Ma che resta da fare per Venezia? di Sandro Doglio

Ma che resta da fare per Venezia? MENTRE LA CITTÀ MUORE, INFURIANO LE POLEMICHE Ma che resta da fare per Venezia? Gli stessi veneziani sembrano divisi sul destino della loro città: oasi per turisti, residenza di élite, centro vivo e integrato con industrie e commerci? ■ Intanto chi potrebbe frenare il declino e la morte della Laguna se ne sta con le mani in mano DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE VENEZIA — «Venezia muore», scrivono giornali e riviste e manifesti; ed è anche il titolo di uno dei tanti libri che raccontano la tragedia della città lagunare, insidiata dalle industrie di Marghera e Mestre, dalle acque non più imbrigliate e regolate come al tempo dei Dogi, dagli scarichi delle petroliere e dalla inettitudine degli uomini. A vederla assieme al turista — che di buon mattino scende dal pullman a piazzale Roma e si avvia a far la coda per il vaporetto, e poi sbarcherà a Rialto o in piazza San Marco, per passeggiare nelle calli, in visita ai monumenti, per fotografare colombi, gabbiani, gondole e campanili — Venezia conserva intatto quel che di magico che non è mai legato all'idea di morte, semmai pone interrogativi sul perché e come sia nata questa città che pare frutto di pura fantasia. In questo maggio dal cielo Nl hi i i dl ibl di Vi lt (Cht) ] I imbronciato, il termometro ostinatamente basso, la pioggia che ritorna quasi ogni giorno con testardaggine nordica, persino Tacqua alta che compare fuori stagione a intralciare il passeggio in San Marco, almeno tre volte Venezia ha corso il rischio di essere strangolata e soffocata, sì, ma per l'affluenza eccessiva e disordinata di turisti. Il primo maggio ci fu la storia dei vaporetti: i visitatori venuti da fuori erano tanti, e calati così improvvisamente, che le imbarcazioni di linea non riuscivano a portarli tutti: si racconta di autentici assalti, di gente che si arrampicava sul tetto delle imbarcazioni. Una settimana più tardi, la «vogalonga», rivincita dei veneziani e dei lagunari: a migliaia sono scesi in acqua, con imbarcazioni di tutti i tipi, impegnati in una passeggiata-concorso di alcuni chilometri nei canali e sugli specchi d'acqua davanti alle isole, in una sorta di rivendi¬ cazione ecologica-tradizionale, per dimostrare che la passione antica del mare non si è mai spenta, anzi vive più che mai oggi che il mare attorno a Venezia — e Venezia stessa — è in pericolo. E la gente ad affollarsi sulle sponde, spettacolo nello spettacolo, a dimostrare che Venezia vive, è abitata da gente che ha passioni e cuore, non è disposta a cedere a chi la vuol interrare o legare con altre strade alla terraferma, e resta mondo a sé, da difendere e valorizzare. La terza occasione — tema ancor rovente di polemiche — è stata offerta l'altro giorno a Venezin dal Giro d'Italia, corsa a tappe in bicicletta per giovanotti che pedalalo a spese di industrie , di elettrodomestici, mobili da cucina o prodotti alimentari. Qualcuno — ma subito si è scatenata un'altra corsa per dire «non è colpa mia, io non c'entro» — ha avuto la bella pensata di far e n o n a , n , a a a arrivre i ciclisti e le loro biciclette in piazza San Marco: così si sono gettati ponti provvisori in legno attraverso i canali e si sono spianati i gradini dei tormentati itinerari pedonali della città, per permettere alla carovana dei professionisti del Giro di spingersi fin nel cuore di Venezia, pedalando come forsennati. Stupore dapprima, indignazione poi dei veneziani veri; ma occasione di nuovo per far giungere nella città frotte di curiosi e di turisti. Mentre c'è chi lotta — per la verità con scarsi risultati concreti — per combattere i malanni della città, e con previsioni nere annuncia che se non si fa con urgenza qualcosa, presto tutto franerà e sarà sommerso dalle acque, il rapporto tra i turisti e Venezia prosegue, al contrario sembra svilupparsi ed estendersi, con punte di egoismo da una parte e dall'altra. I turisti vengono e non si accorgono della crisi profonda che travaglia la città; comprano ricordini di vetro ] o di pizzo, mandano cartoline agli amici; resta in loro — è ti risultato di una indagine fatta intervistando a sera a piazzale Roma le comitive che hanno visitato per un giorno la città — l'immagine di un qualcosa di irreale, ed è proprio per questo che in genere vengono. «Stupenda, bellissima», sono i giudizi che si sentono più I spesso ripetere. «Fascino, romanticismo, nostalgia», sono i commenti più meditati. Qualcuno accenna alla sporcizia che galleggia nei canali; molti parlano dei prezzi alti nei bar, nei ristoranti, sui mezzi di trasporto. Quasi tutti dicono che ci vogliono ritornare: come si dice dei musei troppo ricchi, che non si fa mai a tempo a visitare a fondo. Ma ben pochi, a volte nessuno, dimostrano di essersi accorti che c'è gente che vive dentro a quei palazzi; quasi che i veneziani fossero tutti assimilabili al custode del museo, che vive per mestiere tra quadri e statue, ma poi a sera torna a casa e dimentica tutto. E' l'accusa che del resto proprio i veneziani fanno non soltanto ai turisti ma anche a coloro che delle sorti di Venezia si dovrebbero occupare e preoccupare: di guardare a loro e alla loro città come a un museo, una sorta di Disneyland nella laguna, creata artificialmente per essere visitata, punto e basta. Lo spettro che Venezia diventi