Socialismo e Risorgimento

Socialismo e Risorgimento Socialismo e Risorgimento una vecchia questione quella del carattere « popolare », 0 meno, del Risorgimento. E' un luogo comune l'affermazione che questo sarebbe stato opera di una « piccola minoranza ». La grande maggioranza del popolo italiano sarebbe rimasta passiva. Una tale questione si intreccia con un'altra, forse ancora più antica della prima: nel processo conclusivo • del Risorgimento — cioè nella formazione e nella messa in opera dello stato italiano unitario — chi fu che esercitò l'influenza decisiva (e quindi si fece c la parte del leone »): la monarchia sabauda e le alte classi conservatrici strette intorno ad essa, o il moto dal basso, l'attivismo patriottico più propriamente risorgimentale? Questa seconda questione è affine alla prima, ma non identica. Certamente, chi nega al Risorgimento un vero carattere popolare, accetterà più facilmente l'interpretazione « sabauda » di esso. Ma d'altra parte si può accettare la tesi della c piccola minoranza» autrice del Risorgimento; e tuttavia negare che in questa cpiccola minoranza» il primato spetti ai monarchici moderati. Si può anche dire (ed è stato det10): i democratici, il partito di azione furono essi a fare l'Italia una; ma la monarchia si impadroni dell'opera loro, la confiscò a suo profitto, e la portò a termine a suo proprio esclusivo vantaggio. E' la tesi della « conquista regia ». Il Risorgimento non sarebbe stato un vero processo di liberazione e di costruzione autonoma del popolo italiano. La < rivoluzione liberale » in Italia non c'è mai stata': deve ancora venire. E' la tesi di Gobetti, considerata generalmente come uno sviluppo delle idee di Oriani (Lotta politica in Italia), di cui un altro sviluppo analogo — ma non identico, e comunque ante riore a Gobetti — sarebbe la Monarchia socialista di Missiroli. Altri più recenti sviluppi si potrebbero citare: Dorso, Colamarino, Cusin (Antistoria d'Italia, Einaudi). Una corrente particolare, in questo processo al Risorgimento, è quella socialista. Essa, accettando senz'altro il dogma del Risorgimento « opera di una piccola minoranza », spiega, o crede spiegare, in base al materialismo storico, perchè fu così: perchè, cioè, la maggioranza, la grande maggioranza del popolo italiano sarebbe rimasta estranea all'azione risorgimentale. E la spiegazione consisterebbe in ciò, che i condottieri del patriottismo rimasero sul puro terreno politico, e non portarono la lotta sul piano sociale. Occorreva rivolgersi alle masse, e trascinarsele dietro con un programma socialista. E' noto ormai da un pezzo chi sia l'antesignano di questa interpretazione: Carlo Pisacane. Egli la formulò proprio nell'intermezzo fra la prima e la seconda fase della rivoluzione (o mancata rivoluzione) italiana, all'indomani del fallimento della rivoluzione quarantottesca. Avesse letto o no, Pisacane, il Manifesto dei comunisti, l'idea fondamentale di questo è anche la sua: a La ragione economica», egli dice nei Saggi, « nella società domina la politica». Per far muovere il popolo del Quarantotto ci sarebbe voluta la rivoluzione sociale: questa la tesi del suo libro La guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49. Da Pisacane a Gramsci c'è una linea di continuità. Nei suoi quaderni del carcere — testimonio di mirabile continua operosità intellettuale nelle condizioni le più avverse possibili — Gramsci ha riflettuto moltissimo sulla storia italiana; il quarto volume delle sue Opere (// Risorgimento, Einaudi) ci dà il risultato delle sue meditazioni sul Rinascimento, e più ancora sul periodo risorgimentale. Egli ricorda espressamente Pisacane, il quale < comprese che senza una politica democratica non si possono avere eserciti nazionali e coscrizione obbligatoria» (p. 