Quando Gabriele era re

Quando Gabriele era re Quando Gabriele era re Maeterlinck il mistico, Anatole France lo scettico, esteti, decadenti, idealisti, Wilde e Romain Rolland: foce e contrasto di un'età alla quale, bene o male, D'Annunzio ha dato il suo nome La figura morale di quel quarto di secolo che quasi non è pia Ottocento e non è ancora Novecento, fra il 1890 all'incirca e il 1914, si viene già delineando in alcuni dei suoi più tipici aspetti, e prima ancora, come accade, se n'è- fatta la caricatura. Ma non è ancora apparsa il suo storico. Questi, se sarà bravo, dovrà cogliere il giusto punto prospettico che permetta di osservare secondo la relativa importanza i diversi elementi del quadro, dovrà trovare la luce che li armonizzi pur nei contrasti e che li faccia valere come necessari all'insieme. Qual è la luce in cui s'accordino lo scetticismo di Anatole France e il misticismo di Maeterlinck, i miti di Sorel e quelli di Maurras, il dionisismo di D'Annunzio e il moralismo di Fogazzaro, l'estetismo di Wilde e il modernismo di Tyrrell, il nazionalismo di Barrès e l'europeismo di Romain Rolland? Due testimoni Ecco intanto un lungo appassionante colloquio tra due nobilissimi testimoni di quel tempo: Romain Rolland, per l'appunto, e Louis Gillet: un idealista, come allora si diceva, che al suo sogno umanitario voleva dare forma d'arte e si esaltava, come già Carlyle, nel ritrarre figure d'eroi (Michelangelo, Beethoven, Mazzini, Tolstoi) e un cattolico aperto alle più libere correnti d'allora. ' uel òhe significasse al principio di questo secolo il nome di Romain Rolland io credo di realizzarlo in un ricordo della mia adolescenza. Ero andato a far visita ad una mia venerata amica, la signora Nadina Helbig, una anima ardente di musicista e un grande cuore colmo di carità, allieva di Liszt, amica di Tolstoi, che non posava a regina di salotto come certe uggiose ninfe Egerie sue coetanee, ma accoglieva con regale cordialità i personaggi più rappresentativi ilei tempo, saliti alla sua bella villa gianicolense nel loro passaggio per Roma. " Sto leggendo — mi disse — un libro che mi toglie l'alito": era Jean-Christophe, di cui Rolland aveva allora pubblicato i primi volumi e in cui ella ritrovava il suo stesso credo artistico e umanitario. Il carteggio Rolland-Gillet, che costituisce il secondo dei " Cahiers Romain Rolland " (.Parigi', Albin Michel, 1949) ed è preceduto da una bella testimonianza di Paul Claudel, incomincia nel 1897 e termina con la morte di Gillet nel 1943. Ma c'è una lunga interruzione tra il 1915 e il 1942. Spinti l'uno verso l'altro da un'affinità di aspirazioni etiche ed estetiche che aveva dato origine a una fraternità spirituale e quasi a una tenerezza, i due amici si trovarono a disagio allo scoppio della prima guerra mondiale: francese ardentissimo, pur senza preconcetti nazionalisti, e combattente appassionato, Gillet; "au dessus de la mèlée" (secondo il titolo del suo libro forse più noto) e nostalgico della grande Germania romantica che egli non disperava di veder risorgere, Rolland. Si allontanarono, ma senza che nessuna mossa o parola sguaiata macchiasse la bellezza di quella fraternità durata quasi un ventennio. E così, grazie all'amicizia e alla carità di Claudel e dei fratelli Tharaud, poterono alla vigilia della morte ritrovare intatta, e forse più dolce, la tenerezza d'un tempo. Dio e gli uomini Il più giovane dei due, Gillet, fin da principio aveva riconosciuto nell'altro il suo Socrate: " Saprete mai — gli scriveva nel 1898 — tutto quel che vi devo? Tharaud ha fatto molto per insegnarmi a scrivere: mi ha comunicato la diffidenza verso il pathos, verso le generalità incontrollabili. Ma voi! voi avete rinnovato in me l'amore della vita, la volontà di agire, di pensare e di vincere. E siete stato, cosa rara, un amico che si ama, a cui è dolce e commovente pensare; avete dimenticato d'esser più avanti negli anni e mio maestro e mi avete accolto senza sussiego e vanità, voi che siete un artista raro e profondo ". Tre anni dopo, a proposito del ! ! 1 , I carteggio Wagner-Liszt che stava leggendo, gli faceva questa dichiarazione: "Ahi caro eroe, che cosa m'importerebbe di non essere che un Liszt, se potessi fare per voi quel che il vero IAszt fece per il suo amico, aiutandolo a esser Wagner? Sì, forse la vostra testa contiene maggior bene per il mondo che il cervello del prodigioso Orfeo ". Ma Rolland, qualche volta, temeva di riscontrare una volubilità quasi muliebre negli entusiasmi dell'amico che passavano dall'Angelico al Carpaccio, da Rembrandt a Turner: "Fortunatamente vi conosco; altrimenti penserei: che don Giovanni". E gli opponeva il proprio canone: "Shakespeare, Rembrandt, Tolstoi, forse Dante e Giotto, soprattutto Beethoven. Voi li amate, come dite, perchè aspirano a Dio. Sapete che io non credo a codesto Dio distinto dagli uomini. Amo quelli, perchè contengono Dio, perchè lo creano ". Il velo di Cosima