proprio città-museo, cristallizzata nelle sue strutture, circondata da acque morte, imbalsamata, è la più orrenda, fra le nefaste minacce che aleggiano sul destino di questa laguna. I turisti, si sa, hanno poche colpe. Del resto gli stessi veneziani — certi veneziani — continuano a darsi da fare per impedire loro di vedere in Venezia qualcosa di diverso da una fiera eccezionale e permanente, eretta in mezzo all'acqua. I turisti pagano più caro dei veneziani il biglietto del vaporetto (in virtù di una discutibile affermazione secondo la quale chi deve avere vantaggi sono gli abitanti del posto, i soldi dei turisti servono semmai ad avere servizi migliori nell'interesse di chi nella città vive). I turisti credono di comperare oggetti dell'artigianato vetrario di Murano, spesso invece tornano a casa con un pezzo di vetro «Made in Hong-Kong». Al di là di Rialto, in un negozietto di oggetti ricordo, abbiamo visto un commerciante affrettarsi a staccare da una gondoletta in plastica, prima di venderla a un ragazzino che voleva portarsela a casa, l'etichetta «Made in Romania». Falsi merletti Almeno metà dei merletti di Burano — si dice — sono fatti a macchina in qualche fabbrica dell'Estremo Oriente: alcune vetrerie di Murano — verso le quali, «trasporto gratuito e omaggio di un oggetto prezioso», vengono incanalati i turisti — hanno di vero soltanto l'esposizione; i prodotti sono tutti importati; il forno acceso con due mastri-soffiatori, non costituisce che parte dello spettacolo allestito per attirare i visitatori. Le manifestazioni artistiche, la stessa Biennale, sembrano aver perso quel valore indiscusso — anche se, come è giusto, provocatorio — che avevano anni fa, persino in tempi difficili e di censura fascista. Oggi conservano spesso soltanto il carattere provocatorio, talvolta anche discutibile, senza troppo aggiungervi di arte e di cultura. Dicono che decadendo le città, ne decadono anche le loro capacità artistiche. Del resto sono cose che capitano ormai dappertutto, non c'è da scandalizzarsi. Ma i guai di Venezia stanno proprio nel fatto che non si è ancora sciolto l'antico dilemma. E' città da visitare? E allora cerchiamo di salvarne i musei e le architetture, il fascino sottile dei canali e delle gondole, i piccioni di piazza San Marco, le piazzette silenziose, le fresche e riposanti botteghe del vino. Al diavolo il resto, basta fare in modo che le acque non si portino via tutto. Oppure è città che vive? E' allora bene salvare tutto, ma pensiamo anche a chi sta nelle case di Venezia, e deve vivere, e lavorare; e ha bisogno di acque vive e in movimento, di un porto che dia commerci, di una laguna con pesci e mareggiate. Balli in maschera Se è vero che si sta facendo, nonostante tutto, ben poco per l'una e l'altra ipotesi è vero anche che parlando con i veneziani si registrano incertezze e contraddizioni, facile tema di battaglia per polemiche che finiscono per essere una delle cause più gravi della decadenza della città. Gli uni vogliono fare della città un tempio per pochi privilegiati, e tratteggiano soluzioni forse egoistiche, ma che hanno il vantaggio di render più facili i problemi di Venezia, ignorando o quasi le realtà che sorgono ai margini della Laguna. Gli altri vogliono invece ridar impulso alla città, rinverdirne le glorie — che vennero non dall'aristocrazia, ma dallo sviluppo dei commerci — e si affannano a ripetere che «anche secondo Le Corbusier» questa è forse l'unica città al mondo realmente costruita a misura d'uomo. Ne nascono contraddizioni profonde — forse la vera causa della grave crisi di Venezia, o quanto meno del fatto che non si riesce a far qualcosa di concreto per questa città. Gli uni vorreb¬ bero restaurare palazzi per farne sedi di accademie e di musei; gli altri auspicano mecenati — anche stranieri, secondo la buona tradizione veneziana — che vengano, comperino, restaurino e ridiano lustro e vita alla capitale dei Dogi. Per questi è scandalo il ballo in maschera, la gondola con il baldacchino a 15 mila lire all'ora, la camera del Danieli che costa più di centomila lire a notte; per quelli è obbrobrio portare i ciclisti e il caravanserraglio della loro carovana pubblicitaria e giornalistica davanti al caffè Florian. Venezia è divisa al suo interno, è divisa fra i suoi sostenitori e innamorati; la stessa giunta comunale è talvolta in conflitto con se stessa, non sapendo se deve difendere Venezia città, o dar più peso al maggior numero di suoi elettori che vivono in terraferma e lavorano nelle tanto odiate industrie di Marghera e Mestre. I conflitti si inaspriscono, diventano contrasti. Le polemiche si trasformano spesso in lotte personali. E intanto la città si degrada, il pericolo per la sua sopravvivenza aumenta, non vengono neppure spesi i miliardi già stanziati e raccolti per salvarla. Chi potrebbe far qualcosa finisce quasi col trovare un alibi per starsene, le mani in mano, a guardare. Colpevole, ma impunito. Di tanto in tanto versando una lagrima sulle sortì della Serenissima, che in troppi vogliono salvare, ma per la quale nessuno si decide a fare concretamente qualcosa. A questo punto c'è anche il rischio di far annegare Venezia in un mare di lagrime di coccodrillo. Sarebbe la fine peggiore. Sandro Doglio Nel vecchio «squero» si ripara una gondola, simbolo di Venezia malata (Cameraphoto)

Persone citate: Le Corbusier, Murano