74). Come il Pisacane, Gramsci trova che non c'era poi "grande differenza fra moderati e Partito di Azione. Questo avrebbe dovuto agire col metodo e l'energia dei giacobini francesi: impostare la questione agraria, e così mobilitare i contadini, che avrebbero fornito i battaglioni necessari per combattere e sconfiggere l'Austria. Fa onore all'intelligenza e alla probità storica del Gramsci, che egli non abbia tirato in ballo, a proposito del Risorgimento, il 1 Deus ex machina » della rivoluzione socialistico-marxistica, il proletariato industriale. Un appello ad esso,, nell'Italia del 1848 o anche del 1860, sarebbe stato veramente la voce che chiama nel deserto. Mentre invece, che nell'Italia risorgimentale vi fossero elementi per agitazioni e insurrezioni agrarie, lo dimostrano parecchi fatti, e in particolare •taluni episodi del 1848. Si veda ora il primo capitolo del Socialismo risorgimentale di Luigi Bulferetti (Einaudi): libro che costituisce una ricca silloge, più ancora che di fatti sociali, di teorie socialiste o socialisteggianri nel Risorgimento. Concediamo dunque una possibilità, almeno generica, di rivoluzioni agrarie nell'Italia del 1848 o del 1860. Ma che questa fosse davvero h via da imboccare con probabilità di successo per cacciare l'Austria e fare l'Italia una, è un altro, tutt'altro paio di maniche. Innanzi tutto, difficilmente poteva trattarsi di rivoluzione unitaria: date le condizioni diversissime dal Nord al Sud, da una regione all'altra, avremmo avuto moti locali difficilmente associabili. L'idea, poi, di formare battaglioni di volontari per la guerra all'Austria con i contadini cui si sarebbero promesse o distribuite le terre, è chimerica: i contadini avrebbero atteso ad impossessarsi delle terre, e poi a coltivarle, senza occuparsi dell'Austria, e dell'Italia una. E tutti gli altri, poi, che avrebbero fatto? Sembrerebbe ovvio — soprattutto per chi si nutre di pensiero marxistico, di materialismo storico — che le rivoluzioni non si fanno su piano prestabilito, secondo uno schema preconcetto, ma utilizzando forze in movimento o in gestazione, situazioni concrete favorevoli. Tutte le forze vive del Risorgimento provenivano, sul piano sociale, dalla nobiltà illuminata, dalla borghesia in sviluppo, dall'artigianato (quest'ultimo veramente last not least) sul piano ideale, da tradizioni, concezioni e sentimenti a cui il ceto contadinesco era completamente estraneo, e diciamo pure inaccessibile, almeno per allora. Carlo Marx nel Quarantotto predicò ai suoi che quella era l'ora della rivoluzione liberale, democratica, borghese: il proletariato doveva appoggiarla, per poi servirsi delle conquiste di essa. Identica era la situazione in Italia: le tappe storiche non si bruciano. L'indipendenza italiana, l'unità d'Italia furono conseguite nel quadro di una certa situazione politica, sociale, culturale — interna e internazionale — da cui non si poteva prescindere. E aggiungiamo qui alla fine che i presupposti da cui anche il Gramsci, in sostanza, parte: del Risorgimento opera di una piccola minoranza e « conquista regia », non rispondono alla realtà. Tutte le grandi azioni politiche sono opera di una minoranza, che si tira dietro la maggioranza; la minoranza che operò il Risorgimento non era più scarsa, nè meno robusta — fatte tutte le proporzioni — di quella che operò la Rivoluzione francese. E la « conquista regia » fu, altrettanto, accettazione regia del programma popolare. I fuochi di artificio di un arianesimo spinto fino al limite della fantasticheria non dovrebbero offuscare più a lungo queste semplici verità. Questa testa statuaria, nata da un'arte sapiens di n.assaggiataci, pettinatrici e al tre artefici di bellezza, ricorda in qualche modo la perfezione di Paolina Borghese