Wagner In quel principio di secolo era soprattutto Rolland che lamentava la brutale prussi■ficazione della Germania, proprio perchè vi vedeva avvilita "la coscienza sublime della razza di Beethoven e di Schiller". E forse in questo suo nostalgico amore, e in una certa conseguente freddezza verso il genio francese, è da riconoscere il primo germe del futuro dissidio tra i due amici: "Amo i tedeschi perchè un po' del sangue di Beethoven è, nonostante tutto, in loro; come amo gli inglesi per amore di Shakespeare. In Francia, ho un bel cercare: non ci trovo questi grandi amici eterni; amo Poussin, ma la sua amicizia è fredda; e i gotici li sento più lontani dei Greci ». .Rari, in questo carteggio, i ritratti. In una lettera di Gillet da Norimberga c'imbattiamo in Cosima Wagner "col suo velo blu rialzato fino alle palpebre, con la testa alta e un poco in avanti, con un naso di morta e l'arco sublime della bocca ", e in una da Roma intravediamo il giovane Don Lorenzo Perosi, " notre angélique petit musicien". Ed ecco, come in una luce d'annunciazione, la futura spesa di Gillet: " Il nome della mia fidanzata è Suzanne Doumic. Non vi dirò nulla delle grazie della sua persona: l'amo. Il suo spirito è ancora più grazioso: è la' naturalezza stessa, la più schietta e soave ragione, la gravità, la pace, la dolcezza, la tenerezza. Splende di luce calma come, la lampada delle Vergini sagge ". Più frequenti gli spunti polemici: contro il basso romanticismo di Zola, le eleganze borghesi di France e di Lemaitre, la piatta policromia di Rostand, il pedantismo di Bourget, il dottrinarismo di Barrès soprattutto: "Ah! — esclama Rolland — come non amo quest'uomo! è uno dei pochi uomini al mondo a cui accordo ancora qualche cosa di simile all'odio. C'è in lui un cuore cattivo e pedante, un eterno studente di filosofia, abortito nello sviluppo ". Detestato, s'intende, il decadentismo carnale di Wilde, di Péladan, di Jean Lorrain. Anche Péguy, consacrato poi dalla morte eroica, è sospetto. Gillet ne denunzili il primitivismo pavoneggiantesi in un'eteroclita società di attrici, scrittrici, signore del bri mondo, uomini politici, arcivescovi. Rolland par prevedere la moda che ancor oggi ci ammorba: "La penso come voi: Péguy poeta non mi piace gran che. Credo che tutta questa letteratura falsamente ingenua e devota farà il più gran male alla rinascita cattolica". Voluttuoso Rinascimento Tra i decadenti, uno solo si salva: D'Annunzio. Gillet, che già nel 1898 ambiva d'essergli presentato, nel 1943, tre mesi prima di morire, lo chiamerà ancora " notre ami D'Annunzio ". Non sappiamo quel che ne pensasse allora Rolland. Ma nel 1902, al momento della Francesca da Rimini, i due amici gareggiano d'entusiasmo quando parlano di Gabriele. "Ho passato parecchi giorni con D'Annunzio — scrive Boiland — e ho per lui una simpatia più viva dopo che ho letto la sua Francesca. La critichi chi vuole: è facile mostrarne le debolezze. Comunque,- per me è la più grande opera italiana dal Rinascimento in qua. Ed è il Rinascimento stesso. Si è inebbriati dall'atmosfera di cruenta voluttà che si sprigiona dal libro. E' bello ed è vero. Si fluire nelle corti di Ravenna e di Rimini: l'uomo che ha scritto questo dramma non è soltanto un grande poeta, è un artista dei Rinascimento. Lasciamo l'Italia a qxiesto Italiano. Gli saremmo troppo inferiori; e non ricominciamo la compassionevole monnavannerìa di Maeterlinck. Mi rallegro quando penso che leggerò presto una Parisina e un Gismondo Malatesta di messer Gabriele. E quale abbondanza di vita c'è in lui! E' più forte e più giovane di cinque anni fa. Che cosa m'importa che sia agli antipodi del mio pensiero e della mia arte! E' un poeta. E pensare che l'Italia gli lesina la gloria!". E Gillet di rimando: "Esprimete a D'Annunzio, vi prego la mia profonda ammirazione per il suo genio. Quale gioia sentire su la terra un poeta! La vita intiera ne è illuminata. E' un diapason sublime, dove ogni anima .energica può ritrovare il tono". E' singolare, e profondamente significativo, questo linguaggio iperbolico in bocca d'uomini tanto diversi da D'Annunzio. Con lo stesso calore era staio salutato Vincenzo Monti fa cui non senza malizia qualcuno ha voluto paragonare D'Annunzio) da chi era in certo modo il suo opposto, voglio dire Alessandro Manzoni. Lo aveva salutato "divino", gli aveva riconosciuto un primato di gloria: "l'età che fu tua". Ed era, per lo meno, anche l'età di Ugo Foscolo! Del suo primato Gabriele aveva coscienza fin da quando, trentenne, scriveva al suo editore Treves: " Credo che non andremo d'accordo se non vi deciderete a distinguermi, anche tipograficamente, dai vostri fornitori di - letteratura amena". E pensare che tra gli scrittori editi da Treves c'era anche Verga! Con maggior esattezza si potrebbe applicare a Gabriele l'espressione manzoniana : " l'età che fu tua ". Quella non fu l'età di Verga, fu l'età di D'Annunzio. Pietro Paolo Trompeo