso autore tra la sua ispirazione linguistica e l'italiano. Certe composizioni e combinazioni di parole, certi accrescitivi o peggiorativi, certi attributi, si prestano a singolari, attraentissi me corrispondenze. (Ma chi conosce la fatica richiesta ai tra duttori dai testi «difficili», sa il tormento, il mal di capo prodotti dalla ricerca magari di una sola parola, che non vuol saperne di venir fuori, e sta li, come si dice, « sulla punta della lin gua »; e che, una volta arresasi. cambicrà tutto il tono, tutto il « colore » di un intero periodo) Anche la sintassi usata dal Rossi, naturalmente costretta ai passettini brevi anziché alle ampie falcate della nostra tradizione, riesce a rendere l'originale inglese senza tradire, tutto sommato, il genio della lingua italiana. Stimiamo dunque questa traduzione fra le più convincenti, e dobbiamo ammirare la coscienziosità del Rossi, il coraggio con cui ha affrontato un tema irto di precipizi e di picchi affascinanti ma quasi inaccessibili come certe vette alpine. Anche le traduzioni delle poesie — cosi teneramente cupe e riflessive, così rivelatrici di una malinconia originaria che tentava di sopraffarsi attraverso la « descrizione » più disincantata del mondo — è impresa della quale dobbiamo render grazie all'amoroso traduttore. Non sappiamo se l'intero Ulysses sarà mai tradotto in italiano; e possiamo star certi che mai verrà tradottò tutto Fbtnegans Wake. Ma studiósi come Alberto Rossi ci offrono il modo di accostarci con animo più partecipe a libri che spaventano gli stessi inglesi, che gli stessi inglesi, anzi, il più delle volte non intendono. In un certq. senso, il tradurre'Joyce diventerà, per gli specialisti, simile a quelle prove di assoluto virtuosismo che si impongono agli allievi migliori negli esami dei Conservatori musicali. E si tratterà sempre, nelle riuscite migliori, di letteratura; perchè grande letteratura è quella del testo originale: e chi, abbagliato dai contenuti, dai simboli, da una certa apparenza intellettualistica, non ne fosse persuaso, avrà soltanto — se conosce bene la lingua — da mettersi a tradurre due o tre pagine del primo o del secondo libro. Se non sarà egli stesso, nel senso più accettabile, un letterato, e se non avrà nel sangue almeno un po' di quell'istinto dello stile che Joyce possedeva in sommo grado, l'incauto fatalmente cadrà. G. B. Angioletti la** - GII Inglesi alle urne. Alcuni elettori si recano a votare nel villaggio di Foots Cray a bordo di una vecchia berlina, trainata da quattro magnifici cavalli bianchi o pommellati, portando un cartello in cui si Inneggia a un candidato conservatore (Telefoto) «■"■Il Ilimillllllllllllllllllllllllll IIMII1MI IMIIirMIlllllllilll IMIIMIIIIJIMII11I1IIM niMlllMi» MI [I MI 111 II0IIIMM MM MII II I11HMIIMIUMII III IMMI

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