Una mostra scopre la verità sui Galli invasori di Roma di Fabrizio Carbone

Una mostra scopre la verità sui Galli invasori di Roma Una mostra scopre la verità sui Galli invasori di Roma ROMA — Per la prima volta nella sua storia il Foro romano ospita da oggi fino a metà luglio una mostra che è un omaggio, una rivalutazione ma anche la possibilità unica per i visitatori di incontrarsi con il mondo e l'arte dei Celti (noi li abbiamo sempre chiamati Galli). «I Galli e l'Italia» è una esposizione che la Francia aveva chiesto di allestire nella Curia definitivamente restaurata e che è diventata occasione per un duplice confronto: presentare al pubblico le opere d'arte dei Celti d'Oltralpe e quello che, in scavi archeologici come in recuperi occasionali, è stato trovato in molte regioni dell'Italia settentrionale e centrale. Un contributo italiano ad una mostra francese: «Il quadro che emerge è imponente», ha detto il soprintendente alle antichità di Roma, Adriano La Regina, «anche se lo stato assai parziale delle nostre conoscenze non lascia percepire in tutta la sua grandiosità il fenomeno di una Italia padana saldamente tenuta da genti galliche nel corso di molti secoli». A questa antica presenza etnica dobbiamo attribuire valore di componente fondamentale della nostra tradizione culturale. I Celti infatti, originari di una zona tra il versante nord delle Alpi e il bacino dei Carpazi, abitarono in Liguria, in Piemonte, in Emilia, nel¬ le Marche e in una larga fascia dell'Etruria. Per noi resta comunque fondamentale la data del 390 avanti Cristo quando i Galli entrarono a Roma e si diedero al saccheggio. Fu un grande choc per tutti che si inserì nel particolare momento storico delle lotte tra patrizi e plebei; che forse avrebbe potuto dare una svolta unica al futuro di Roma. I plebei proposero di abbandonare i colli e le anse del Tevere e di spostare la città più a Nord, nella piana di Veio. E la leggenda parla di una riunione tempestosa del Senato, finita con la frase storica «Hic manebìmus optime», pare detta da un centurione che per caso si trovò a passare proprio davanti alla Curia. La tensione politica del momento favorì allora la strumentalizzazione da parte patrizia e da parte plebea dell'episodio che, anche nelle memorie future, si ingigantì a dismisura. In verità l'entrata dei Galli a Roma fu traumatica soprattutto a livello psicologico: l'archeologia, che è la migliore verifica delle fonti storiche, ci dice oggi che sì è vero che i Celti saccheggiarono la città ma non vi furono incendi e distruzioni. Fu una scorreria di breve durata: sul terreno, in scavi amichi e recenti, non vi è traccia di distruzioni in quella data. E' forse la più importante «scoperta» della mostra. Ma ce ne sono altre: l'iscrizione ritrovata l'anno scorso ad Orvieto nella necropoli della Canniceli;!. Sull'architrave della tomba 1 è scritto in etrusco: « Mi Aviles Katacinas» (io sono di Avile Katacina). La datazione è sicura: primi anni del VI secolo avanti Cristo. Il nome Katacina è celtico e dimostra come Tito Livio avesse ragione nell'affermare che duecento anni prima del 390 (anno dell'assedio di Chiusi e del sacco di Roma) i Galli fossero presenti nell'Italia centrale. La terza novità della mostra è la certezza che due famosissime statue in marmo, copia romana del gruppo in bronzo dell'acropoli di Pergamo, sono un tutto unico. «Il Gallo suicida con la moglie» (Museo delle Terme) e il «Gallo morente» (musei capitolini), trovati e restaurati nel 1623 e subito esposti nella collezione Ludovisi, sarebbero stati eseguiti tra il 46 e il 44 a.C. per commemorare, in un ambito privato di proprietà di Cesare — come afferma Filippo Coarelli —, le vittorie galliche del dittatore. L'esposizione raccoglie veri tesori: statue e armi, gioielli e fregi, monete d'oro e d'argento tra cui quella serie «astratta» dei Celti Boi, trovata nei primi del Novecento vicino a Campiglia Marittima, in piena Maremma toscana. Fabrizio Carbone

Persone citate: Aviles, Celti, Filippo Coarelli, Galli, Gallo, Pergamo, Tito Livio